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VIAGGIO ATTRAVERSO I GASDOTTI D’EUROPA: CAUSE E CONSEGUENZE DEL CONFLITTO RUSSO-UCRAINO. Di Ada Oppedisano.

I venti di guerra gelano l’Europa. Abituati ad essere fruitori passivi di ciò che accade fuori dai nostri confini, ci troviamo, oggi, da europei, a chiederci quali possano essere le conseguenze concrete del conflitto russo-ucraino riaccesosi nelle scorse settimane. Impauriti, sconcertati, ma soprattutto, disorientati, guardiamo al futuro senza porci quesiti sul passato, chiedendoci quali saranno le conseguenze del conflitto, senza però porre il punto sulle cause che spesso, infine, si rivelano essere il campo minato delle conseguenze stesse. Se da un lato i moventi dello scontro sono strettamente di natura militare e strategica, dall’altro canto non bisogna perdere di vista la complessa questione della politica energetica per le forniture di gas russo all’Europa occidentale, passando attraverso i paesi dell’ex area di influenza sovietica.

La Russia svolge un ruolo strategico nel settore energetico europeo, essendo il più grande Paese esportatore di gas naturale verso l’Unione Europea. Tale Paese, da alcuni anni, conduce una politica energetica caratterizzata da aperture e contro aperture nei confronti dell’UE e dei paesi posti ai suoi confini occidentali, facendo leva sulla loro dipendenza dalle forniture di gas russo per espandere la propria influenza politica ed economica a livello regionale e globale. A fronte di tale politica, obiettivo della politica energetica dell’UE è invece il raggiungimento della sicurezza energetica, intesa come certezza delle forniture e affidabilità delle infrastrutture utilizzate per il trasporto delle fonti energetiche, in un contesto di protezione ambientale.

La Russia, consapevole di possedere le prime riserve mondiali di gas, le settime riserve accertate di petrolio e di godere di una fortunata posizione geopolitica, ha intrapreso un percorso strategico volto a raggiungere la posizione di vera e propria potenza energetica mondiale sulla scena internazionale.  A partire dal 2002, il consolidarsi della percezione che i prezzi di gas e petrolio sarebbero rimasti elevati per lunghi periodi portò la Russia ad adottare due decisioni fondamentali: la prima fu quella di fermare il processo di privatizzazioni nel settore, al fine di rafforzare il ruolo dello Stato nella partita energetica globale di inizio millennio; la seconda fu quella di mirare al controllo totale dei percorsi di transito del gas verso la UE ed i paesi limitrofi, facendo balenare, nel contempo, la possibilità di una diversificazione del suo export verso i nuovi mercati di Cina e India, ad evidente discapito del soddisfacimento della domanda europea.

Tale strategia energetica è stata percepita dagli Stati dell’UE come un’autentica minaccia alla sicurezza energetica europea, essendo evidente la dipendenza dell’Europa dalla strategia settoriale russa. I rischi connessi ad una eccessiva dipendenza dalla Russia si manifestarono d’altronde già all’inizio del 2006, quando Mosca tagliò per un breve periodo di tempo la fornitura di gas all’Ucraina, a causa di una controversia sui prezzi che ebbe impatto anche su alcuni Stati membri dell’UE. Le interminabili dispute sulle tariffe riguardanti l’acquisto di gas da parte ucraina e il transito di gas russo verso occidente, avevano infatti reso il calo delle esportazioni di Gazprom[1] una preoccupante tradizione invernale, inaugurata con questa prima crisi nel 2006, scampata per poco nel 2007 e 2008, ma ripresentatasi acutamente nel gennaio del 2009 con un prolungato blocco delle forniture. La situazione allora era stata risolta con l’invio di un gruppo di osservatori europei incaricati di verificare i flussi di gas presso i punti di confine tra Russia, Ucraina e Polonia e con la stipula di un nuovo accordo sottoscritto dall’allora primo ministro ucraino Yulya Tymoshenko e da Putin. Il contratto firmato nel gennaio 2009, di durata decennale, fu alla base di transito e compravendita di gas russo in Ucraina (che beneficiò di un 20% di sconto sulla materia prima) e per un periodo di tempo era riuscito ad evitare ulteriori interruzioni nella fornitura di gas marchiato Gazprom a paesi dell’Unione europea.

