La certezza del diritto è un’eterna aspirazione di tutte le società organizzate, e ancor più delle odierne democrazie, trattandosi di una delle condizioni indispensabili perché la legge sia davvero, e non solo sulla carta (o sulle pareti dei tribunali), uguale per tutti. Un’aspirazione mai interamente soddisfatta, ma comunque costantemente perseguita. Di conseguenza, una negativa caratteristica (fra le tante) dei giorni che stiamo vivendo è che questa ricerca sia stata pressoché abbandonata per lasciare spazio con noncuranza e, non di rado, quasi volutamente a pronunce di segno opposto non solo da parte di organi diversi, ma delle sezioni di uno stesso organo. Fra gli esempi più recenti il caso del TAR Lazio, al quale si sono rivolti, con la richiesta di un provvedimento cautelare d’urgenza, in un caso dipendenti del Ministero dell’Istruzione, nell’altro della Difesa sospesi dal servizio e dallo stipendio, perché non vaccinati e, comunque, non in possesso della relativa documentazione cosiddetta “green”. In entrambi i casi i provvedimenti ad personam e le circolari applicative dei due Ministeri, di cui si chiedeva la sospensione dell’efficacia per evitare un “pregiudizio grave ed irreparabile”, trovavano la loro legittimazione di base nel decreto-legge n. 171/2021, convertito nella legge n. 3 del 21/1/2022.
La richiesta di temporanea (in attesa della decisione finale) riammissione al servizio e alla retribuzione avanzata dai dipendenti scolastici è stata respinta dalla Sezione 3° bis del TAR con l’ordinanza n. 137/2022 in data 13/1/2022, motivata della mancanza del requisito del “pregiudizio grave e irreparabile” perché “il danno che potrebbe scaturire dai provvedimenti di “sospensione dal diritto di svolgere” (…) la specifica attività lavorativa avrebbe comunque natura meramente patrimoniale, sarebbe delimitato ad un definito e ridotto periodo temporale previsto a livello normativo (“non oltre il termine di sei mesi a decorrere dal 15 dicembre 2021” ex art. 4 ter, co.3 della legge 76 del 2021) e potrebbe anche risultare ridotto o azzerato dallo svolgimento di altra attività lavorativa fonte di reddito non essendo impedito tout court ai soggetti non vaccinati di lavorare”.
Miglior sorte hanno avuto i dipendenti della Difesa, la cui richiesta è stata invece accolta, il 14/2/2022, con decreto del presidente della Sezione 1° bis dello stesso Tribunale amministrativo, che ha ritenuto tanto evidente la ricorrenza del “pregiudizio grave ed irreparabile” da motivarla con la semplice affermazione della sussistenza (evidentemente in re ipsa in caso di privazione dello stipendio) del presupposto richiesto dall’art. 56 del Cpa (Codice del processo amministrativo): “l’estrema gravità ed urgenza, tale da non consentire neppure la dilazione fino alla data della camera di consiglio”.
Va detto che i due provvedimenti non sono esattamente equivalenti e s’innestano in due momenti diversi del procedimento: uno collegiale (l’ordinanza), l’altro preparatorio e monocratico (il decreto presidenziale). Tuttavia rilevano le date, dal momento che il presidente della Sezione 1° bis all’atto di emissione del decreto non poteva non conoscere la precedente ordinanza, sia perché emessa da una sezione del suo stesso ufficio giudiziario, sia per i commenti della stampa e di siti specializzati: “Per i giudici il novax può vivere senza stipendio!”. Da correggere adesso nel senso che i dipendenti novax del Ministero dell’Istruzione possono vivere senza stipendio anche per sei mesi, mentre quelli della Difesa nemmeno per uno.
Su per giù nella stessa situazione degli impiegati scolastici sono venuti a trovarsi anche lavoratori del comparto Sanità. Difatti la richiesta cautelare avanzata da alcune dipendenti di una cooperativa operante nel settore è stata respinta dall’ordinanza n.2467/2021 del Tribunale d Modena, che in molte parti riecheggia quella, di rigetto, del Tar Lazio.
Per converso, la sorte cieca o la Giustizia bendata sembrano avere un occhio di riguardo (nonostante la benda) per il settore Difesa. Evidentemente sollecitati dal ruolo centrale oggi assunto dalla problematica che ruota intorno alla profilassi vaccinale anti-covid, sia il dipendente direttamente interessato (un tenente-colonnello in partenza per una missione fuori dai confini nazionali) sia il Gup del Tribunale Militare di Napoli, hanno messo sotto accusa una normativa precedente di qualche anno quella per la prevenzione del SARS Covid. Si tratta dell’art. 206bis del Codice dell’Ordinamento militare (d. lgs. 15/3/2010 n. 66), sospettato di violare l’art. 32 della Costituzione in quanto attribuisce alla Sanità Militare, organo amministrativo, e non al legislatore la possibilità di dichiarare indispensabili – quindi obbligatorie – specifiche profilassi vaccinali per il personale militare impegnato in operazioni all’estero. Il sospetto di incostituzionalità deriva dal potenziale contrasto con l’art. 32 della Costituzione, esattamente come da più parti – in giurisprudenza e in dottrina – si sostiene per la normativa anti-covid, per altro espressamente richiamata ed esaminata, nella parte riguardante il personale del comparto Difesa e Sicurezza (d. legge 1/4/2021 n. 44 e d.l. 26/11/2021 n.72), dal Tribunale napoletano nella motivazione che giustifica la rimessione della questione alla Corte costituzionale.
