Sentii parlare per la prima volta di Foibe a metà degli anni settanta, ma solo un po’ di tempo dopo, riuscii a capire quale indicibile orrore stesse a significare quella parola. Normale, perchè un bambino di nove anni non può ancora nemmeno immaginare che l’animo umano possa essere in grado, non di realizzare, ma solo di concepire tali forme di aberrazione.
Per me erano gli anni del catechismo, e il nostro don Giorgio, un pomeriggio ci disse che quel giorno avremmo fatto qualcosa di diverso. Non saremmo rimasti in aula, ma ci avrebbe portati a fare caritativa, recandoci in visita agli anziani soli. Cosi partimmo e facemmo diverse visite, ma una in particolare non l’avrei mai più scordata per tutta la vita. Entrammo in una casa, tipica di quegli anni, oggi raramente ormai se ne vedono, con tutti i vani affacciati su un corridoio centrale tanto lungo quanto triste. Attraversato l’appartamento nell’ultima stanza, in un angolo, vicino alla stufa, trovammo una vecchietta sola. Dopo che il nostro buon sacerdote ebbe scambiato saluti e convenevoli, la parola passò alla padrona di casa. Ci raccontò che non era di qui, che veniva da una terra dall’altra parte dell’Adriatico, e che un giorno, con tutta la famiglia dovette fuggire nottetempo perchè, così disse:“Gli Italiani venivano catturati e gettati dentro i burroni”. Rimasi profondamente impressionato e turbato da racconto, anche se ne avrei capito pienamente il senso solo da adolescente, come appassionato lettore di “Storia Illustrata”.
Nel 1983 infatti, Antonio Pitamitz, giornalista serio e coragiosissimo, pubblicò la prima inchiesta documentaya sulle foibe. Così da quel passato da cui anch’essa era stata infoibata, cominciò a riemergere la verità. Pitamitz, infatti, aveva riportato alla luce con puntualità e precisione, fondate su un’inoppugnabile documentazione: i protagonisti degli eccidi, titini e italiani, le responsabilità e i luoghi dei massacri, le vittime non solo nei numeri, ma in più di un caso nomi e cognomi, vicende personali e familiari, emblematica su tutte la storia di Norma Cossetto. E così, come la maggior parte dei miei connazionali fino ad allora ignara, appresi inequivocabilmente che i comandamenti di un’ideologia sterminatrice avevano spinto gli uomini agli ordini del Maresciallo Tito ad eliminare sistematicamente i nostri fratelli Giuliano Dalmati, in una diabolica impresa di pulizia etnica, in non pochi casi con la connivenza e la complicità di partigiani comunisti italiani. Gli aguzzini dalla stella rossa, dopo aver legato loro le mani con filo spinato, precipitavano i prigionieri, unicamente colpevoli di essere italiani, in cavità naturali del terreno che si aprivano e sprofondavano per centinaia di metri. “Stavvi Minos orribilmente e ringhia, esamina le colpe ne l’intrata, giudica e manda secondo ch’avvinghia”(Inf. V). Come “novelli Minos”, i titini avevano eletto le foibe a voragini infernali per chi avevano deciso di dannare. Diversamente però dal tremendo giudice dell’inferno dantesco, essi pronunciavano la loro iappellabile sentenza non contro dei rei ma contro vittime innocenti.
Quella di Antonio Pitamitz fu molto più di un’inchiesta giornalistica. Egli aprì una nuova strada per tutti coloro che vennero dopo e poterono passare per la breccia operata dal coraggio del valoroso e valente giornalista zaratino. Era stato squarciato per sempre il baluardo di oblio e di omertà che per troppi anni aveva cercato di soffocare la verità.
Antonio Pitamitz è tornato alla casa del Padre lo scorso 15 gennaio, all’età di ottantacinque anni, lasciando un grande debito di riconoscenza in tutti i patrioti veri e gli uomini amanti della verità.
Per quello che scrisse sulle foibe, egli fu sottoposto alla gogna dei sostenitori dell’unica verità, quella di sinistra. Fu attaccato con lettere, denunce, comunicati e accuse di ogni tipo. Fausto Biloslavo e Gianni Micalessin hanno ricordato, recentemente, le parole che l’amico-maestro ebbe a rivolgere loro: “Ve prego no ste a venir in redazion…se incontremo drio le machinete del cafè…che za i disi che voi xe de destra …se ve vedi con mi xe finidi per sempre”.
Fabrizio Migrani