Domani si concluderà l’edizione 2022 del Forum di Davos, di nuovo svoltosi in presenza dopo il forzato rinvio causa variante Omicron dell’appuntamento inizialmente previsto, come ogni anno, nel mese di gennaio. Un programma quasi identico, nella sostanza, a quello degli anni passati: gli stessi (o quasi) primi ministri, gli stessi capi di stato, gli stessi top manager con ambizioni da filantropi, gli stessi imprenditori e giornalisti genuflessi in attesa del sacrum verbum illuminato da riportare poi nei rispettivi luoghi di lavoro per dar corso concreto a quanto loro impartito, qualche rampante startupper fresco di Erasmus scelto dall’èlite come nuovo volto copertina di riviste e manifesti annuncianti le prossime tappe previste dal grande Reset globale. Certo, l’iniziativa russa in Ucraina ha avuto forse il merito di ridimensionare il ricco menù a la carte già pregustato da Schwab e soci, ponendo in discussione alcuni dei principi economico-politici fondanti lo stesso WEF come gli scambi globali e l’interdipendenza finanziaria tra governi. Diretta conseguenza dei fatti bellici tuttora in corso è stata l’esclusione dai lavori del meeting di politici e imprenditori russi, compreso lo stesso presidente Putin, più volte ospite della cittadella svizzera (l’ultima volta nel 2021, in diretta streaming) e voce parecchio ascoltata dagli organizzatori, convinti, com’è normale, dell’importanza strategica del dialogo con il leader della seconda potenza economica del globo. Precise ragioni politiche e di riposizionamento geopolitico, superiori persino al rimpianto per la rinuncia alle ricche e ambitissime feste notturne degli oligarchi, sanzionano ormai definitivamente la scelta autoritaria compiuta dall’intero Occidente nei confronti del resto del mondo, proclamando una volta di più la (equivoca) superiorità morale del proprio modello culturale. Nonostante la storia. Nonostante le evidenze.
Pare del tutto logico che a prendere la parola come special guest dell’edizione 2022 sia stato l’uomo che ti aspetti dappertutto, anche quando di notte affamato apri il frigorifero a caccia della fetta di torta avanzata dalla cena, la trovi ma al posto dell’ambito dolciume eccoti lui: Vlodimir Zelenski. L’ennesimo panno, usato e riusato dalle èlite, da strizzare nella latrina delle proprie visioni tiranniche di espansione e dominio per poi essere gettato nel dimenticatoio del genere umano una volta asciutto. Solo che all’ex comico in tacchi a spillo il gioco piace eccome, divertendosi da illuso a cannoneggiare mediaticamente il nemico invocando “il massimo delle sanzioni”, “un embargo sul petrolio”, il “blocco di tutte le banche e la sospensione totale degli scambi commerciali” con la Russia. La resistenza (o resilienza) che tanto solletica i ghiribizzi dei “Davos man” sembra diventata la sola chiave di lettura attraverso cui interpretare la moderna geopolitica.
Tra clima e transizione green, lotta alle diseguaglianze (!) e nuovo impulso alle tecnologie digitali, la cosiddetta Agenda 2030 ideata dal WEF, in pratica il tableau de bord dell’oligarchia finanziaria mondiale, pare procedere spedita. Sono loro a dircelo apertamente. I veli sono ormai caduti, e su un manifesto celebrativo raffigurante un giovane che saluta con ebete sorriso l’avvento dell’era segnata dal “non possiedo più nulla e sono felice”, è possibile intravedere sempre più a chiare lettere il punto d’arrivo del complessivo piano di reset intrapreso dalle èlite di potere con lo scoppio della pandemia da Covid-19 nel gennaio 2020. Tutto diviene quindi reale, soprattutto se a impossessarsi delle coscienze è lo spirito di Paperino, quello del farsi massacrare mostrando docile sopportazione ai colpi in ossequio al più ortodosso e rigoroso dei manuali di resilienza. Tutto può divenire irrimediabile, se “il futuro non accade, perchè è costruito da noi, dalla nostra potente comunità”. Questo si sentenzia in queste ore nei Grigioni.
Gianluca Kamal