Uno dei nodi essenziali della strategia russa degli ultimi anni è stato quello di procedere alla costruzione di nuovi gasdotti utili ad aggirare quei Paesi su cui transitano le forniture di gas della Federazione per i beneficiari finali. Nel caso specifico, evitare il transito attraverso l’Ucraina sta diventando sempre più una necessità: da qui passa il 26% del gas russo rivolto all’UE[2].  Risvolto fattuale di questa politica è sicuramente il gasdotto Nord Stream, che, partendo da Vyborg in Russia, arriva direttamente a Lubmin, vicino a Greifswald in Germania, attraversando 1.200 km di Mar Baltico: inaugurato alla fine del 2011, è il primo collegamento diretto tra centrali di produzione russa e un Paese dell’Unione, che permette a Gazprom (che controlla il 51% dell’infrastruttura da 7.6 miliardi di euro) di conseguire un accesso diretto al mercato europeo, eliminando il passaggio attraverso Bielorussia, Polonia, i tre Paesi Baltici e, ovviamente, l’Ucraina. L’Italia ha svolto un ruolo non indifferente nell’affare Nord Stream: l’azienda italiana Saipem si è occupata della posa dei tubi in mare, Snamprogetti ha curato la parte ingegneristica di progettazione e numerose sono state le aziende valvoliere nostrane ad essere state coinvolte nel progetto. I tedeschi, con ogni evidenza, continuano ad essere clienti importantissimi per Mosca: la Germania, almeno fino allo scoppio di questa seconda crisi russo-ucraina, si conferma come primo mercato estero per Gazprom e con prospettive di sviluppo notevolissime in seguito alla decisione da parte di Berlino di rinunciare al nucleare civile per la produzione di energia elettrica. Ulteriore elemento di rinforzo in questa direzione è stata la costruzione di una pipeline parallela a Nord Stream, la Nord Stream 2, pronta ormai da mesi, il cui scopo sarebbe dovuto essere quello di raddoppiare il flusso diretto di gas dalle sponde russe a quelle tedesche. Nord Stream 2 è stata una delle prime vittime che ha subito il peso delle sanzioni occidentali imposte alla Russia a seguito della guerra con l’Ucraina: il 23 febbraio scorso, il Dipartimento del tesoro degli Stati Uniti, Office Foreign assets control, ha imposto, tramite un ordine esecutivo, di porre fine ad ogni transazione con Nord Stream 2 Ag (una controllata del gruppo Gazprom con sede in Svizzera, capofila del progetto di questo gasdotto parallelo) e con qualsiasi società da essa posseduta con una quota superiore al 50%. Il giorno prima, il 22 febbraio, anche il cancelliere tedesco O. Scholz aveva bloccato il processo di autorizzazione alla pipeline. 140 dipendenti della sede di Zurigo di Nord Stream 2 Ag sono stati licenziati il 1 marzo: la società rischia la bancarotta, il gasdotto di non entrare mai in funzione.

