La crisi russo-ucraina che stiamo attraversando ha avuto tra i suoi effetti concettualmente più deleteri – a prescindere dalla tragicità delle distruzioni e delle vittime – quello di spingere molti europei verso opposte scelte polarizzanti: l’Atlantico sembra per alcuni essersi ridotto a un rigagnolo, mentre la linea che separa la Repubblica Federale Russa dai paesi ex aderenti all’URSS o collegati al patto di Varsavia, ma che sono entrati nella UE e quindi automaticamente hanno aderito all’alleanza NATO si è trasformata in un’impervia, immensa, altissima muraglia. Alcuni europei, che si dichiarano “atlantisti”, sembrano aver addirittura posto da canto autoqualifiche quali quelle di “sovranisti” o di “patrioti” (termini comunque impropri, dato il loro asservimento alla NATO che li subordina alla volontà degli alti comandi statunitensi e della volontà di Washinton) e si autodefiniscono fieramente e decisamente “occidentali”.
A questa che potremmo con molta approssimazione definire un’ideologia “atlantista” e “occidentalista” un’altra si contrappone, molto minoritaria ma più solidamente strutturata sotto il profilo geostorico e geoantropologico, che da tempo si definisce con cognizione di causa “eurasiatista” e che punta alla valorizzazione culturale e politica – sia pure non, o non ancora, istituzionale – dell’unità del macrocontinente compreso tra penisola iberica e isole britanniche ad ovest fino alla Cina ad est.
Dal nostro punto di vista di europeisti che da tempo auspicano una decisa ridefinizione politica e istituzionale unitaria del nostro comune Grossvaterland – per il quale forse un modello istituzionale confederativo sarebbe preferibile, viste le molte differenze nazionali e regionali esistenti nel nostro paese e la loro necessaria difesa -, consideriamo plausibile e compatibile con la nostra la posizione eurasianista, pur ritenendone la concreta configurazione un obiettivo ancora lontano nel tempo, mentre respingiamo con forza, considerandola anzi ostile, qualunque opzione “atlantistico-occidentalista”. Ciò principalmente per una ragione politica: la pesante egemonia statunitense su tutto quel fronte con un pratico asservimento quasi totale della libertà e degli interessi del continente europeo alla volontà e agli interessi degli USA. E’ difatti palese ormai, nonostante il tono arrogante e trionfalistico di molti media funzionali al “paese legale” e agli screditati partiti che si dividono i seggi del nostro parlamento, che le sanzioni “antirusse” volute dagli americani si risolvono in provvedimenti e situazioni che stanno mettendo in ginocchio sotto il profilo produttivo, economico e finanziario forse (concediamolo pure) in parte la Russia, ma soprattutto l’Europa. Il punto è infatti, in linea generale, che negli Anni Sessanta De Gaulle e negli Anni Ottanta Gorbaciov avevano ottime ragioni nell’affermare che Europa e Russia vivevano (vivono) in una “casa comune”, laddove ciò non si può dire per quanto concerne i rapporti tra USA, Canada e Australia da una parte (l’occidente vero e proprio) e compagine quanto meno continentale europea dall’altra: forse con una qualche possibilità di eccezione per le isole britanniche, alle quali sarebbe forse ragionevole lasciare, per ragioni sociostoriche e linguistico-culturali, libertà di scelta.
In altri termini, nonostante il disinvolto entusiasmo con il quale certi leaders politici italiani si sono autodefiniti “occidentali”, i due concetti e le due aree storico-culturali, l’occidentale e
l’europea, restano lontani e diversi. In particolare, mentre ormai l’Occidente moderno si qualifica per una scelta sociale sempre più economicamente parlando liberista e per una scelta culturale ispirata al “pensiero unico” conformisticamente omologato (e non si comprende come gli europei che si dicono conservatori possano trovarsi d’accordo con scelte come l’aborto e l’eutanasia che quanto meno sul piano etico si configurano lontani dai loro orizzonti, non meno del fenomeno dell’ingiusta, iniqua ripartizione della ricchezza, del suo concentrarsi e della sparizione dei ceti medi). Le tradizioni europee sono viceversa orientate verso una più decisa politica di collaborazione e di solidarietà interclassista, che l’Occidente iperliberista indignato respinge.
Insomma, l’Occidente non è più da tempo la pars Occidentis dell’impero romano o la “Cristianità occidentale”, bensì un’area dominata dall’arbitrio praticamente illimitato delle grandi lobbies multinazionali e in netto regresso sul piano della giustizia e del progresso sociali: e gli europei che si sentono occidentalisti debbono riconsiderare con fermezza le loro posizioni.
