Non esiste nessuna legge, nessuna “convenzione”, nessun “contratto sociale” in grado di fondare sul serio la legittimità del potere, alla cui base c’è l’auctoritas come necessaria legittimazione di qualunque potestas. Il fondamento del potere è divino, non umano. Trascendente, non immanente. Metastorico, non storico. O comunque, è così ch’esso è stato sentito e interpretato in modi differenti, a quel che ci suggeriscono gli antropologi, da tutte le civiltà umane. Rousseau e il suo Contratto sociale sono, quanto meno sotto l’aspetto dell’origine del potere, ormai inadeguati rispetto alle cognizioni sociologiche e antropologico-culturali odierne.
Le mani del re sono mani di guaritore. L’affermazione tratta da Il Signore degli Anelli di John Ronald Reuel Tolkien, nel quale la figura di Aragorn richiama al perfetto archetipo della regalità sacra, rinvia al celebre studio di Marc Bloch I re taumaturghi e a uno dei problemi forse fondamentali dell’intero genere umano sotto il profilo storico-antropologico.
I re non muoiono mai. Ernst H. Kantorowicz in I due corpi del re e Sergio Bertelli in Il corpo del re ci hanno insegnato che, quando il “corpo naturale” del re, quello fisico e mortale, perde il suo soffio vitale, il “corpo politico”, ch’è tanto invisibile quanto incorruttibile, sopravvive. Quando il sovrano scompare e il suo corpo non si trova né si conosce il luogo della sua sepoltura, si diffonde la fama ch’egli non sia mai morto e che debba tornare.
Tornano sempre, i re: debbono tornare. E, tornando, ristabiliscono la giustizia, restaurano i costumi, premiano i buoni e i fedeli, puniscono i malvagi e gli infedeli, inaugurano infine il regno della pace e dell’ordine. È sempre stato così, dai tempi del nóstos di Ulisse ad Itaca. Modello mitico del Ritorno del Re è la Seconda Venuta Apocalittica del Cristo.
È sempre stato così, nell’iperuranio del mito: ma è accaduto di rado, nelle bassure della storia. E, quando accade, il ritorno del re è tragico, o tragicomico, o penoso. Cola di Rienzo, Napoleone, Napoleone, Mussolini. Nel “triangolo” magico del rapporto tra mito, storia e utopìa, se il primo sta al culmine e gli altri due alle cuspidi degli angoli divergenti, si può dire che alla verticalità (in entrambi i casi percorribile nelle due direzioni) del rapporto tra mito e storia da una parte e mito e utopia dall’altra corrisponda un’orizzontalità – quella della storia: se si preferisce, perfino della “freccia del tempo” – che unisce la storia all’utopìa.
Nell’àmbito delle ricerche e delle polemiche relative al concetto di utopìa come tensione verso una perfezione che non si trova nel presente ma che pure, una volta immaginata con gli strumenti della ragione e della fantasìa, potrebbe trovar luogo nel futuro, trova senza dubbio una sua legittima collocazione il tema – storico, filosofico, teologico, politico e antropologico al tempo stesso – della “regalità sacra” in quanto autorità e potere che trovano la fonte della loro legittimità e del loro corretto esercizio in una dimensione trascendente: che hanno quindi le loro radici nel “Divino”, o – se si preferisce – nel Sacro inteso nella sua dimensione di ganz Anderes, vale a dire di “totalmente Altro” rispetto a tutto quel che appartiene alla storia, all’umanità, alla razionalità. In altri termini, le ragioni della legittimità e della realtà stessa di un esercizio dell’autorità e del potere concepito al tempo stesso come perfettamente legittimo e perfettamente corretto (cioè in grado di adempiere il dovere primario del governo degli uomini, il guidarli verso la felicità) si collocano nell’ordine cosmico celato nel Mythos, il “racconto primordiale” di cui gli innumerevoli miti dei differenti sistemi mitico-religiosi presenti nella storia dell’umanità sono inesauribili varianti, e nel Kerygma, il “significato” razionalizzabile che è necessario rintracciare in ciascuno di essi.