Ulteriore progetto abortito, nato in questa direzione politica, è stato il South Stream, che ha visto la sua conclusione nel 2014 a seguito della prima crisi russo-ucraina: anche in questo caso si parla di una vittima sacrificale delle sanzioni imposte dalla comunità internazionale. Il South Stream sarebbe dovuto essere connesso al Blue Stream, pipeline che trasporta il gas russo sotto il Mar Nero verso la Turchia, per portare il gas direttamente alla Romania, alla Bulgaria e, dunque, al resto dell’Europa Orientale. Quanto al percorso, tale gasdotto, nel tratto offshore, prevedeva l’attraversamento del Mar Nero dalla costa russa di Beregovaya (stesso punto di partenza del Blue Stream) a quella bulgara, con un percorso complessivo di circa 900 km e profondità massime di oltre 2000 metri. Per il tratto onshore, dalla Bulgaria erano previsti due diversi percorsi, uno verso nord-ovest e l’altro verso sud-ovest: la rotta sud prevedeva il passaggio da Grecia e Albania, con arrivo ad Otranto tramite il gasdotto Poseidon; la rotta nord prefigurava il passaggio da Romania (o, in alternativa, Serbia), Ungheria, Austria ed arrivo nel Nord Italia (probabilmente, Tarvisio). Nel giugno del 2007 Gazprom ed Eni firmarono un memorandum d’intesa per la realizzazione del South Stream: l’accordo prevedeva lo studio della fattibilità tecnica ed economica del progetto, le opportune verifiche politiche e regolatorie e definiva le modalità di collaborazione tra le due società per la progettazione, il finanziamento, la costruzione e la gestione tecnica e commerciale dei gasdotti. Nel 2014, l’Italia si è dovuta allineare alle decisioni dell’UE e dei suoi alleati, rinunciando ancora una volta alla collaborazione strategico-economica con la Federazione Russa, che avrebbe a sua volta potuto beneficiare del know how delle aziende italiane e nell’eccellenza tecnica delle stesse. Eni cedette alla fine del 2014 il suo 20% di quota a Gazprom, annunciando la fine di un progetto di portata faraonica. Questa situazione favorì la Turchia, a cui la Russia concesse un 6% di sconto sul costo del gas e l’aumento quantitativo di 3 miliardi di metri cubi lungo la rotta del Blue Stream (condizioni poi cessate a causa del deterioramento dei rapporti nelle relazioni russo-turche di pochi anni più tardi).

E l’Unione Europea? In tale contesto, la politica europea nei confronti della Russia risulta essere spesso ambigua, in parte per l’incapacità degli Stati Membri di convergere su una posizione comune, in parte per i timori nutriti da alcuni Paesi ex satelliti dell’Unione Sovietica all’interno dell’UE.  Trovare una risposta comune si è rivelata in effetti un’impresa ardua per gli stati membri dell’UE, stretti tra la eccessiva dipendenza dalle forniture del gigante russo, con cui rimane opportuno mantenere legami amichevoli, e la necessità, condivisa anche dagli USA, di diversificare gli approvvigionamenti contro gli interessi del principale fornitore, per garantirsi la sicurezza delle forniture e far fronte ad eventuali impennate dei prezzi.  In un passato meno recente, l’UE si orientò verso una politica energetica diretta verso la definizione di accordi per la fornitura di gas russo. Questo accadde all’inizio della presidenza Eltsin, allorché il Governo russo, su pressione dell’UE, sottoscrisse la Carta dell’energia[3]; il Parlamento russo si rifiutò tuttavia di ratificare il Trattato[4] in quanto, a suo avviso, troppo sbilanciato a favore dei Paesi consumatori, posizione che ancora oggi costituisce quella ufficiale del Governo in carica.

La seconda opzione per la politica di Bruxelles è chiaramente la ricerca di fonti di approvvigionamento alternative, ma questa si è tradotta nel perseguimento di diversi obiettivi non reciprocamente esclusivi. La diversificazione delle fonti può essere ottenuta in primo luogo attraverso il ricorso a fornitori oltremare (Nigeria, Qatar): in tal caso è però necessario realizzare sistemi di trasporto del gas liquefatto LNG, con tutti i costi che comporta la predisposizione di una flotta di navi gasiere e la costruzione di impianti di liquefazione e rigassificazione[5].