Ma, se l’identificazione tout court dell’Europa con l’Occidente appare oAll’indomani della prima guerra mondiale, quando Oswald Spengler scriveva e pubblicava il suo Der Untergang des Abendlandes, non v’era ancora dubbio (o comunque il dubbio non era ancora né radicato, né diffuso) che – sulla via di quella ch’era stata una celebre definizione di Hegel, “l’Occidente come grande sera della giornata dello Spirito” – tra la dimensione occidentale e quella europea vi fossero il senso e la coscienza di un’assoluta identità.
Identificato a lungo tout court con l’Europa, l’Occidente è d’altronde anche altre cose. Emanuele Severino ha sostenuto che la sua anima profonda è la techne: parola ambigua, difficile a schoerare h In tal senso è parso a molti in quale mondo l’Occidente possa identificarsi con la Modernità: il mondo del fare, del costruire, del dominare, dell’avere.
L’eroe fondatore dell’Occidente moderno – ben l’ha capito un grande storico, David S. Landes – è Prometeo. In una splendida tela di Gustave Moreau, che si conserva nel suo museo parigino, l’eroe che si sacrifica per l’umanità ha gli inequivocabili tratti del Cristo: e il suo supplizio, incatenato su un picco caucasico, richiama con una forza trascinante la crocifissione. E’ l’eroismo umano divinizzato, il Cristo immanentizzato nell’umanità (immanentizzazione, ch’è cosa ben diversa dall’Incarnazione), perfetta rappresentazione del mito romantico e progressista dell’Occidente che infrange ogni vincolo e ogni ostacolo, che disobbedisce agli dèi e si fa dio di se stesso, che pretende di fare soltanto il Bene per il semplice, tautologico fatto che ritiene sempre bene quel che fa: al pari del vecchio ottimismo storicistico, secondo il quale tutto quel che accadeva era bene perché accadeva ed accadeva perché era bene.
Ritenendosi realizzatore del migliore dei mondi possibili e scopritore-inventore della formula costitutiva di un inscindibile insieme di libertà, verità, giustizia, ragione, tolleranza e ricerca della felicità, l’Occidente moderno non è praticamente disposto a tollerare in alcun modo “l’Altro da Sé”; esso non può accettare alcuna forma di civiltà che sia diversa dalla sua ma di pari dignità rispetto ad essa, a ritenere possibile che possano esistere alternative (e, meno ancora, ch’esso possa essere in torto). Gli apologeti dell’Occidente, confondendo tra relativismo etico e relativismo antropologico, mostrano d’ignorare la grande lezione lévistraussiana secondo la quale ciascuna civiltà va giudicata nel suo complesso e non c’è nulla di più improponibile di isolarne i singoli componenti per esaminarli alla luce di principii che non sono i suoi.
Ne consegue che l’Occidente moderno è affetto dall’infezione totalitaria espressa dal suo “pensiero unico” che lo conduce a concepire un unico modello di sviluppo per tutta l’umanità. Esso è, inoltre, vittima d’una schizofrenia irremissibile tra la tolleranza e i diritti dell’uomo, valori che ritiene fondanti della sua identità, venera a parole e sostiene di difendere, e il nucleo duro e profondo della sua realtà fondata sull’avere e sul fare anziché sull’essere: la Volontà di Potenza. La neoideologia dell’”esportazione della democrazia” proposta anni fa dal gruppo dei neoconservative ispiratori almeno in parte della della politica del presidente George W. Bush jr., il gruppo dei Wolfowitz, dei Perle, dei Kagan – alcuni epigoni di esso riemergono adesso con Biden – , si fonda sulla vertigine di questa persuasione di eccellenza e di superiorità, sulla convinzione di un “destino manifesto” in grado e in diritto di estendere a tutto il mondo quel “cortile di casa” che, nella tesi isolazionista di Monroe formulata nel 1823, si estendeva all’intero continente americano. Che poi questa sconfinata volontà di potenza, questa ineusaribile ricerca del benessere, della sicurezza della felicità, finisca in realtà col rendere chi cade in questo vortice eternamente insicuro, infelice e inappagato, è un altro discorso: ma nasce proprio da qui il rischio della “guerra infinita” nella quale i cantori del nuovo Occidente rischiano di trascinarci.
Ma, sul piano delle definizioni, siamo nel campo d’un infinito equivoco. L’Occidente sembra oggi una “cosa” reale, un termine chiaro che indica un soggetto preciso: quella “civiltà occidentale” che, secondo un libro di Samuel P.Huntington redatto alcuni anni fa e oggetto di un allora non giustificato e non casuale successo, correrebbe il rischio di venire assalita da altre civiltà, compatte e ben delineate come la sua ma ad essa ostili. Peccato che si tratti soltanto, al contrario, di nomina nuda. “Occidente” non è una cosa, una realtà geostorica o geoculturale: è una parola equivoca, che ha subito nel tempo una serie di slittamenti semantici e il cui attuale significato è tanto recente quanto equivocamente e perversamente diverso da come lo intendono molti europei convinti che esso ed Europa siano quasi sinonimi.
