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SUL MARTIRIO DI UNA TERRA. CINQUANT’ANNI FA “LA DOMENICA DI SANGUE”. Di Nicolò Dal Grande

Ogni città ha una propria arma araldica che la identifica. Non fa eccezione Derry, la “città vergine”, secondo centro per dimensione in quella che il governo del Regno Unito chiama Ulster ma che null’altro è se non il Nord-Est dell’isola d’Irlanda. Particolare è lo scudo cittadino; l’arma superiore presenta la bandiera di San Giorgio con la spada di San Paolo nel quadrante alto a sinistra, riprendendo il gonfalone della capitale  Londra ma differenziandosi per la presenza di un’arpa al centro della croce: chiaro riferimento al diritto inglese di regnare su quella parte d’Irlanda. Ma quello che affascina è la porzione inferiore; su un campo nero, innanzi a un castello argentato uno scheletro ci appare in posa pensierosa, quasi attendesse qualcosa. Sotto il motto della città: “Vita, Veritas, Vittoria”. Uno stemma molto particolare. Quasi un segno del destino. Un destino doloroso.

Non è chiaro a cosa alluda allegoricamente lo scheletro; secondo il folklore locale attenderebbe che i governanti adempissero ai propri doveri seguendo la giustizia. Una giustizia che la città nordirlandese attende da cinquant’anni, quando il motto fu stroncato in ogni sua parte da una tragica storia di sangue.

Vi sono episodi della storia che lasciano il segno più di altri, fatti destinati a rimanere impressi e condizionare la memoria e il pensiero di intere generazioni. Quello che accadde a Derry nell’ormai lontano 30 gennaio 1972 è uno di questo.

Non è facile per lo scrivente comprendere e descrivere l’orrore di quelle ore; posso solo ipotizzare l’angoscia di ciò che fu. Il pensiero corre a centinaia di persone unite, pacificamente vicine le une alle altre in marcia lungo le vie della città. Poi all’improvviso l’eco di uno sparo. L’asfalto si colora di sangue, urla di terrore riecheggiano ovunque, sovrastate solo dai colpi dei fucili inglesi, uomini e donne che corrono e cadono, calpestate dalla folla impazzita e in preda alla paura.

Cinquant’anni esatti, mezzo secolo di distanza ci separa dalla cosiddetta Bloody Sunday, la “Domenica di Sangue”.

Il martirio dell’Irlanda.

Sono stati scritti un’infinità di saggi sulla plurisecolare tensione esistente fra i popoli irlandese e inglese; un astio eterno, figlio delle invasioni  britanniche e dei seguenti sfruttamenti cui fu soggetta l’isola di smeraldo; gli stessi eredi dei coloni inglesi che occuparono progressivamente l’antica Hibernia inorridirono dinnanzi alle atroci persecuzioni di Cromwell nel XVII secolo, alle dure discriminazioni religiose dell’élite dominante anglicana e massona, alle continue violenze e ingerenze di Londra e della componente protestante che progressivamente andava colonizzando il nord dell’antica terra di San Patrizio. Come scordare le dure repressioni delle rivolte del XVIII e del XIX secolo? E il rifiuto di aprire i granai dei grandi proprietari terrieri quando l’Irlanda, in preda alla carestia dovuta all’infezione delle coltivazioni di tuberi, moriva lentamente di fame nel lontano 1846?

Poeti e scrittori, anche di origine inglese come Jonathan Swift, celeberrimo dublinese autore dei Viaggi di Gulliver, protestarono per il trattamento riservato all’Irlanda, sfruttata come una colonia. Una colonia che si ribellò nuovamente – e ancora inutilmente –  nel 1916 dando inizio a una lotta senza quartiere sfociata in una guerra sanguinosa (1919-1921) che, dopo anni di sangue versato, compromessi scomodi e lotte fratricide fra gli stessi ribelli, condusse finalmente l’isola ad un’agognata indipendenza.

Ma la libertà ebbe un costo e duro. Sei contee, il cosiddetto Ulster, quattro delle quali a maggioranza protestante e lealista alla corona britannica, rimasero al Regno Unito. E fu l’inizio di una nuova tempesta per gli irlandesi cattolici di quelle terre, ora minoranza religiosa.

Nulla cambiò per i sudditi “papisti” dell’Ulster, discriminati da Londra rispetto alla componente protestante in ambito lavorativo, culturale e sociale. Presto iniziarono le violenze di quartiere, i cosiddetti troubles – disordini – con aggressioni e omicidi perpetrati dalle milizie lealiste che portarono al triste conflitto nord-irlandese (1969-2007), alla reazione dell’esercito repubblicano nazionalista, la celeberrima e temuta I.r.a. – Irish Republican Army che andava a contrapporsi ai miliziani dell’U.v.f. – Ulster Volunteer Force e dell’U.f.f. – Ulster Freedom Fighters. E Londra intervenne, affiancandosi neanche troppo velatamente alle milizie unioniste, inasprendo le discriminazioni  e le persecuzioni verso i nord-irlandesi cattolici.