Ulteriore possibilità è quella di accedere direttamente, ovvero senza la mediazione della Russia, alle risorse dei Paesi dell’Asia centrale ex sovietica, quali Kazakistan e Turkmenistan. La principale difficoltà risiede tuttavia nell’attuale impossibilità di trasportare il gas senza utilizzare la rete russa di gasdotti ed è per questa ragione che sono state avanzate varie proposte, intese ad evitare il passaggio per le strutture russe. A favore di questi progetti si trovano sicuramente gli Stati Uniti, che hanno visto questa rotta come una nuova “Via della Seta dell’Energia”: lo stesso Donald Trump mandò una lettera al suo omonimo turkmeno nel 2019, dichiarandosi favorevole all’avvio dei lavori per il progetto di un gasdotto TransCaspico che dovrebbe collegare il Turkmenistan all’Azerbaijan attraverso il Mar Caspio.  Si tratta di un’utopia che rischia di rimanere soltanto un progetto su carta, in primis per via dell’opposizione russo-iraniana. Putin è infatti riuscito a cooptare Turkmenistan e Kazakistan nel progetto di rafforzamento delle capacità della pipeline centrasiatica in direzione russa. È vero che Ashgabat e Astana continuano a dirsi interessate al TPC, ma è anche vero che l’alternativa proposta da Mosca ha raffreddato l’interesse per quest’ultima opera. Attualmente il progetto resta in piedi perché è soprattutto il Turkmenistan che vuole operare una politica multivettoriale come il Kazakistan. Tuttavia, al momento, gran parte del gas naturale turkmeno prodotto in 73 bilioni di m³ si incammina ancora verso la Russia mentre la Cina beneficerà del trasferimento di 30 bilioni di m³ di gas annui dai giacimenti turkmeni.

Parallelamente al South Stream di matrice russa, l’UE ha cercato una via parallela e alternativa in un altro progetto: il Nabucco, di una lunghezza di 3300 km e di una potenzialità di 30 miliardi di m³/anno , che, partendo dalla Turchia mirava a collegare Bulgaria, Romania, Ungheria e Austria. Il nome del progetto deriva dall’episodio secondo cui i partecipanti che si trovarono a Vienna per il primo summit, andarono all’opera per assistere al Nabucco di Verdi e, colti da un afflato europeista, decisero di chiamare in questo modo la pipeline. Che però rimase l’ennesimo progetto irrealizzato, quando nel 2013 si decise di abbandonarlo a favore della TAP (TransAdriatic Pipeline). Quest’ultima pipeline collega la Turchia alle coste dell’Italia, passando attraverso Grecia ed Albania, trasportando il gas azero del giacimento Shah Deniz nel mar Caspio. La costruzione è iniziata nel 2016 e il gasdotto è diventato pienamente operativo il 31 dicembre 2020.  Ulteriore alternativa come fonte di approvvigionamento del gas che possa arrivare direttamente sulle coste italiane (Otranto) è il gasdotto Poseidon, che costituirebbe l’ultimo tratto tra Grecia e Italia del progetto EastMed, volto al trasporto della materia prima israeliano-cipriota.  Dopo diverse discussioni, è stato dato il beneplacito da parte del Ministero della transizione ecologica con un decreto del 26 marzo 2021. A quanto pare, i lavori inizieranno nel 2023 e dovrebbero terminare nel 2025.

Si fa chiaro come questa ricerca di rotte alternative vada a fare da contraltare alla situazione geopolitica: il gas azero e quello israeliano diventano beni più preziosi che in passato, il passaggio dalla Turchia diventa ancora più importante. Ritorna in mente, con un velo di amarezza, lo scacchiere sul tavolo dell’Armenia. Ma questa, purtroppo, è un’altra guerra, che ci hanno già fatto dimenticare.

