A latere, in una quotidianità dedicata piuttosto a bollettini medici, conteggi di contagi e necrologi che tirano avanti per giorni interi, i telegiornali ci hanno informato, in maniera un po’ discontinua (la notizia delle rivolte è effettivamente stata data 24h dopo che queste erano iniziate) e semplicistica, degli avvenimenti che sono accaduti nel Kazakhstan. Tenendo conto che un conflitto cruciale per gli interessi europei, come quello nell’Artsakh (Nagorno-Karabackh), è stato fatto quasi completamente passare sotto silenzio, tutto sommato non è male, ma naturalmente il tutto viene processato con la superficialità e la sedentarietà che, hainoi, da decenni contraddistingue il giornalismo italiano.
Le vicende del Kazakhstan possono in effetti essere la spia di un problema più ampio, che però, contrariamente alla volgata dei media, non ha al suo cuore il presunto desiderio di instaurazione di una democrazia liberale sul modello occidentale, ma piuttosto un problema sociale particolarmente evidente e forte in tutto lo spazio post-sovietico, che però negli ultimi anni stà germogliando in potenza anche nell’occidente: il problema degli oligarchi.
Chi sono gli oligarchi?
Letteralmente “i pochi che hanno il potere”, gli oligarchi sono una speciale sotto-categoria di uomini ricchi. A definire un oligarca come tale è infatti non tanto la ricchezza in senso assoluto, né il potere politico, né il fatto di avere una consistente fetta di mercato assicurata in un settore, quanto piuttosto quando questi tre fattori si vanno ad intrecciare tra di loro. Prendiamo ad esempio due oligarchi del Kazakhstan come i coniugi Kulibaev, nomi che alla maggior parte dei non Kazaki non dicono assolutamente nulla: sono al 1111 posto nella classifica Forbes degli uomini e delle donne più ricche del mondo, con un patrimonio netto di “soli” due miliardi e 800 milioni[i] (per capirci, Giovanni Ferrero è al 40 posto nella classifica, e ha un patrimonio stimato attorno ai 35 miliardi[ii]). Il ramo principale dei loro assetti è nel settore bancario, e sebbene nessuno dei due abbia propriamente una personalità politica, sono negli anni stati inclusi in diversi consorzi statali e partecipati con posizioni di rilievo. La ragione di ciò sta nel fatto che Dinara Kulibaeva, prima di sposarsi, era registrata all’anagrafe come Dinara Narzarbaeva: figlia del carismatico pater patriae Nursultan Nazarbayev. Ecco allora che, attraverso i legami familiari, si crea un grande capitalista che oltre al suo potere economico, rafforzato dalla mancanza di competizione, arriva ad esercitare anche un immenso peso politico diretto, al punto in cui gli interessi dello stato si fondono, o ancora peggio vanno in secondo piano, rispetto a quelli di un gruppo economico. L’oligarca, in parole povere, non è più solo un miliardario, ma diventa un vero e proprio feudatario post-moderno, che coniuga nelle sue mani, o in quelle delle sue dirette emanazioni, poteri che per la natura degli stati contemporanei (ma diciamocela tutta, lo avevano già capito gli antichi romani) dovrebbero essere separati.
Perché gli oligarchi sono un problema?
Essendo un gruppo molto ristretto di potere, gli oligarchi, come tutti i gruppi simili, tendono a spendere una parte considerevole del loro tempo a fare in modo che non possano nascere competitori alla loro influenza. Considerando che, come la storia ci insegna, una civiltà prospera solo quando libera le potenzialità creative di realizzazione degli individui, e viceversa stagna quando le soffoca, questo crea un problema sociale non da poco, che ci può aiutare a comprendere come sia possibile che la maggior parte dei paesi dello spazio post-sovietico, nonostante sulla carta abbiano potenzialità immense, sono per lo più sonnecchianti e basati su economie improntate allo sfruttamento delle risorse naturali. Partiamo proprio dalla analisi dell’aspetto economico: l’eliminazione della competizione attraverso un sistema di cartello “state sanctioned” come quello che si verifica quando in uno stato si vengono a creare le oligarchie ha quasi sempre come conseguenza il diffondersi di fenomeni di corruzione a tutti i livelli. Questo non solo strangola la dinamicità economica spontanea di una nazione, in particolare schiacciando preventivamente la creazione di un tessuto di medie e piccole imprese (che sempre più invece si stanno confermando come indicatore di una crescita economica sana, bilanciata e a misura d’uomo) ma crea anche una pesante barriera all’investimento straniero, che potrebbe invece essere una importante leva fiscale e finanziaria per movimentare la vitalità economica. Attenzione, questo non vuole necessariamente dire che si tratti di stati poveri, o dove le condizioni di vita sono di diffusa povertà: tra gli stati post-sovietici che hanno visto l’affermazione di oligarchi si passa da paesi con un alto I.S.U. (lo stesso Kazakhstan ha un punteggio migliore della maggior parte delle petromonarchie del golfo[iii]) o con tassi di sviluppo culturale di primissima categoria (la repubblica armena ha il 12,7% di cittadini in possesso di un titolo di laurea magistrale[iv] o a C.U., quello Italiano è attorno al 7,9%)[v], a stati con condizioni di povertà decisamente più drastiche, oppure con una ricchezza considerevole, ma una società inesistente. Ne consegue che, in condizioni normali, ci sarebbero ottimi motivi di attrattiva per l’investimento in questi paesi, e non necessariamente, come qualcuno pensa, l’interesse per il controllo delle risorse naturali. Ma l’esistenza di questo ceto dominante chiuso al suo interno, e spesso e volentieri completamente staccato rispetto alla massa della popolazione dei cittadini, impedisce che queste potenzialità emergano, tanto più che la pressione esercitata, come abbiamo visto, non si limita al solo controllo economico, ma entra prepotentemente all’interno della politica e della vita sociale.