Il che, intendiamoci, è peraltro etimologicamente vero. Giovanni Semerano ha dimostrato che la parola “Europa” nasce da una radica accadica passata poi nel greco erebos e indicante, .appunto, il luogo dell’orizzonte bnel quale il sole tramonta, laddove la parola “Asia”, al contrario, deriva da un altro termine accadico indicante l’alba. Se ci si potesse limitare ai semplici valori etimologici, l’identità tra Europa e Occidente (e tra Asia e Oriente) sarebbe perfetta. Ma questo non è, purtroppo, un lusso che ci si possa permettere quando si vuol evitare di cadere in trappole grossolane.
Al di là dell’antica contrapposizione tra Asia ed Europa, celebrata in un passo immortale de I Persiani di Eschilo, l’attrazione e la fusione dei valori “orientali” (asiatici) e di quelli “occidentali” (ellenici e poi romani) è passata attraverso le grande sintesi ellenistica, avviata da Alessandro Magno e perfezionata da Cesare – erede del grande pensiero maturato attraverso il “circolo degli Scipioni” – e dalla cristianizzazione dell’impero. I termini “Oriente” e “Occidente”, nel mondo tardoantico e medievale, sono stati certo utilizzati: ma nella prospettiva del rapporto tra la pars Orientis e la pars Occidentis dell’impero romano uscito dalla spartizione imposta dal testamento di Teodosio, alla fine del IV secolo. Ai primi del XII secolo un cronista della prima crociata, Fulcherio di Chartres, celebrando il fatto che “franchi” e “italici” doo la conquista della Terrasanta si fossero impiantati in Palestina, sosteneva che di “occidentali” essi si erano fatti “orientali”. Ma non si andava neppure con ciò al di là della distinzione d’origine teodosiana.
Nonostante quanto oggi si crede, l’uso corrente d’identificare la “nostra” con la “civiltà occidentale” è recente. Ancora ai primi del XX secolo, si parlava piuttosto d’Europa, per quanto sia forse possibile scorgere “l’invenzione dell’Occidente” in quel proiettarsi dell’Europa oltre i suoi confini che si è verificato a partire dalla fine del XV secolo e ha coinciso con l’inizio dell’età delle grandi scoperte e delle conquiste geografiche. Il nascere dell’orientalismo come corrente estetico-letteraria, certo, prospettava una qualche distinzione Oriente-Occidente; ma il secondo termine restava sinonimo di Europa. Oswald Spengler, parlando di un “Tramonto dell’Occidente”, pensava soprattutto all’Europa. Anche gli storici che hanno ustato con sicurezza i termini di “Occidente” e di “civiltà occidentale”, come Christofer Dawson e Elijahu Ashtor, non sono andati al di là d’una distinzione che implica diversità ma non appare come contrapposizione. Si potrebbe comunque, tra Cinque e Novecento, seguire l’itinerario di un costante collegamento tra l’idea di sviluppo, di dominio tecnologico, di razionalità-ragione, di progresso, all’Occidente inteso come appunto l’Europa, in crescente contrasto con un “Oriente” (o con più “Orienti”) luogo (luoghi) della tradizione, dell’immobilità, del sogno, della magia, del favoloso-irrazionale. La civiltà europea sentita da Hegel come “la grande sera” del giorno della civiltà umana è forse il punto d’arrivo del maturare di questa concezione.
Il mutamento importante che riguarda i nostri giorni ha radice però nella pubblicistica statunitense. Come dimostra Romolo Gobbi nel suo America contro Europa, è nel XIX secolo che scrittori e politici statunitensi guardano al loro continente e agli States come a quell’Occidente di libertà contrapposto al quale c’è un “Oriente” che gli europei non si aspetterebbero: l’Europa, appunto (del resto ineccepibilmente e obiettivamente a est dell’America), terra dell’autoritarismo, della tradizione, degli infiniti ceppi teologici e giuridici che imbrigliano la libertà. E’ sintomatico che , proprio mentre in Europa Spengler stava scrivendo il suo libro sul “Tramonto”, alla Columbia University di New York si fondasse una cattedra di Western Culture dal progetto della quale risulta chiaro che a quel West – luogo del progresso e della libertà, di cui gli States erano il cuore – non si contrapponesse affatto l’East di Rudyard Kipling col suo perentorio “Oh, East is East, and West is West, and never the twain shall meet”, bensì l’Europa, luogo dell’autoritarismo e dello sterile, polveroso culto del passato.