Non si creda che quanto sopra sia frutto di una serie di considerazioni a carattere filosofico o teorico, destinate a trovare la loro unica legittimità in campo intellettuale. Qui si parla in realtà concretamente di noi, della possibilità di convivere serenamente e proficuamente su questa terra: perché si parla della necessità di darsi nelle norme che siano universalmente accettate e rispettate in una dimensione che – ben al di là dei sistemi filosofici e religiosi ai quali possiamo riferirci – mira allo scopo presente dalla Bibbia e da Platone e Aristotele in poi (ma anche da prima) in tutti i testi di essenziale riferimento ai quali ci siamo nel corso dei secoli ispirati. Il Bene Comune, al quale tutti tendiamo nella consapevolezza che ogni tentativo di volgerlo a vantaggio di un singolo individuo o di un singolo gruppo lede un equilibrio e scatena reazioni incontrollabili. Come ha più volte ricordato Massimo Cacciari, il fondamento delle leggi non può radicarsi nei termini razionali del “contrattualismo” teorizzato da Rousseau, di una serie di convenzioni cioè che sono per loro natura discutibili e contestabili per quanto eccellenti possano essere. Esso dev’essere indiscutibile e intangibile, quindi sottratto a quella critica umana che pure sarà preziosa poi, per discutere e migliorare i suoi frutti umani e storici, le leggi. Ma il Fondamento deve radicarsi nell’Eternità e nella Perfezione, che non sono né storiche né umane. Quindi nel Sacro. Ciò è quel che vediamo nelle antiche Monarchie Universali – dalla Cina all’Egitto faraonico alla Persia achemenide alle culture tradizionali americane e oceaniche – e che individuiamo riflesso nel principio delle “monarchie di diritto divino” che, discendendo dall’esempio legittimante del modello ellenistico-romano attraverso il confronto con il cristianesimo, giungono fino a lambire la Modernità e vengono definitivamente contestate solo fra XVII e XVIII secolo.
Per mantenersi su un più agevole e comprensibile terreno storico, tenendo conto delle esigenze di sintesi a questa sede proprie e rispettando altresì cadenze e scadenze cronologiche, torniamo a un evento concreto situabile nella seconda metà del IV secolo a.C. La “rivoluzione eurasiafromediterranea” che ha conferito una dimensione per quel tempo “universale” sia pure nelle prospettive geostoricamente parlando limitate allora concretamente concepibili e praticabili è individuabile nell’impresa di Alessandro Magno, il quale ha imposto alla sua autorità regia e alle giustificazione mitica dell’esercizio del suo potere una scaturigine divina – quella del “racconto mitico” della sua stessa nascita da Zeus – ispirandosi ai modelli archetipici, fusi insieme, delle due “Monarchie sacre” da lui soggiogate ma non rinnegate né abolite, quella persiana achemenide e quella egizia faraonica.
Il punto fondamentale consisterebbe a questo punto, e dinanzi ai due modelli assunti da Alessandro e ad Alessandro a sua volta come modello, nello stabilire se il “Re-Padre” è aspetto del “Dio-Padre” o suo vicario-rappresentante-immagine. Le due forme archetipiche della monarchia sacra, l’egizia e la babilonese trasmessa ai Persiani i quali a sua volta si giovarono altresì di modelli indoarii, forniscono al riguardo le due rispettive Urgestalten del re-dio e del re-sacerdote: anche se Alessandro sembrò privilegiare la prima forma e assumere la seconda solo occasionalmente e forse strumentalmente.
