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NOI E LORO: QUANDO FU TRACCIATO IL CONFINE. PARTE 2. Di Arianna Parissi.

Segue dalla prima parte – Con il suo cogito, ergo sum, Cartesio è forse diventato il paradigma del filosofo in quanto colui che si interroga su una delle questioni fondamentali che il pensiero umano si è posto: esso stesso. L’uomo è tale in quanto in grado di autopercepirsi, autopensarsi e concepire perciò il mondo non solo in funzione dei propri bisogni, come il luogo nel quale si trovano acqua, cibo e riparo, ma come un sistema integrato, un Tutto composto di Parti e l’unico in grado di acquisire la consapevolezza che una di tali Parti è proprio lui. I filosofi greci sono stati tra coloro che più hanno dibattuto in merito alla posizione dell’uomo nel κόσμος (kosmos “ordine universale”), soprattutto proprio a partire dall’epoca immediatamente successiva alle Guerre Persiane. Prima di questo scontro epocale, infatti, gli Elleni non conoscevano sostanzialmente altra Weltanschauung che la propria, che attribuivano perciò automaticamente ad ogni altro popolo.

L’esempio più evidente è la rappresentazione della guerra di Troia offerta da Omero. Da un punto di vista etnico, i Troiani sono frigi, dunque barbari ed occupano proprio quell’area dell’Asia Minore che in seguito sarà considerata la più occidentale delle terre non elleniche. Ciononostante, sono numerosi, nell’Iliade, i riferimenti che attestano una comunanza di fede. Sebbene infatti si possa considerare irrilevante il fatto che solo gli dèi olimpici siano menzionati come attori che intervengono direttamente in combattimento, motivandolo con il fatto che il poema è un prodotto della cultura greca, in un passo specifico vediamo Ecuba condurre un gruppo di nobildonne troiane al tempio di Atena, per offrirle doni e pregarla di volgere a favore della loro città le sorti del conflitto:

 

e poi vivido vino libare a Zeus con mani impure

non oso; non è permesso, al Cronide nube nera

rivolgere preci sporco di fango e di sangue!

Ma tu al tempio d’Atena Predatrice

sali con offerte, e prima riunisci le Anziane;

e il peplo più splendido e grande

ch’hai nella stanza, e che ti è appunto il più caro,

ponilo sulle ginocchia d’Atena chioma bella

e prometti che dodici vacche nel tempio,

d’un anno, non dome, immolerai, se avrà compassione

della città, delle spose dei Teucri, dei figli balbettanti,

se allontanerà il figlio di Tideo da Ilio sacra,

il combattente selvaggio, il duro maestro di rotta.

Su, dunque, al tempio d’Atena Predatrice,

tu sali, […].[1]

 

I frigi Troiani, dunque, venerano gli stessi dèi dei loro nemici, sono equipaggiati con la stessa tipologia di armamento e combattono secondo le stesse tattiche, com’è evidente da innumerevoli descrizioni sparse nell’arco del poema; tutti indossano corazze, schinieri ed elmo di bronzo con pennacchio piumato e combattono con la spada, una lunga lancia e un paio di giavellotti da getto: il tipico armamento che, in età classica, caratterizzerà gli opliti.

Non potrebbe essere più diversa la descrizione che Erodoto fornisce dell’esercito persiano, che occupa buona parte del libro VII. Ponendosi nella scia dell’omerico Catalogo delle Navi, il logografo elenca minuziosamente quali popoli ne fanno parte, da dove vengono, ma, soprattutto, come sono armati: vi sono arcieri, fanti e cavalieri, ma anche carristi e addirittura truppe cammellate. Il racconto prosegue con una rapida carrellata dei territori attraversati da Serse per raggiungere la penisola greca da Nord; anche questo racconto si risolve in un elenco di nomi degli ἔθνη (ethne “etnie, popoli”)[2] via via attraversati, meno importanti ai fini della narrazione e perciò trattati più rapidamente, dettaglio che non modifica comunque l’essenza dell’approccio. Questi popoli sono altro dai Greci: diverse sono le armi, l’abbigliamento, in molti casi il colore della pelle e l’aspetto, diverse le tattiche belliche e i motivi che li spingono a combattere. Contro di loro, si coalizzano le πόλεις (poleis “città”) della Penisola e dell’Asia Minore: gli Ioni delle isole e della terraferma, che hanno dato inizio alla rivolta, sono affiancati presto non solo dai loro consanguinei dell’Attica, ma anche dai Dori peloponnesiaci; in virtù del miglior addestramento e superiore potenza militare, anzi, proprio a Pausania, reggente di Sparta, è affidata la προστασία (prostasia), il comando in capo delle truppe.

Convenuti, quindi, nel medesimo luogo, quelli fra i Greci che erano animati dai migliori propositi verso la Grecia stessa, consultatisi e scambiatisi pegni di reciproca fedeltà, allora, nel corso di una deliberazione, stabilirono che la prima cosa da fare era di por fine alle inimicizie e alle guerre che li mettevano gli uni contro gli altri.