Quest’identità statunitense di Occidente e libertà è tornata, dopo Yalta, a sostanziare di sé la nuova dicotomia del potere sull’ecumène, distinta ormai fra un “Mondo libero” e un “Mondo socialista”: due mondi che appunto s’incontravano e confinavano nella Cortina di Ferro che tagliava in due l’Europa; e che convergevano nel far sparire il concetto stesso di Europa, secondo il convergente disegno del presidente Roosevelt e del maresciallo Stalin, sotto gli occhi sostanzialmente impotenti ma tutto sommato per niente insoddisfatti di Winston Churchill, che – a dirla in termini schmittiani – dalla definitiva sconfitta del Behemoth territoriale si aspettava se non proprio il trionfo, quanto meno una più o meno lunga sopravvivenza del Leviathan imperiale britannico, signore di un complesso sistema di terre e di mari.
Ma, dopo la Finis Europae, anche la fine del tempo dell’equilibrio tra le due superpotenze (guerra fredda sì, ma anche spartizione e sotto molti aspetti complicità) era sembrata condurre a una nuova situazione, definita appunto da Samuel P. Huntington: l’Occidente come cultura unitaria e compatta, ma caratterizzata dalla leadership della volontà politica e dei valori elaborati dagli Stati Uniti, cui la “vecchia Europa” era chiamata in molti modi a uniformarsi e rimproverata di non farlo abbastanza. Il tempo di quella proposta, collegata all’era dell’esplicito unilateralismo statunitense, sembra ormai essere trascorso irreversibilmente. Ora, dinanzi a un nuovo “Occidente” che le proponeva di accettare subalternità, ed emarginazione, l’Europa – conforme del resto anche alla realtà geografica del globo – può forse rispondere rintracciando la sua vocazione di civiltà nata e cresciuta in stretto contatto con il Mediterraneo, l’Asia e l’Africa, e alla luce di ciò rivendicare un ruolo di cerniera con gli “Orienti”. Essere occidentali ed essere europei non è più sinonimo.
Gli eventi del primo ventennio del XXI secolo, tragicamente apertosi sullo scenario apocalittico del Nine Eleventh, hanno comunque avuto il merito d’indurci tutti a un ripensamento profondo di categorie che potevano sembrare chiare e consolidate, e che al contrario tanto gli eventi quanto la corrosione d’una critica stimolata ed accelerata dal loro incalzare hanno finito con il frammentare se non addirittura polverizzare. In un bel libro di qualche anno fa, L’Europe et le mythe de l’Occident. La construction d’une histoire, Georges Corm ha tracciato con mano ferma ed elegante le tappe di un tortuoso processo attraverso il quale la nozione geografica di “Occidente” è divenuta un assioma organizzatore di una visione del mondo. Stiamo lentamente, ma faticosamente uscendo dalla rete degli equivoci, dal mare degli stereotipi, dalla palude delle mistificazioni.
E’ dunque seriamente necessario partire da un punto fermo, che dovrà restare l’asse d’una coscienza finalmente acquisita in modo chiaro e fermo: “la categoria di Occidente è un’invenzione ideologica”. Né in ciò è davvero il caso di remore politically correct a servirsi di autori che talvolta la pruderie di professori anche preparati e intelligenti, ma diciamo così non proprio ardimentosi induce a relegare timidamente in qualche nota a piè di pagina o perfino a non citare: da Serge Latouche Augusto Del Noce ad Emanuele Severino a Massimo Fini ad Alain de Benoist
Se ne può lecitamente concludere che quella “occidentale” è la civiltà formatasi nello spazio dell’Occidente in epoca moderna e a partire dalla “Modernità”, a sua volta nozione intesa come emancipazione della soggettività dai vincoli immobilizzanti della tradizione, della trascendenza e del sacro, autorappresentata come emancipazione in quanto modalità di vita che autorizza ad avvalersi liberamente della ragione, senza doverla sottomettere a qualche potere esterno, e a progettare liberamente il futuro, senza più l’obbligo di tener conto del passato. Modernità come primato dell’individualismo e della dimensione economico-finanziaria, rispetto alla quale la dimensione propriamente politica viene relegata in secondo piano mentre scompare la gloriosa dimensione aristotelica e tomistica del pubblico bene.
E’ tanto più urgente rendersi conto di tutto ciò in un momento come il nostro nel quale i continui attacchi alla verità, alla giustizia e perfino al buon senso scatenati da una parte della politica e dei mass media appunto “occidentalista” (pensiamo ad esempio alla cancel culture) nell’intento di giustificare aggressioni, occupazioni e repressioni attraverso la pretesa di trattare come oggetti storici concreti e reali quelli che invece sono frutto di una manipolazione ideologica: quale appunto il concetto di “civiltà occidentale”. Questa consapevolezza dev’essere mantenuta ben ferma come prezioso vademecum nella nostra battaglia per il disincanto e, quindi, la liberazione dalla mistificazione e dalla menzogna.
Franco Cardini