Il modello alessandrino ispirò nel I secolo a.C. la “democrazia popolare” romana del partito mariano, che avendo il suo nucleo nell’esercito legionario e nell’aspirazione espansionistica della casa degli Scipioni (quindi in Mario attraverso i Gracchi) ispirò Cesare, l’autentica erede del quale sarebbe stata forse, attraverso Antonio, Cleopatra – non certo Ottaviano, quindi – e che si tradusse non già nell’“imperialismo aristocratico” di Augusto princeps senatus bensì in quello del divino monarca legibus solutus – in una linea che attraverso Settimio Severo dominus ac deus perviene a Caracalla (l’estensore della cittadinanza romana a tuti i sudditi dell’impero con la Constitutio Antoniniana) e di là ai Soldatenkaiser del III secolo che avevano elaborato le dimensioni sia dei re-sacerdoti siriaci dediti ai culti solari sia dei Gran Re arsacidi. Da essi i sovrani del IV secolo, che compirono con sicurezza per quanto in modo non diretto né lineare il passaggio dal monoteismo solare aurelianeo al culto mithraistico e a quello, ad esso collegato, del Sol Comes Invictus, poterono prima con Costantino e poi – esplicitamente scelto il cristianesimo – con Graziano e soprattutto con Teodosio, poterono passare al Cristo come sovrano cosmico, Signore dello spazio e del tempo, Kosmokrator e Kronokrator. Da qui si affermò una teologia imperiale che si sarebbe sviluppata sia nella pars Orientis sia nella pars Occidentis dell’impero, indicando là il basileus quale Philokristòs e Isapostolos e proponendo qua – il nuovo Cesare ottoniano e quindi francone, dopo l’incerta preistoria carolingia, quale nuovo Cristo attorniato dai dodici apostoli e accantonato dai re d’Israele David e Salomone: come ben si evince dalla theologia imaginalis della Santa Corona di Vienna, con la placca frontale in cui il Cristo è la grande opale solitaria (der Waise, l’“Unica”) attorniato dalle gemme che sono tante quante le dodici tribù effigiate come pietre appunto sul pettorale del Gran Sacerdote d’Israele, mentre le due placche laterali rispetto ad essa recano appunto effigiati il re islamista e il re poeta-teologo del Cantico dei Cantici.
È evidente che basileis e imperatores cristiani fondarono il loro concetto di regalità sacra sul modello costituito dalla regalità del Cristo. Tuttavia le scaturigini di quella dimensione imperiale cristiana riposavano vano essenzialmente, oltre che sulla Bibbia, sulle tradizioni egizia e persiana, entrambe rivisitate attraverso la ridefinizione di Alessandro il Grande ma avvicinate in modo apparentemente “diretto” (in realtà la mediazione alessandrina era comunque presente) da Cesare e dalla tradizione cesariana.
Ma con la cristianizzazione dell’impero a questi modelli si era andato aggiungendo con forza quello davidico-salomonico desunto dal Nuovo testamento e provvisto d’una sua forte carica messianica. L’imperatore cristiano si era, da allora, presentato come vicario e figura del Vero Re, il Cristo; il sovrano terreno era typus Christi, ma il carattere sacramentale della sua incoronazione – specie dopo l’adattamento di radice merovingia attraverso Carlomagno del rituale veterotestamentario dell’unzione – ne faceva un “Cristo del Signore”. Questa complessa dinamica si riflette nei cerimoniali: sia in quello imperiale romano pagano, sia in quello cristiano che ne costituì la continuazione ma anche la riforma profonda.
Da allora la Cristianità, dopo la caduta dell’impero bizantino (nonostante i suoi avatara zarista e addirittura ottomano) e nel lento svanire della Renovatio del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, è vissuta lunghi secoli nell’attesa del Ritorno del Re, che avrebbe dovuto compiersi in un futuro prossimo e al tempo stesso alla fine dei tempi. È il mito dell’Imperatore dei Giorni Ultimi, nato sulla base di apocrifi scritturali d’origine greco-orientale, che si è perpetuato anche in area islamico-sciita con la figura dell’“Imam Velato” e in Occidente si è incarnato volta per volta in sovrani differenti: Carlomagno, il Barbarossa, Federico II di Svevia, Montezuma, Tupac-Amaru Inca, lo czar Dimitri, Giacomo II Stuart, il delfino Luigi XVII, lo czar Nicola II, più di recente il Negus Hailé Selassié nel gruppo religioso afrogiamaicano Rasta (che trae appunto il nome da quello dell’ultimo imperatore etiopico prima dell’intronizzazione, Ras Tafari) divenuto famoso nel mondo grazie alla musica di Bob Marley. Di ciò riparleremo tra breve.