Un’Amenità dell’Est?
Non proprio. O meglio, quelli che comunemente consideriamo oligarchi sono in effetti un fenomeno squisitamente post-sovietico: si trattava di quegli uomini che, allo scioglimento dell’URSS, ebbero la scaltrezza di approfittare del loro ruolo dirigenziale, fosse esso politico o amministrativo, per rastrellare i beni statali che venivano immessi sul mercato (e venduti spesso a prezzi simbolici). Ma l’oligopolio, quindi la presenza di grosse fette di mercato settoriale che fanno capo a poche società vincolate in un “cartello”, è una realtà strettamente legata a qualsiasi processo capitalistico, in quanto il superamento della competizione, come è ovvio, rappresenta una delle possibili conseguenze della competizione stessa. Il “cartello” che si viene a creare ha quindi la possibilità di esercitare, attraverso il controllo dei prezzi, un enorme pressione potenziale sulla massa dei votanti, da cui la nascita di un contatto con il mondo politico che, de facto, ne sancisce il potere. Si badi bene, non si tratta di remote possibilità: col giro di boa del ‘900 questo fu esattamente quello che accadde negli Stati Uniti (addirittura arrivando al monopolio in alcuni settori, come la Standard’s oli di Rockfeller), al punto che la politica, incarnata da un uomo di indubbia levatura come Theodore Roosevelt, attaccò frontalmente il mondo del grande business, instituendo l’autorità anti-trust. Si trattava, e si tratta, di un ufficio il cui compito è apparentemente impensabile all’interno di una società fortemente liberista, ovvero l’intervenire contro i cartelli e i monopoli, imponendo alle compagnie che li detengono di smembrarsi e mettere sul mercato parte dei loro assets. Perfino con la svolta neo-liberista degli anni ‘80, e conseguentemente con l’allentamento del potere degli stati rispetto all’economia finanziaria, l’anti trust ha continuato ad esistere come una prammatica sanzione che poteva essere utilizzata dallo stato americano contro il suo ceto affarista nel caso questo divenisse “troppo avido”. La crisi dei mutui subprime del 2007-2008, e in particolare il modo in cui lo stato americano ha gestito la vicenda[vi], ha però cambiato drasticamente le carte in tavola: al posto di lasciare che le grandi società bancarie, vittime dei loro stessi processi speculativi finanziari, fallissero (cosa che chiaramente, avrebbe però prodotto un disastro sull’economia reale) il governo preferì approvare un piano di riorganizzazione dei titoli “tossici” e promuovere una fusione bancaria, sovvenzionata con 700 miliardi di soldi pubblici[vii] affinché i colossi bancari si unissero in società considerate “troppo grandi per fallire”. Non sorprende che l’anti-trust statunitense uscisse a pezzi dall’esperienza, il che diede il via libera alla nascita di nuovi oligopoli e monopoli, strettamente legati alla politica statale e federale, che comportarono una polarizzazione dei profitti verso l’alto e la disintegrazione del tessuto delle piccole e medie aziende. Gli esempi più famosi ed evidenti di ciò sono i colossi del web e dell’E-commerce, ma anche settori apparentemente centrali nella vita economica americana, quali le aziende agricole e di allevamento del pollame (ricordiamo che per difendere l’interesse di questi, Eisenhower e Kennedy arrivarono a mettere in pericolo le relazioni atlantiche) Solo negli ultimi anni l’anti-trust ha ricominciato a far sentire la sua voce, in particolare contro il semi-monopolio dei dati di Google (Alphabet. Inc), ma si tratta di una battaglia che lo stato ormai sembra non più in grado di combattere.
Andrea Giumetti
[i] Estratto direttamente dal sito della testata (https://www.forbes.com/billionaires/ )
[ii] Ibidem.
[iii] Paragone dai dati riportati sul World Factbook della C.I.A. https://www.cia.gov/the-world-factbook/
[iv] Fonte statistica https://www.armstat.am/en/?nid=19 dato censito del 2015
[v] Fonte statistica http://dati-censimentopopolazione.istat.it/Index.aspx?lang=it dato censito nel 2015
[vi] https://www.borsaitaliana.it/notizie/sotto-la-lente/crisimutuisubprime.htm
[vii] https://www.iusinitinere.it/la-crisi-finanziaria-del-2008-da-cosa-e-stata-scatenata-9025