Da qualche tempo a questa parte si riparla di inflazione, dopo decenni di deflazione. I devoti dell’economia classica hanno subito giubilato accusando quale causa di questo nuovo scenario inflazionistico, che tuttavia è ancora presunto, le politiche anti-austerità e l’immissione nel mercato di massicce quantità di denaro creato ex nihilo a partire dalla crisi del 2007. Dietro queste critiche persiste la cosiddetta “teoria quantitativa della moneta” per la quale, essendo la moneta una merce, il suo valore, come tutte le altre, diminuisce quando ce ne è troppa in circolazione. Da qui il suggerimento di politiche di austerità onde stabilizzare i prezzi. L’intero edificio dell’Unione Europea è stato costruito su questo presupposto teorico.
Orbene, a parte il fatto che le origini storiche della moneta non sono mercantili ma sacrali – e questo rilievo, da solo, basterebbe a smontare la teoria classica –, l’idea che la moneta sia una invenzione per favorire gli scambi è un enorme svarione teoretico anche sotto il profilo giuridico ed economico. Per i classici la moneta fu inventata allo scopo di abbattere i costi di comparazione tra i beni attraverso l’individuazione di una merce standard sulla quale parametrare il loro valore. Secondo questa narrazione il mondo, anche dopo l’introduzione del sistema monetario, ha continuato ad essere soltanto una grande rete di baratti semplicemente “velati” dalla moneta.
Orbene, date le sue origini sacrali, al contrario di quanto sostenuto dalla teoria classica, la moneta è sempre stata uno strumento a disposizione dell’Autorità politica per governare e regolare la vita associata. Mediante la moneta il Potere Sovrano stabilizza il fisco imponendo agli amministrati la necessità di procurarsi ed usare, per il pagamento delle tasse, la moneta da esso prescelta. Nel momento nel quale l’Autorità politica pretende che gli obblighi fiscali siano assolti mediante la valuta a corso legale questo fatto rende inevitabile l’uso della medesima moneta anche nei rapporti orizzontali tra i sudditi/cittadini. La moneta, in altri termini, è sempre stata, sin dalle sue origini storiche, una espressione del Politico, uno strumento di sovranità.
L’idea della moneta-merce, cui fa riferimento la scuola di economia classica, è un residuo mentale dei tempi nei quali vigeva il gold standard, sia nella forma della diretta coniazione aurea sia nella forma della riserva aurea quale sottostante di valore per la carta-moneta. Oggi che la moneta sta diventando digitale – qui non entriamo nel merito dell’ambiguità di tale trasformazione e dei pericoli che essa sottende – l’inconsistenza della teoria classica appare chiara a chiunque. Ma la stessa evidenza non si registrò nell’immediato, quando, tra il XVII ed il XVIII secolo, gradualmente intervenne il passaggio dalla moneta aurea alla carta moneta, la nota di banco, erede della medioevale lettera di cambio. Quel passaggio ha fatto assurgere per volontà sovrana al ruolo di moneta la nota di banco che in precedenza circolava quale titolo di credito soltanto tra i privati. Nel momento nel quale, per l’appunto, il re o la repubblica pretesero a pagamento delle tasse le cambiali di origine bancaria, ufficialmente coperte dai depositi aurei, le trasformarono in moneta legale.
Sin dall’inizio ad una attenta osservazione sarebbe stato già evidente che il valore della carta moneta non dipendeva dall’oro sottostante ma dalla volontà politica sovrana. Ciononostante anche dopo la fine del gold standard, nel 1971, la scuola classica ha continuato a perorare la “teoria quantitativa” che riconduce il valore della moneta, ossia il suo potere d’acquisto, alla quantità che ne è in circolazione in un dato periodo storico. Da qui la convinzione che troppa moneta causa inflazione, ossia aumento dei prezzi, e poca moneta causa deflazione, ossia il crollo dei prezzi. L’idea che la moneta sia una merce porta i classici a ritenere che la sua svalutazione, causata da una eccessiva quantità, sia la causa diretta dell’impennata dei prezzi perché lo stesso bene che precedentemente poteva essere acquistato con meno moneta richiede ora più moneta di minor valore. Viceversa, un bene che precedentemente si acquistava con maggior quantità di moneta diventa acquistabile con meno moneta perché la sua rarità ne provoca la sovra-valutazione ossia un aumento del potere d’acquisto.