Ma la Resurrezione del Cristo è evento unico, garanzia e primizia di un Novissimum: qualunque eternità del Corpo Politico del re (“il re è morto: viva il re!”), concepita nella storia ma annullata alla fine di essa nella concezione apocalittica dall’avvento del Regno di Cieli, ne è soltanto un pallido surrogato. D’altronde, all’interno della fenomenologia del Ritorno storico dei re – che può essere concepito sia continuità, sia come restaurazione – è importante che il sovrano candidato al ritorno escatologico e apocalittico non sia mai stato dato con sicurezza come morto. È importante che le circostanze della sua misteriosa o controversia scomparsa siano arcane o comunque poco chiare, come nel caso di Romolo secondo la narrazione di Livio, che non esista una tomba nella quale i suoi resti siano con certezza custoditi. In tal modo egli entra più facilmente nella schiera di coloro dei quali non si può accertare con sicurezza la morte, anzi di quelli che – come si dice di Giovanni Evangelista – non sono mai morti: degli eletti di ciascuno dei quali si può dire vivit et non vivit perché hanno ricevuto la grazia se non dell’eternità quanto meno dell’indefinita longevità, in modo da poter sopravvivere fino all’Apocalisse – magari immersi in un lungo sonno, come si dice del Barbarossa – ed essere i testimoni estremi e i fedeli battistrada del Secondo Avvento del Messia. In questo modo le loro figure s’intrecciano con quella, tremenda, dell’Anticristo: e ne divengono ora le possibili prefigure (Artù, il Barbarossa stesso, Federico II di Svevia), ora al contrario i suoi antagonisti destinati all’estremo martirio, i garanti col loro regale sangue del Ritorno di Colui che, solo, è Vero Re. Va da sé che la storia dei molti falsi ritorni di qualche re è quella degli impostori che per lui si sono spacciati: come nella storia dei “falsi Dimitri” al tempo dello zar Boris Godunov.
Il punto è quindi stabilire se il “Re-Padre” è aspetto del “Dio-Padre” o suo vicario-rappresentante-immagine. Le due forme archetipiche della monarchia sacra, l’egizia e la babilonese, forniscono al riguardo le due rispettive Urgestalten del re-dio e del re-sacerdote. La riflessione di Mircea Eliade, confortata dagli studi storico-filolgici di Franz Altheim, si rivela fondamentale per lo storico proprio in rapporto al concetto cristiano di regalità, in particolare alla teologia imperiale sviluppata sia nell’impero bizantino sia nell’Europa occidentale a partire dall’età ottoniana. È evidente che basileis e imperatores cristiani svilupparono il loro concetto di regalità sacra alla luce del modello costituito dalla regalità del Cristo. Ma le scaturigini della dimensione imperiale cristiana come imitatio Christi – garantite appunto dal Cristo come sovrano cosmico, Signore dello spazio e del tempo, Kosmokrator e Kronokrator – stavano essenzialmente nelle tradizioni egizia e persiana, entrambe rivisitate attraverso la ridefinizione di Alessandro il Grande ma avvicinate in modo apparentemente “diretto” (in realtà la mediazione alessandrina era comunque presente) prima da Cesare e quindi da tutta la tradizione che a lui farà capo fino a Diocleziano, a Costantino – il quale, cristianizzato o meno, mai rinunziò al titolo di pontifex maximus quindi di primo sacerdote di tutte le religiones licitae dell’impero –, a Teodosio che perfeziona l’eredità sacra radicandola nel contesto cristiano dell’imitatio Christi in quanto Kronokrator e Kosmokrator (si veda quello che ne dice