Le violenze si moltiplicarono nei quartieri di Belfast e delle principali città; s’intesificarono le azioni dell’I.r.a. contro obbiettivi politici ed economici – che colpivano anche persone innocenti – e le reazioni dell’esercito inglese e delle milizie lealiste le quali, incapaci di distinguere i miliziani repubblicani dai semplici cittadini, colpivano indiscriminatamente i cattolici. Era il 1969 quando a seguito di nuovi “troubles” a Belfast e a Derry iniziava il suddetto conflitto, una guerra a bassa intensità ma cruenta e crudele.

L’operazione Demetrius.

Non tutti i cittadini, lealisti o nazionalisti che fossero, impugnarono le armi per sparare al prossimo; vi furono coloro che tentarono la via della protesta civile chiedendo pari diritti e la fine delle discriminazioni ai danni della comunità cattolica, tra queste la N.i.c.r.a. – Northern Ireland Civil Rights Association mal vista però dal governo nord-irlandese che la considerava un ricettacolo di arruolamento nelle fila dell’I.r.a.

Sul finire dell’estate del 1971 le tensioni erano salite alle stelle. Londra aveva inviato reparti del proprio esercito ad affiancare la polizia federale della R.u.c. – Royal Ulster Constabulary, protagonista di diverse discutibili iniziative discriminatorie ai danni dei cattolici. A peggiorare la già compromessa situazione fu la decisione britannica di lanciare la cosiddetta Operazione Demetrius (9 agosto) che prevedeva l’internamento di tutti i cittadini  considerati “pericolosi” per la sicurezza nazionale; numerose persone furono arrestate senza processo e condotte in carcere senza apparente motivo se non quello di essere sospettati di appartenere o parteggiare per i separatisti; ciò provoco l’esplosione di violentissimi scontri a Belfast che portarono all’uccisione di undici civili per mano delle forze paracadutiste britanniche. Nella stessa notte cadeva il primo soldato inglese colpito da un cecchino della Provisional I.r.a. – branca scissasi nel 1969 dall’Original I.r.a., accusata di reagire blandamente alle persecuzioni.

I mesi successivi al “massacro di Ballymurphy” videro il sangue scorrere a fiumi, con le uccisioni di diversi cittadini per mano inglese cui prontamente rispondevano i volontari della P.i.r.a. trucidando i soldati di sua maestà. Nel frattempo, gli internamenti coatti e senza processo proseguivano, tra le proteste delle associazioni dei diritti umani mentre il governo unionista di Belfast sceglieva la via del pugno duro, proibendo manifestazioni e cortei (18 gennaio 1972) senza sortire l’effetto sperato dato che le manifestazioni pacifiche proseguirono, suscitando violenti e inauditi interventi dei paracadutisti britannici duramente condannati anche dalla stampa.

Le violenze e le intimidazioni non spaventarono la N.i.c.r.a. che decise di organizzare un nuovo corteo il 30 gennaio del 1972; per evitare disordini fu concesso il permesso di svolgere la manifestazione nei quartieri cattolici ma non in quelli protestanti né tantomeno di transitare davanti i palazzi governativi. Le forze britanniche del reggimento paracadutista avrebbero vigilato sul rispetto del tragitto e sulla sicurezza generale. La città in questione era Derry.

La “domenica di sangue”.

Derry era il centro simbolo del malgoverno nord-irlandese. Mal gestita e con pochi finanziamenti pubblici, priva di collegamenti autostradali e senza centri universitari; qui i cattolici, pur in maggioranza, finivano costantemente sconfitti alle urne locali grazie ad una strategica dislocazione dei seggi elettorali, organizzati in modo da rendere gli unionisti vittoriosi. La provocazione si estendeva alla denominazione ufficiale della città adottata dal governo inglese nel 1613: Londonderry. La scelta della manifestazione non fu dunque casuale: la città era un simbolo per la comunità cattolica.

Al corteo si presentarono tra le 10.000 e le 15.000 persone; pacificamente in marcia giunsero in vista del municipio di Derry, la cui zona come detto era stata interdetta ed era presidiata dalle forze inglesi. Il corteo iniziava – come stabilito – a mutare percorso e dirigersi nella zona cattolica del Free Corner Derry; sembrava che tutto si svolgesse in ordine sebbene alcuni gruppi di esagitati iniziassero a tirare sassi ai soldati, i quali rispondevano inizialmente con proiettili di gomma. Poi all’improvviso la tragedia: le forze inglesi aprirono il fuoco.

