La rete mette in contatto l’intero pianeta grazie ai social e alle possibilità offerte dai sistemi operativi. E’ la via della “democratizzazione” diretta e della globalizzazione che incentiva lo sviluppo dei contatti e la diffusione delle idee, delle notizie, della possibilità di essere informati con un semplice contatto.
Raccontata così, la narrazione del web nell’era della globalizzazione fa sentire tutti, specialmente i giovani e i giovanissimi, baciati dal destino per questa epoca dei social. Ma la situazione non è proprio così. Il prezzo è alto.
Anni fa, il famoso linguista Tullio De Mauro, esperto in competenze di alfabetizzazione e di calcolo commentò (https://www.youtube.com/watch?v=Jt7-Oo8K94o), in qualità di presidente della Commissione, gli esiti di un’indagine condotta dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e intitolata Piaac (Programma per la valutazione internazionale delle competenze degli adulti), su ventitré Paesi nel mondo. Si prendevano in esame persone dai 16 ai 65 anni e si definivano cinque livelli di alfabetizzazione: dall’analfabetismo e difficoltà di comprensione (i primi due livelli) fino agli altri tre gradi che riguardavano la piena comprensione, l’analisi, la capacità di scrittura di grafici, calcoli, testi, ecc. I dati che emersero furono allarmanti: ben il 70 per cento delle persone in età da lavoro si collocava nei due gradi più bassi. Lo stesso la Spagna e altri Paesi, con percentuali a scalare (Francia, Gran Bretagna, Germania ecc.). Paesi virtuosi, per sistema scolastico e per diffusione della lettura, come Giappone, Finlandia, Paesi Bassi ecc. sfioravano il 39 per cento di analfabetismo. Un problema che sarebbe peggiorato. I giovani che usano computer e frequentano i social, si rinchiudono in se stessi, secondo la commissione, e le capacità cognitive si atrofizzano.
Non solo. Internet, rispetto alle aspettative di un primo momento, ha deluso su alcuni aspetti che dieci anni fa erano considerati scontati: comunicazione più diretta e più rapida, ridotto costi di produzione e di accesso all’informazione, ma anche il raggiungimento di un minor squilibrio di beni e risorse, una diffusa competizione fra imprenditori ecc. Invece, la rete ha fatto aumentare la differenza fra povertà e ricchezza, ha contribuito a impoverire la piccola e media borghesia, lasciando alla fine che il mercato globale fosse spartito fra colossi come Google, Amazon, Facebook, Twitter ecc. Non solo: anche chi parlava di democrazia diretta, con l’uso della rete, è stato smentito perché manca una visione d’ordine degli interventi nei vari social che però soggiacciono a sistemi di controllo.
I social e i colossi aziendali sono strumenti di consenso ma anche elementi di diffusione del sapere che talvolta potrebbe essere anche predefinito, al servizio di strutture potenti che divulgano ideologie attraverso informazione e notizie ben specifiche. Il rischio è che le grandi aziende del web ben attrezzate possono essere al servizio di lobby. Il successo di Obama alle elezioni a presidente degli Usa grazie all’uso dei social è divenuto un caso di studio. Grazie alla rete, infatti, si conoscono i gusti dei consumatori, che lasciano una traccia inequivocabile in base ai siti che visitano e gli acquisti che effettuano on line. Insomma, la preponderanza della rete, la carenza di lettura, la diffusione per ogni cosa dei social e il ricorso per ore e ore al giorno a Google, Facebook, Amazon porterà sempre più a un peggioramento delle capacità cognitive e della capacità di critica.
Uno studioso statunitense, Nicholas Carr, si è posto una domanda alla luce delle analisi compiute su persone che utilizzano costantemente, e per molte ore al giorno, Internet: “Google ci renderà stupidi? Sì, principalmente Google ci rende stupidi”. Per sua stessa ammissione aveva notato che verso i 40 anni non aveva più la resistenza nel leggere un libro. Iniziava a leggerlo, poi lo lasciava, lo riprendeva, lo abbandonava. Lui che per anni aveva divorato libri. Poi, comprese da sé la causa: Internet. Navigare fa male. Navigando si passa da un sito all’altro, da una notizia all’altra, non si mantiene una continuità mentale o comunque la concentrazione su un tema di ricerca. Non ci si concentra su una questione ma si passa da una notizia all’altra rendendo impossibile mantenere la continuità di pensiero. Un altro scienziato, Gary Small, ha dimostrato che l’organizzazione mentale dei giovani che usano i videogame e la rete è impedita, ritardata, non collegata a un procedimento logico. Quali sono gli esiti sulle sinapsi, sul cervello dei giovani e giovanissimi? Disastrosi, secondo gli esperimenti di Small, Bookheimer e Moody: perdita e riduzione di competenze convenzionali scontate in precedenza. La diminuzione delle competenze poiché si sviluppa maggiormente la vita virtuale, fatta di Skype, Twitter, Facebook, Instagram, anziché interagire con persone dal vivo, abitualmente. L’attenzione viene spezzata, frammentata a causa del fatto che si è concentrati sul computer, attenti alle risposte al cellulare, a WhatsApp, all’arrivo di mail ecc.
Gli esperti lo chiamano switching cost: se la mente viene sempre distratta si perde il filo di ciò che si sta facendo e si deve fare sempre uno sforzo maggiore per ritrovare la logica del discorso. Quindi, sforzi mentali che non hanno a che vedere con quello che si stava facendo, una serie di attività che comprime la concentrazione e fanno perdere qualità alla comprensione. Non solo: tutto questo spiega anche perché lo studio effettuato on line con le nuove tecnologie elettroniche coinvolge la “memoria episodica”, quella epidermica, stimolata dai sensi, e funzionerebbe diversamente da quella finalizzata a trattenere più informazioni possibili. Risultato: il contatto ipertestuale o quello utilizzando più link nel breve termine danno risultati, però, nel medio e lungo termine, i dati vengono perduti dalla memoria (quella dello studente, non del computer).
Insomma, ai rischi del controllo sociale e della sorveglianza attraverso la rete si somma un impoverimento di capacità di riflessione, di concentrazione e di memoria. Siamo così sicuri che il progresso porti solo cose positive?
Manlio Triggiani