E’ evidente, in detta teoria, che la moneta è considerata una merce soggetta alla medesima legge di mercato delle altre merci, ovvero alla legge economica della necessaria scarsità delle risorse affinché esse possano conservare valore. Una teoria, quella classica, che giustifica le politiche conservatrici ossia a tutela degli interessi di chi ha più moneta, ed ha timore della perdita di potere d’acquisto, ed a discapito di chi ne ha meno, e non ha lo stesso timore.
Se, come si diceva, l’apparire della moneta digitale – che ha forma di un mero flusso numerico sulle piattaforme del web consistendo nel trasferimento di cifre da un conto corrente all’altro senza effettivo passaggio di moneta reale – vanifica del tutto detta teoria, è storicamente evidente che essa non aveva più senso già ai tempi della comparsa della cartamoneta, presuntamente coperta da oro. Mentre ai tempi della coniazione aurea si poteva ancora parlare di valore intrinseco della moneta – che poi si trattasse anche in tal caso di un errore di prospettiva è un altro discorso che qui non possiamo approfondire – con la comparsa della carta moneta non era più possibile farlo. La carta, a differenza dell’oro, non ha alcun valore intrinseco. Allo scopo di accreditare il nuovo strumento cartaceo, ed indurre fiducia in esso da parte del pubblico, la cartamoneta fu introdotta, con atto sovrano, quale titolo rappresentativo di una merce sottostante, ossia l’oro depositato nella Banca centrale. In realtà la proporzione tra oro depositato e moneta cartacea circolante non fu mai veramente rispettata, in modo assoluto, perché l’innovazione cartacea era nata proprio per sopperire alla difficoltà della rarità aurea che un tempo costringeva i sovrani a “tagliare” l’oro coniato con altri metalli meno preziosi e meno rari, onde disporre di maggior liquidità.
Se, dunque, la moneta cartacea non ha alcun valore intrinseco, allora come spiegare i fenomeni dell’inflazione e della deflazione? Detti fenomeni, che rispettivamente consistono nell’aumento o nella diminuzione dei prezzi, devono essere sostanzialmente ricondotti ad un problema di squilibrio tra domanda ed offerta dei beni. Laddove la domanda eccede sull’offerta i prezzi dei beni, secondo la legge di mercato, tendono ad aumentare. Laddove, al contrario, è l’offerta che eccede sulla domanda i prezzi dei beni tendono a diminuire.
In caso di inflazione la questione diventa problematica soltanto quando l’aumento dei prezzi si impenna al punto che gli investimenti non sono più remunerativi in termini monetari ed i consumi non riescono più a stare al passo del continuo aumentare dei prezzi. In caso di deflazione la situazione si fa critica quando la produzione resta invenduta – diventando sovraproduzione la cui contro-faccia è il sottoconsumo – per carenza di domanda che causa a causa del crollo dei prezzi, con la conseguenza dei fallimenti, della disoccupazione e dell’ulteriore discesa dei prezzi.
