La recente sentenza della Corte Costituzionale polacca che tante reazioni ha suscitato anche in Italia vorrebbe concludere a favore di Varsavia il contrasto con l’UE, che ritiene non conforme ai principi del diritto comunitario le modifiche apportate dalla Polonia al proprio sistema giudiziario. Difatti il governo polacco ha contestato per sospetta “incompetenza” le decisioni della Corte di Giustizia Europea che hanno ordinato la sospensione della riforma. Investendo della questione la propria Corte costituzionale. I giudici di Varsavia, dopo avere argomentato in via generale sui rapporti fra il diritto interno dei singoli Stati membri e il diritto comunitario, pur riconoscendo la prevalenza di quest’ultimo in altri campi, l’hanno esclusa in punto a organizzazione del sistema giudiziario.
In Europa e in Italia le prime reazioni sono state di ostentato stupore. Ursula von der Leyen ha affermato che “il diritto europeo mantiene il primato su quello nazionale” e si è impegnata ad utilizzare “tutti gli strumenti necessari per garantirlo”. Media e politici italici si sono spinti più in là, fino ad assicurare che si tratta di un unicum, senza “ precedenti nella storia europea” e a prospettare l’intento della Polonia di lasciare l’Unione. A chi contrapponeva i precedenti del Tribunale di Karlsruhe (come dire la Corte costituzionale tedesca) è stato replicato che sarebbe come “mescolare le mele con le pere”. Sulla stessa linea critica, pur senza richiami all’ortofrutta, il segretario del PD, Enrico Letta, per il quale la sentenza polacca sarebbe “di principio, generale e dalle conseguenze gravi a differenza di quella tedesca, che è rimasta, difatti, senza seguiti”.
In realtà un esame spassionato induce a collegare, in un rapporto di discendenza diretta, la decisione della Corte di Varsavia a quella tedesca del 5 maggio 2020, riguardante il Public Sector Purchase Programme (PSPP), cioè la delibera di acquisto da parte dell’Ue di titoli emessi dai governi degli Stati membri (nella sostanza: finanziamenti a favore degli Stati membri colpiti da grave crisi economica, fra i quali in prima linea l’Italia). Delibera ritenuta legittima dalla Corte di Giustizia dell’Unione e messa invece in dubbio dai giudici di Karlsruhe, che ritengono indispensabile per la partecipazione della Germania l’approvazione del Parlamento tedesco.
Per giungere a questo risultato la Corte tedesca ha portato al livello più alto tendenze,e argomenti di sue precedenti decisioni, che già oltrepassavano l’orientamento di altre Corti costituzionali (Italia inclusa), che, pur riconoscendo la superiorità del diritto comunitario su quello nazionale, la escludono, ma soltanto in questo caso, quando si tratta di proteggere gli inalienabili diritti fondamentali previsti dalle singole Costituzioni. I giudici di Karlsruhe sono andati oltre, fino a limitare solo ad ipotesi specificamente individuate e, in definitiva, eccezionali, il trasferimento all’Unione di competenze caratterizzanti il potere sovrano del Parlamento tedesco. Difatti – affermano – un trasferimento di carattere generale o, comunque, di più ampio contenuto, sarebbe incompatibile con il principio democratico e il diritto di voto del cittadino tedesco.
Un principio che più generale non si può e che, proprio per questo, suscitò un immediato, vivissimo allarme fra i costituzionalisti, che vi vedevano il preludio non della Deutschland-exit (la Germania non può uscire dalla UE, perché la UE è la Germania), ma la fine dell’Unione, oppure la sopravvivenza di un’Unione nella quale – come è stato autorevolmente scritto – “è il diritto della UE che viene misurato rispetto alla sua conformità con un “diritto europeo tedesco”. Quanto poi alla mancanza di “seguiti”, la sentenza è ancora lì, coi suoi principi, pronti – se occorre – a nuove applicazioni. E ancora lì sono le sue conseguenze. Prima fra tutte la possibilità per i cittadini tedeschi di impugnare davanti al Tribunale di Karlsruhe tutti gli atti comunitari che ritengano lesivi di propri diritti costituzionali (in Germania, in caso di supposta lesione di questi diritti da parte di organi pubblici, ci si può rivolgere direttamente alla Corte costituzionale, a differenza di quanto avviene in Italia, dove occorre passare per il tramite del giudice ordinario).
Nella sostanza, la Corte Costituzionale polacca, senza negare, in linea di principio, la prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale, vi ha apposto il paletto (il “contro-limite” del linguaggio giuridico) del principio (tedesco) “dell’attribuzione”, che comporta il passaggio di sovranità alla UE solo per situazioni specifiche. Di conseguenza, in mancanza di espressa delega: “il tentativo di interferire nell’ordinamento giudiziario polacco da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea viola i principi dello Stato di diritto: il principio di supremazia della Costituzione e il principio di conservazione della sovranità nel processo di integrazione europea”.
Sovranisti i giudici di Varsavia? Può essere, ma non più di quelli di Karlsruhe, dato che, con buona pace del “giurista” Enrico Letta, la sentenza polacca costituisce significativo “seguito” di quella tedesca PSPP, non per nulla subito classificata dai costituzionalisti “causa di una grave crisi istituzionale nell’ambito del processo d’integrazione europeo”.
Francesco Mario Agnoli