Per quanto riguarda la collaborazione Italia-Russia, prima dell’acuirsi di quest’ultimo conflitto, con gli accordi tra le imprese energetiche italiane (Eni ed Enel) e quelle russe (Gazprom e Rao UES of Russia) per reciproci investimenti, confermava un’Italia partecipe alla ricerca, all’estrazione ed alla produzione di gas ed energia elettrica in Russia. Considerata la reciprocità degli investimenti previsti, la collaborazione italo-russa aveva effettuato un salto di qualità, passando da un mero rapporto di dipendenza a un rapporto di carattere strategico, soprattutto nel settore delle infrastrutture di trasporto. Sembra chiaro che Gazprom rimarrà il pilastro dei rifornimenti energetici in Europa (e, quindi, in Italia) nei prossimi decenni, nonostante svariati tentativi di ricerca di rotte alternative. La Russia ha bisogno dell’Europa – e perciò anche dell’Italia – in termini di investimenti, mercato e tecnologia, almeno quanto l’Europa – e l’Italia – hanno bisogno della Russia.
Alla luce di tutto ciò è possibile prevedere che in futuro Mosca privilegerà i rapporti con i singoli partner europei, piuttosto che con Bruxelles: in tal modo la posizione negoziale del Cremlino sarà sicuramente più forte ed efficace, e potrà applicare la sua classica tattica del divide et impera con i Paesi europei.

Questa fase del conflitto russo-ucraino ha riportato con tutta la forza dell’evidenza quanto i fattori economici (in questo specifico caso, energetici) fungano da contraltare agli accadimenti politici e militari in atto. Se da un lato, in una dimensione domestica, ci chiediamo il motivo del rincaro delle nostre bollette, dall’altro ci dovremmo domandare se questo non sia altro che il frutto di scelte politiche sconsiderate e dell’ubbidienza cieca a un “ordine” mondiale marcio e stantio, dovremmo capire come queste scelte siano dovute a un giogo imperialista che occlude il collo della nostra Europa da decenni, che ci impedisce di esercitare la nostra libertà nell’affermazione indipendente dei nostri interessi strategici ed economici. Dovremmo ricercare la salvezza nelle identità dei popoli d’Europa, senza che essi facciano affidamento a schiavisti celati dietro la maschera buonista dei salvatori: ogni popolo conscio della propria identità è in grado di salvare sé stesso.

Ada Oppedisano

[1] Colosso russo dell’energia a livello globale, parzialmente controllata dallo stato, capitalizzazione di 86.56 miliardi di dollari, produzione di gas nel 2018 pari a 37.22 miliardi di metri cubi, fonte www.gazprom-neft.com

[2] Fonte ISPI https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/russia-ucraina-gas-chi-rischia-di-piu-33064

[3] Il trattato sulla Carta dell’energia crea un quadro per la cooperazione internazionale tra i paesi europei e altri paesi industrializzati, allo scopo in particolare di sviluppare il potenziale energetico dei paesi dell’Europa centrale e orientale e di garantire la sicurezza dell’approvvigionamento energetico dell’Unione Europea. I negoziati concernenti questa carta sono stati avviati a Bruxelles nel luglio del 1991 e sono terminati con la firma di un documento conclusivo a L’Aia il 17 dicembre 1991. Il trattato sulla Carta dell’energia e il protocollo sull’efficienza energetica e sugli aspetti ambientali correlati sono stati firmati il 17 dicembre 1994 a Lisbona da tutti i firmatari della Carta del 1991, ad eccezione degli Stati Uniti e del Canada. Le Comunità europee e i loro Stati membri sono firmatari del trattato e del protocollo.

 

[4] A partire dall’ultimo biennio, è in corso un processo di riforma della Carta europea dell’energia, ancora lungi dall’essere definito e, in base ai nuovi risvolti geopolitici, tale si crede rimarrà.

[5] In Italia, gli impianti di rigassificazione in funzione sono solo due: quello di Panigaglia (SP) e quello di Rovigo. Per questo motivo il nostro Paese il 90% delle sue forniture via tubo.

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