Iniziò quello che sarebbe passata alla storia come Bloody Sunday, la domenica di sangue. Le persone si diedero alla fuga cercando riparo ove fosse loro concesso mentre i paracadutisti inglesi sparavano, caricando con autoblindo e arrestando chi riuscissero a fermare.

Molti caddero colpiti alla schiena, nel tentativo di sfuggire. Il tutto durò dieci minuti. Dieci minuti lunghi come dieci secoli. Il primo fu un diciassettenne, John Duddy, freddato da un colpo in pieno petto benché fosse disarmato; cadde colpito alla schiena il trentunenne Patrick Doherty e con lui l’eroico Bernard McGuigan, di dieci anni più anziano, che coraggiosamente tentò di soccorrere il primo finendo ucciso con un colpo alla nuca benché sventolasse un fazzoletto bianco. E con loro altri perirono in quegli infernali istanti. In totale quattordici vite furono spezzate quel giorno – l’ultima vittima, John Johnstone, si spense sei mesi dopo, l’unica a non perire quel giorno.

Le conseguenze e la memoria.

In tutta Irlanda esplose la rabbia e un gigantesco sciopero dei lavoratori, il più grande del secondo dopo guerra in Europa, bloccò l’isola per una giornata. L’ambasciata inglese di Dublino venne data alle fiamme e i deputati irlandesi in Europa chiesero l’invio di un contingente di caschi blu  a tutela dei cattolici nell’Ulster. Da parte del governo britannico si cercò la linea della legittima difesa dei soldati, presunti oggetti di bombe a mano e di proiettili, ma le testimonianze dei presenti, inclusa la stampa, negavano la cosa. Eppure, a Londra prevalse l’insabbiamento e la nota Inchiesta Widgery – dal giudice che la presiedette – non fece altro che avvalorare le tesi difensive militari.

L’orrore e la rabbia suscitata dall’orrore di quella domenica e dalla mancata giustizia spinsero migliaia di volontari ad abbracciare la causa della P.i.r.a., dell’O.i.r.a. e, successivamente, della marxista I.n.l.a. – Irish Nacional Liberation Army (1974); le adesioni nel breve periodo furono tali che le stesse strutture paramilitari fecero fatica ad assorbire e inquadrare le nuove leve.

Vi fu anche chi sostenne la via della pace e della concordia, come il sacerdote cattolico Edward K. Daly (1933-2016), successivamente vescovo della stessa Derry, che eroicamente aveva soccorso un ferito degli scontri e che sempre sostenne la via della preghiera e della pace ottenendo consensi anche da parte del clero protestante.

Ma la guerra proseguì cruenta e gli episodi osceni simoltiplicarono a dispetto del sangue innocente versato a Derry, dai duri regimi di prigionia britannici di Long Kesh –  che avrebbero agli scioperi della fame dei detenuti e alla morte di Bobby Sands (1954-1981) – ai tremendi attentati dinamitardi delle forze nazionaliste.

Solo con l’accordo di pace del “Venerdì Santo” (1998-1999) qualche timido spiraglio si sarebbe iniziato a intravvedere sulla terra martoriata dell’Irlanda nel nord e con l’Inchiesta Saville, iniziata nel 1998 e chiusa nel 2010, fu dimostrato come i paracadutisti inglesi avessero aperto il fuoco “dopo aver perso il controllo” contro persone disarmate e indifese; nonostante le rimostranze dei militari che commisero la strage, fino all’estremo neganti ogni responsabilità diretta, l’allora premier inglese David Cameron rivolse le pubbliche scuse per quanto accaduto ai manifestanti di allora, suscitando il plauso delle piazze irlandesi. Fu aperta anche un’indagine per omicidio volontario contro uno dei paracadutisti, caduta però nel vuoto per mancanza di prove.

La memoria del Bloody Sunday vive tutt’ora impressa negli scritti e nelle canzoni di diversi musicisti e autori; un dolore che fu condiviso da gran parte del mondo. Eppure, ancora oggi a distanza di cinquant’anni, le provocazioni e le tensioni in quel lembo d’Irlanda non mancano da ambo gli schieramenti. Mentre le vittime innocenti del 30 gennaio 1972 – e quelle di tutto il conflitto – ancora attendono una vera giustizia, così come a Derry lo scheletro dello stemma attende che si onori il motto cittadino e che la verità e la vita si uniscano davvero nel segno della vittoria.

Nicolò Dal Grande

Bibliografia consigliata

Martelli M., La Lotta Irlandese, Il Cerchio, 2006

Gulisano P., Per l’onore d’Irlanda, Il Cerchio, 2016

Maloney E., Storia segreta dell’I.r.a., Dalai Editore, 2004

Sands B., Calamati S. (a.c.), Un giorno della mia vita. L’inferno del carcere e la tragedia dell’Irlanda in lotta, Feltrinelli, 2014.

Bigini E.F., Storia dell’Irlanda dal 1845 ad oggi, Il Mulino, 2013.

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