 

“[…] di inviare ambasciatori ad Argo, per stringere un patto di alleanza contro la Persia; altri ambasciatori mandarli in Sicilia, presso Gelone, figlio di Dinomene e a Corcira, per esortarli a venire in soccorso della Grecia; altri ancora a Creta, con il proposito di vedere se mai di tutto il mondo greco si poteva fare un solo blocco e, accordatisi, tutti avrebbero agito con unità di intenti, rendendosi conto che gravi pericoli minacciavano i Greci tutti allo stesso modo.”[3]

 

Significativamente, Erodoto sottolinea che l’alleanza viene stretta nonostante attriti irrisolti tra le πόλεις (poleis “città”), in special modo Atene ed Egina, confinanti e perciò spesso in conflitto. Nel paragrafo riportato e in quelli immediatamente precedenti e successivi, inoltre, ricorrono spesso i sostantivi Ἥλληνες (Hellenes “Greci”) ed Ἥλλας (Hellas “Grecia”) e, in contrapposizione, il toponimo Ἀσίη (Asie “Asia”). Si tratta di un’onomastica in precedenza piuttosto rara: fino ad allora era infatti più comune indicare i luoghi con i nomi delle singole città o ἔθνη (ethne “etnie, popoli”) ivi situati. Il padre della storiografia, invece, è ben chiaro su questo punto fin dall’inizio della sua opera:

 

Fino a questo punto, si trattava soltanto di rapimenti tra l’un popolo e l’altro; ma, da questo momento, grave divenne la responsabilità dei Greci; poiché furono i primi a muovere in armi contro l’Asia, prima che quelli d’Asia venissero contro l’Europa.

Ora, a giudizio dei dotti persiani, se il rapir donne è azione da uomini ingiusti, è agire da stolti il prendersi pena per vendicarle; mentre è da uomini benpensanti non curarsene affatto, poiché è chiaro che, se esse non volessero, non si lascerebbero rapire.

Orbene, gli abitanti dell’Asia, dicono i Persiani, non si preoccuparono per nulla delle donne rapite; mentre i Greci, a causa d’una donna spartana, raccolsero una grande spedizione militare, e, venuti in Asia, distrussero il regno di Priamo.

Da allora, sempre, tutto ciò che è greco è da loro considerato nemico. Poiché i Persiani considerano l’Asia e i popoli che vi abitano come cosa loro; con l’Europa, invece, e con il mondo greco in particolare, ritengono di non aver nulla in comune.“[4]

 

Viaggiatore instancabile e per sua stessa definizione “osservatore”, Erodoto ha percorso l’impero persiano in lungo e in largo. È quasi certo che non l’abbia fatto interamente di persona; ciononostante, il suo metodo storiografico prevede il ricorso esclusivo all’αὑτοψία (hautopsia), la descrizione di luoghi e il racconto di fatti di cui si è stati testimoni oculari, o al massimo in merito ai quali si sono potuti intervistare coloro che lo sono stati. Applicando questo metodo, egli avrà indubbiamente potuto raccogliere una mole di notizie rilevante sia per quantità, che per qualità: fatti di cronaca, ma anche leggende, informazioni etnografiche ed antropologiche, notizie sulla geomorfologia dei luoghi e sugli animali e le piante caratteristici dell’una o dell’altra regione; tutti dati che ha finito per inserire nelle sue Ἱστορίαι (Historiai).

Questa così ampia varietà di contenuti ha portato alcuni studiosi moderni a supporre che l’opera erodotea sia, nella forma in cui ci è pervenuta, il risultato della collazione di più testi da lui scritti precedentemente e riguardanti i diversi popoli inclusi entro i confini del multietnico impero persiano: si spiegherebbero così le ampie digressioni dedicate agli usi e ai costumi degli Egiziani e degli Sciti.

Questa tesi, detta analitica, presenta però alcune criticità. Le Storie, infatti, prese nel loro complesso e lette dall’inizio alla fine, narrano, a conti fatti, la storia dell’impero persiano, a partire dagli antefatti che condussero alla sua fondazione e fino alla ritirata delle ultime truppe di Serse da Sesto. Per tale motivo, un gruppo altrettanto nutrito di filologi si è dichiarato convinto di una genesi unitaria dell’opera, di volta in volta proponendo fili rossi diversi che ne tenessero unite le varie anime. Tra le ipotesi avanzate al riguardo, quella accennata sopra, che cioè Erodoto abbia voluto narrare la storia dell’impero persiano, appare la più plausibile: all’interno di questo quadro, infatti, le digressioni etnografiche si inserirebbero perfettamente a titolo di approfondimenti che vanno a creare una sorta di ipertesto ante litteram.[5]

Anche questa seconda ipotesi, però, pare inadatta a spiegare alcune caratteristiche dell’impianto dell’opera erodotea. Per scrivere una storia dell’impero persiano, perché ripartire dalla guerra di Troia? Perché dedicare l’intero libro I alle vicende non della Persia, ma della Lidia di Creso? Pur tenendo conto del fatto che, per un Elleno del V secolo, l’Iliade era una fonte perfettamente attendibile, le vicende ivi narrate non sono in alcun modo connesse con la storia del popolo medo. Per converso, la perdita di Sesto ad opera degli Ateniesi di Santippo non costituì certo la fine dell’impero persiano, che rimarrà la maggior superpotenza mondiale per altri due secoli dopo quell’assedio che ebbe termine nella primavera del 478 a.C.

