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UNA SANITÀ CAGIONEVOLE DI SALUTE. Di Adriano Segatori.

Ne è passato di tempo da quando la medicina si è sganciata dal senso del sacro per affidarsi alle aspettative terapeutiche della tecnica, tutto per cercare di allontanare, se non proprio evitare, l’evento ineluttabile della morte. Non più la natura, quindi, ad esercitare la sua funzione decisiva sull’uomo, sulla sua esistenza terrena, magari con la prospettiva di salvezza trascendente di competenza religiosa, ma un apparato scientifico sempre più sofisticato nella meccanizzazione della vita e della stessa morte. Dai fecondatori ai tanatocrati, insomma.

Un bene, tutto ciò? Anche sì, se consideriamo, ad esempio, i supporti diagnostici per una precoce e salvifica diagnosi, o gli ausili farmacologici per affrontare il problema del dolore, o la scoperta delle terapie per le infezioni e i trattamenti tumorali. Sicuramente un guadagno nelle opportunità di debellare malattie un tempo inesorabili, nelle capacità riabilitative delle tecniche sanitarie, nel miglioramento delle prestazioni in caso di disfunzioni debilitanti. Basti pensare alle tecniche di regolazione neurologica, di controllo glicemico, di regolarizzazione cardiaca – nel caso, ad esempio del Morbo di Parkinson, del diabete, delle aritmie – con l’impianto di elettrodi cerebrali, con i sensori sottopelle, con il pacemaker.

La tecnologia, quindi, a supporto del benessere fisico nelle sue tre opzioni di prevenzione, di diagnosi e di cura.

È evidente che nessuna persona ragionevole e di coscienza sarebbe disposta a rinunciare a questi e ad altri ausili per ritornare ad uno stadio in cui era solo la natura a decidere sulla salute, sulla malattia e sulla morte dell’uomo.

Il problema, però, si pone nel momento in cui la tecnica perde il controllo e dilata la propria azione di intervento.

È certamente una questione di difficile soluzione, perché la tecnica non conosce etica; essa ha per suo statuto solo la funzione: un obiettivo da raggiungere con il massimo dell’efficienza e dell’efficacia, con il minimo sforzo. Da ciò la pericolosità di ridurre l’uomo ad un meccanismo al quale fornire una buona manutenzione fino alla rottamazione finale.

Siamo passati da una medicina legata alla religione e alla filosofia, da una iniziazione alla medicina attraverso l’opera di un maestro ierofante – svelatore del sacro –, ad una iatromeccanica che ha perduto il suo aspetto olistico di corpo, mente e anima, ad una parcellizzazione di conoscenze pratiche per un individuo ridotto a sistema settoriale.

Bene, male? Giusto, sbagliato? Una scelta radicale è pressoché impossibile. Come in ogni prodotto del cosiddetto progresso c’è una perdita nel rapporto con la complessità di quell’unica ed irripetibile occasione che si chiama vita.

In questo cambiamento c’è la riduzione di questa esperienza singolare e straordinaria ad un criterio di benessere vegetativo, materiale.

C’è in grande dibattito in corso sulle nuove tecnologie, sull’identità digitale, sulla nuova concezione del Sé, e sul corpo come strumento di conoscenza del mondo e della natura.

In sostanza, la medicina, e più in generale le scienze e le tecnologie preposte alla conoscenza e alla cura del corpo umano, hanno superato i confini della terapia e dell’assistenza per entrare nel campo minato della manipolazione del genotipo e del fenotipo. Quando nel saggio di Karl Schwab, La Quarta Rivoluzione Industriale, si parla di “una vera e propria trasformazione dell’umanità” (p. 13) in cui sarà la “biologia di sintesi che darà la possibilità di creare organismi con determinate caratteristiche attraverso la modifica del DNA” (p. 38), per giungere agli “esseri umani [fino] alla creazione di bambini i cui geni sono stati progettati o che posseggono tratti particolari” (p. 40), è evidente che il piano soverchia la cura e diventa creazione. E quando i transumanisti parlano di “libertà morfologica“, e “la tecnologia prenderà il posto del Dio di Abramo”, cosicché avremo la possibilità di decidere sul “nostro stesso destino. La nostra mortalità sarà nelle nostre mani. Saremo in grado di vivere quanto vorremo” (Mark O’Connell, Essere una macchina), la strategia diventa manipolazione pura e delirio prometeico.

Per capire questa deformazione, che è di pensiero e di visione del mondo, ci viene in soccorso la lingua tedesca a chiarirci le idee: Heilung, cura; Heil, salute/salvezza; Heilung, santità/sacro. Medicina intesa come strumento di manutenzione e riparazione del Körper, assemblaggio meccanico di organi ed apparati, oppure dispositivo di accudimento e di miglioramento del Leib, organismo vissuto, animato? E vita, in senso ancora più ampio, come soddisfazione artificiale a livello vegetativo, oppure come esperienza progettuale con un significato trascendente nella nascita e nella morte?

È in questo quadro desolante di disumanizzazione post-moderna che si inserisce a pieno titolo il disfacimento del rapporto medico-paziente.

Con l’aziendalizzazione della sanità, in nome e per conto della distorta interpretazione di una relazione ritenuta di paternalistica sudditanza, il medico è diventato un prestatore d’opera e il paziente un cliente usufruitore di un servizio. Quello che era un legame anche affettivo di conoscenza reciproca si è trasformato in un contratto, e quindi la perdita di ogni valenza estranea alla funzione tecnica. In questo senso, il colpo di grazia lo darà la tanto decantata telemedicina, attraverso la quale ogni contatto sarà mediato dalla macchina e dallo scambio di informazioni computerizzate.

Nel marasma post-moderno, quello che è in gioco è il rapporto umano, che proprio la malattia e la morte, con la paura ad esse associate, erano le esperienze di maggiore coinvolgimento e di più profonda e coinvolgente espressione. L’umanesimo terapeutico è morto, e con esso l’uomo come da sempre è stato inteso.

Adriano Segatori

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