Sintomi, al pari di tanti altri di cui con grande frequenza si trova traccia anche nella stampa quotidiana, di un profondo dissesto dell’ordinamento giuridico, che la recentissima sentenza penale del Tribunale di Pisa n. 1842/2021[1] attribuisce ai provvedimenti dei due ultimi governi della Repubblica (Conte 2 e Draghi), che hanno scosso, fino a renderle insicure e traballanti, le fondamenta stesse dello Stato di diritto quale fondato dalla Costituzione del 1948. Difatti – si legge in motivazione – “si tratta, di atti amministrativi capaci di incidere potenzialmente ed in effetti incidono su tutta la prima parte della Costituzione, con violazione della riserva di legge assoluta e del principio di legalità”.
La sentenza individua l’inizio del processo degenerativo già nel primo provvedimento governativo formalmente determinato dall’emergenza Covid: “la delibera dichiarativa dello stato di emergenza adottata dal Consiglio dei Ministri il 31.1.2020, illegittima per essere stata emanata in assenza dei presupposti legislativi, in quanto non è rinvenibile alcuna fonte avente forza di legge, ordinaria o costituzionale, che attribuisca al Consiglio dei Ministri il potere di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario”. Per effetto di questa iniziale illegittimità “devono reputarsi illegittimi tutti i successivi provvedimenti emessi per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica da covid 19, nonché tutte le successive proroghe dello stesso stato di emergenza”. Nel provvedimento dichiarativo dello stato di emergenza si ravvisano inoltre “violati i principi di legalità e di riserva di legge, in quanto – nel modello emergenziale costruito dal Governo – le libertà fondamentali sarebbero state limitate formalmente da norme di rango primario (ovvero dai vari decreti legge fin in qui adottati), ma nella sostanza sono state compresse dai dpcm, atti di natura amministrativa”. E’, difatti, con questi dpcm, atti monocratici, “di titolarità e responsabilità politica del presidente del consiglio dei ministri, come tali sottratti al vaglio del Presidente della Repubblica, del Parlamento, della Corte Costituzionale e della stessa Corte dei Conti”, che “sono state adottate le misure più stringenti e limitative dei diritti fondamentali degli individui, anche rispetto a quanto previsto negli stessi decreti-legge, primo tra tutti il n. 6 del 23 febbraio 2020”. Decreto-legge definito in sentenza “una “delega in bianco” a favore del governo, dotando sé stesso e lo stesso Presidente del Consiglio dei Ministri di poteri extra ordinem”(…) senza limitazione alcuna, laddove si dispone che “le autorità competenti possono adottare ulteriori misure di contenimento e gestione dell’emergenza, al fine di prevenire la diffusione dell’epidemia da Covid-19”, nonché “senza specificazione alcuna in ordine alla tipologia e alle misure atipiche, anche fuori dai casi disciplinati dall’articolo 1, comma 1 e, dunque, diverse da quelle previste nel decreto legge in questione, con ciò eludendo sia la riserva di legge posta a livello costituzionale, sia il principio di legalità non solo formale ma anche sostanziale”. Questa riserva di legge assoluta “che, a determinate condizioni, legittima la limitazione dei diritti fondamentali, a partire dalla libertà di circolazione[2]”, è stata trasformata “in una riserva di atto amministrativo (dpcm)”.
Si è così determinato “un ampio trasferimento di poteri a favore del presidente del consiglio dei ministri che, con discrezionalità, ogni qualvolta ritenga che la misura sia adeguata e proporzionata per affrontare la crisi epidemiologica, può adottare atti amministrativi, e finisce per innovare l’ordinamento giuridico”. E’, appunto, questa innovazione, attuata a forza di dpcm, a incidere, profondamente alterandola, su principi e norme di quella prima parte della Costituzione che la miglior dottrina ritiene non modificabile nemmeno con ricorso alle leggi di revisione di cui all’art. 138 Cost. Di qui una situazione di intollerabile confusione (il“maligno sortilegio”, evocato dalla scrittrice Susanna Tamaro nella lettera aperta indirizzata il 15 febbraio a Mario Draghi), che coinvolge anche gli organi giudiziari, fra chi si adegua e chi intende resistere.
Francesco Mario Agnoli
[1] Recentissima, perché la motivazione, dalla quale (nella impossibilità di un’analisi più accurata in questa sede) si traggono alcune citazioni, è stata depositata, come previsto, il 17/2/2022.
[2] La sentenza fa espresso movimento alla libertà di circolazione perché l’imputato era accusato, ex art. 650 cp, di essere uscito dalla propria abitazione fuori dei casi previsti dal dpcm 8/3/2020. Imputato assolto “per insussistenza del fatto in quanto il dpcm non costituisce provvedimento legalmente dato dall’autorità, come richiesto dall’art. 650 Cp.”.