Si tratta di due mali come l’inondazione e la siccità. Ma mentre in questi fenomeni naturali tutto dipende dalla quantità, eccessiva o insufficiente, di acqua, nel caso dell’inflazione e della deflazione, in regime di moneta cartacea, di moneta fiat, l’aumento o la diminuzione della sua quantità non suscita effetti diretti sul potere d’acquisto ossia sul suo valore, proprio perché la moneta fiat non ha alcun valore intrinseco ovvero non è una merce soggetta alla legge della domanda e dell’offerta. Ciò che sfugge alla “teoria quantitativa” è il fatto per cui la maggiore o minore quantità di moneta influenza, in modo indiretto, i redditi ossia la capacità di spesa che determina l’equilibrio o lo squilibrio tra domanda ed offerta dei beni sul mercato. Politiche d’austerità, intese a ridurre o contenere i redditi, in particolare quelli dei ceti produttivi ossia la classe media e la classe lavoratrice, inducono una restrizione della capacità generale di spesa provocando la diminuzione dei prezzi, per scarsità della domanda rispetto all’offerta, ossia deflazione. Al contrario, politiche eccessivamente espansive, intese ad aumentare senza criterio i redditi, inducono un allargamento della capacità generale di spesa alla quale, se l’offerta non è elastica nell’allinearsi tempestivamente alla domanda, segue l’aumento dei prezzi ossia l’inflazione.
Quest’ultima, però può avere anche un’altra causa di tipo esogeno, piuttosto che endogeno come quella dell’eccesso di domanda. Esiste, infatti, anche la variante dell’inflazione da costi che si manifesta quando uno o più costi di produzione aumentano inducendo un aumento dei prezzi dei prodotti finiti.
Ad esempio, negli anni ’70 l’aumento, a causa delle guerre arabo-israeliane nel Vicino Oriente, del prezzo alla fonte del greggio si ripercosse, quale costo di produzione, sul prezzo dei prodotti immessi sul mercato, innescando di conseguenza, per effetto della scala mobile salariale, l’aumento nominale dei salari che si risolveva in un ulteriore aumento dei costi di produzione ossia in una perdita di potere d’acquisto reale dei salari medesimi, e così via. Era l’inflazione da costi a “tirare” gli aumenti salariali. Tuttavia la narrazione neoliberale, che si impose all’epoca, fece passare, quasi senza critiche, l’idea che l’inflazione fosse originariamente dovuta agli aumenti salariali per effetto della scala mobile che avrebbe dovuto tutelare gli stipendi dall’inflazione ed invece la provocava. Da qui le politiche degli anni ’80 intese a bloccare la scala mobile ed a far divorziare il Tesoro dalla Banca d’Italia. L’inflazione, è vero, in quegli anni scese ma soprattutto per effetto del fatto che, superate le due crisi mediorientali del 1973-74 e del 1979, il prezzo del greggio tornò ad abbassarsi con le nuove immissioni sul mercato delle quantità di petrolio necessarie all’industria occidentale. Senza dubbio il blocco della scala mobile contribuì a fermare l’inflazione e tuttavia questa si sarebbe fermata autonomamente per il venir meno del rialzo del prezzo del greggio. Nel frattempo però nei Paesi industrializzati avevano trionfato le politiche neoliberiste, che nonostante fossero, per l’appunto, “neo” restavano ancora ancorate alla vecchia “teoria quantitativa della moneta”.
Ora, sembra che una inflazione simile, ossia da costi delle materie prime, si stia riaffacciando sullo scenario dell’economia globale. Veniamo, dunque, ai fatti odierni.
Il prezzo delle materie prime sta trainando una impennata inflattiva. Il loro costo va aumentando a causa della scarsità dell’offerta. Il blocco della produzione di materie prime, causato dalla pandemia, ha provocato una carenza di offerta nel momento nel quale, con la ripresa, la domanda torna a salire. In particolare sono gli Stati Uniti e la Cina a spingere la pressione inflazionista. La Cina, in regime di pandemia, nel 2020 ha accaparrato oltre 4 milioni di tonnellate di rame ed altri metalli di base sottraendoli alla disponibilità degli altri Paesi. Gli stimoli finanziari statunitensi, per sostenere la domanda durante la crisi iniziata nel 2007, ammontanti a circa 5.000 miliardi di dollari, con il sopraggiungere del blocco produttivo pandemico dal lato dell’offerta si sono trasformati in una forte spinta ad una domanda che però non ha trovato più un livello adeguato di offerta, facendo innalzare i prezzi.