Se si rifiutano entrambe queste linee interpretative, è dunque necessario cercarne una terza. Non si può infatti assumere che le Storie non obbediscano ad un piano ben definito: l’opera è compiuta e, benché la data di morte di Erodoto non sia nota, si può dedurre da riferimenti interni che fosse in fase di stesura durante la guerra del Peloponneso, scoppiata ben cinquant’anni dopo che l’ultimo Persiano aveva abbandonato il suolo europeo.

Se è così, allora forse proprio quest’ultimo dettaglio può aiutare a capire.

Erodoto apre le sue Ἱστορίαι (Historiai) raccontando i primi interessi dei Fenici per le rotte mediterranee.

 

Raccontano i dotti persiani che furono i Fenici a provocare l’inizio delle ostilità: non appena, infatti, questi dal mare così detto Eritreo s’affacciarono a questo nostro mare e si stanziarono nella regione che tuttora essi abitano, subito si diedero a grandi navigazioni, trasportando merci egiziane e assire; tra l’altro, sarebbero giunti anche ad Argo ‒ in quel periodo, Argo primeggiava in tutto tra le città del paese che ora si chiama Grecia.”[6]

 

Questo popolo di navigatori e mercanti, stanziato nell’attuale Libano, inizialmente dedito agli scambi lungo le coste del Mar Rosso e del Golfo Persico, che i Greci chiamavano ἐρύθρη θὰλασσα (Erythre Thalassa “Mar Rosso”) senza distinguere tra coste occidentali e orientali della penisola araba, avrebbe poi ampliato il suo giro d’affari verso Occidente. Questi scambi sono testimoniati

Carta di distribuzione dei vaghi ornitomorfi in pasta vitrea [7]
sin da epoca molto antica; risalgono all’VIII sec. a.C. le più alte datazioni di reperti archeologici noti che testimoniano traffici tra la penisola italica, l’Eubea e le coste della Fenicia: in tutta quest’ampia area sono stati infatti rinvenuti vaghi ornitomorfi in pasta vitrea e altri ornamenti, nonché ἀρύβαλλοι (aryballoi “ampolle”) di stile orientale e ceramiche di varia tipologia, su tutte la celeberrima Coppa di Nestore di Ischia, accomunate da uno stile chiaramente orientale. Le analisi sui reperti hanno confermato che si tratta di prodotti di importazione anatolica.

È possibile dunque che le notizie così confusamente e sinteticamente riportate da Erodoto costituiscano la testimonianza orale del ricordo di questi scambi risalenti a tre secoli prima e non dimostrati da altre fonti certe che non siano quelle mute offerte dall’archeologia. Nell’Età del Bronzo, l’Eurasia era ancora saldamente unita e nessun confine culturale era stato eretto a spezzarla artificialmente in due continenti. Furono Leonida e Temistocle a tracciarlo: fosse stato per Serse e i suoi satrapi, l’Asia forse si sarebbe estesa fino alle coste dell’Atlantico. Quegli strateghi capirono immediatamente cosa stavano separando, quali differenze stavano preservando. E non è certo un caso che il primo civile a vedere quel nuovo confine fu un Greco d’Asia, uno Ione, cresciuto in una regione che, come tutte le frontiere, non è un muro, ma una rete, ai due lati della quale si tengono a distanza e si guardano, da duemilaseicento anni, due religioni, due stirpi, due modelli di organizzazione dello Stato e di ordinamento dell’universo intero. A Occidente noi, a Oriente loro.

[1] Hom. Il. 6, 266-280. Trad. Calzecchi Onesti.

[2] I Greci hanno due termini per indicare la popolazione di una certa area geografica: δῆμος (dèmos) o λάος (laos) si riferisce al “popolo” in quanto suddito dello stesso re o comunque soggetto alle stesse leggi; ἔθνος (éthnos) indica il “popolo” in quanto accomunato dalle stesse origini mitiche, fede religiosa, usanze etc… Ovviamente, i due concetti possono non coincidere: nella Grecia delle πόλεις (poleis), ogni singola città identificava un δῆμος (dèmos), ma tutti i Greci erano consapevoli di appartenere allo stesso ἔθνος (éthnos).

[3] Hdt. 7, 145.

[4] Hdt. 1, 4.

[5] Cfr. M. Bettalli (a. c. d.), Introduzione alla Storiografia Greca, Carocci, Roma 2009 pp. 49-51.

[6] Hdt, 1, 1.

[7] Cfr. M. Martelli ‘I Fenici e la questione orientalizzante in Italia’ in Atti del II Convegno Internazionale di Studi Fenici e Punici, Roma 9-14/11/1987, Roma, 1991 pp. 1050-1053.

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