L’Eurozona invece, che vive del mito liberoscambista globale, non solo non ha pensato ad approvvigionarsi per tempo di materie prime ma non ha neanche supportato tempestivamente la domanda all’inizio della crisi del 2007 come hanno fatto gli Stati Uniti.
«Le mosse cinesi e quelle americane – ha detto Gianclaudio Torlizzi, direttore generale di Tcommodity, a Claudio Antonelli in una intervista su “La verità” dell’08.05.2021 – concorrono adesso a pompare l’inflazione. Gli ordini [di materie prime] dell’industria sono aumentati ancor di più rispetto alla fine del 2020, la Fed non può che praticare una politica espansiva e la Cina giorno dopo giorno contribuisce a rompere gli equilibri della supply chain mondiale. (…). L’Europa non è stata in grado di prevedere l’attuale situazione e, se aggiungiamo il fatto che il mercato del lavoro del Vecchio Continente è depresso, a differenza di Usa e Cina, comprendiamo che noi non siamo in grado di assorbire il rialzo del costo dei prodotti. Le imprese extra Ue possono ricaricare i rialzi sul prodotto finito con meno problemi perché più famiglie lavorano e i lavoratori vedono al rialzo le loro buste paghe. Per noi l’inflazione non è sostenibile e al tempo stesso la scarsità di materie prime rallenta le aziende che così perdono concorrenzialità anche nel settore dell’export, dove Ue e Italia erano più forti».
Come possiamo uscirne? La soluzione che potrebbe portarci fuori dal pantano ha un nome preciso, però inviso all’ideologia di Maastricht, ossia “sovranità politica”. Perché solo laddove c’è esercizio di sovranità – cosa che implica una chiara visione politica e geopolitica di affermazione della propria presenza sullo scenario mondiale – è possibile, come ha fatto la Cina, controllare la filiera delle materie prime. Detta filiera, a causa della globalizzazione, è attualmente a maglie larghe ed estese, sicché la rete della produzione e del consumo di materie prime copre l’arco di interi continenti. Chi riesce a comprimere la filiera sul territorio dove è esercitata la propria sovranità ha gli strumenti adeguati a combattere l’inflazione da costo delle materie prime. Ed è esattamente quello che hanno compreso Cina e Stati Uniti le quali, lasciandole volentieri ai sognatori eurocratici, se ne infischiano delle favole liberoscambiste della globalizzazione ed hanno agito in modo “sovranista” sul mercato primario del greggio e dei metalli base.
L’Europa deve urgentemente trovare una propria identità sovrana, ricercandola nelle sue radici storiche, se vuole finalmente diventare sullo scenario mondiale, perché fino ad oggi non lo è mai stata, un soggetto politico conscio del proprio ruolo e dei propri interessi, che quasi sempre divergono da quelli americani. L’Italia poi, in particolare, deve recuperare decenni di smantellamento del proprio manufatturiero e delle altre eccellenze del “made in Italy” e questo non sarà possibile fino a quando continueremo a cullarci con i sogni globalisti che la sinistra arcobaleno, scontrandosi oltremodo con la vera sinistra di matrice piuttosto “nazional-comunista”, impone a questo disgraziato popolo che, una volta, era fatto di “santi, poeti e navigatori” ed oggi è ridotto ad un branco di assistiti con il reddito di cittadinanza che si ingozzano, sul divano, con pessimo cibo di importazione, davanti a spettacoli tv a base di ideologia Lgbt. Per lo più si tratta anche un branco passivamente vaccinato ossia usato come cavia della più grande sperimentazione medica di massa mai finora vista.
Una cosa, in conclusione, è chiara: il governo di inflazione e deflazione è una questione squisitamente politica, come fattispecie politica è la moneta, che non può essere lasciata ai meccanismi del mercato o risolta, nel caso dell’inflazione, con nuove politiche di austerità.
Luigi Copertino