sant’Ambrogio nell’epicedio a lui dedicato) e, passata intatta nella pars Orientis dell’impero da dove intatta perverrà sia all’esperienza dei padishah ottomani sia a quella degli zar di Russia dai Romanov in poi, si radicherà quindi anche nell’impero romano-germanico dove, senza mai osare rivendicare una filiazione diretta dall’impero romano, la restaurazione del diritto giustinianeo insieme con la tesi della Renovatio (già ottoniana) e quindi Translatio imperii ricondurranno con Federico I Barbarossa al principio dell’imperatore come Fons Iuris e Conditor Legum, pertanto legibus solutus secondo il modello divino della “potenza assoluta” di Dio che, in quanto Creatore, fonda e legittima le leggi di natura ma non è ad esse sottoposto. Vediamo agire questo universo concettuale già in due formidabili testi del XII secolo, il primo probabilmente, il secondo certamente di propaganda federiciana, la “Lettera del Prete Gianni” e il Ludus de Antichristo: da esso deriva la tenace leggenda tedesca del “Ritorno di Federico”, che nell’Ottocento romantico trova espressione nella ballata di Ludwig Tieck, Der Alte Barbarossa, nella quale si afferma che il vecchio imperatore non è mai morto (er ist neimals gestorben) ma dorme in una caverna presso la cima del monte Kyffhäuser in Turingia dove si sveglierà alla Fine dei Tempi (incarnando quindi la figura mitico-escatologica dell’Imperatore dei Tempi Ultimi) per condurre l’armata del Popolo di Dio all’Ultima Crociata contro le orde dell’Anticristo.
Ancor oggi il romantico monumento innalzato appunto sulla cima del Kyffhäuser a Federico Guglielmo di Prussia, fondatore del Secondo Reich, custodisce nelle sue fondamenta, sotto il suo piedistallo, l’effigie della grotta nella quale assopito sul suo trono dorme l’imperatore Federico – e la sua barba, cresciuta nel sonno, si snoda ai suoi piedi – in attesa che i vecchi corvi guardiani del destino germanico (il corvo, sacro a Wotan) gli annunzino che Quel Giorno (Dies illa) è giunto. A partire dal 1934 e fino al 1945 circolò in Germania, raccontata anche ai bambini, la leggenda tardoromantica ritessuta da Heine in Germania. Ein Wintermarchen e più volte rivisitata e manipolata: l’Anima Tedesca è tenuta prigioniera in un lontano, inaccessibile castello sorvegliato dalle nere Fate della Notte; invano tre valorosi cavalieri – Martin Lutero, Federico Il Grande di Prussia, Ottone di Bismarck – cercano di risvegliarla e di liberarla; soltanto l’Ultimo Cavaliere, Adolf Hitler, riuscirà nell’intento. La “leggenda politica” a lungo circolata nel secondo dopoguerra, quella di un Hitler misteriosamente sopravvissuto all’Apocalisse berlinese e rifugiato da qualche parte in America latina, che restò rapsodicamente viva fino agli Anni Sessanta e ispirò anche lavori letterari di vario segno e di differente valore, sembra riallacciarsi attraverso misteriosi cammini di sottoterra politici a un incontro (avvenuto appunto, e non per caso, nel sud del continente americano) tra il mito medievale dell’Imperatore dei Tempi Ultimi e la leggenda politico-messianica dell’ultimo Inca Tupac Amaru viva tra i guerriglieri latino-americani degli Anni Settanta del secolo scorso.
Questo messianismo imperiale, in parte eredità precristiana in parte accessorio e conseguenza del grande messianismo apocalittico, conosce nella Cristianità orientale e occidentale, cattolica e riformata, ecclesiale e settaria – e, laicizzato, in molte utopìe postcristiane – un’impressionante pluralità di forme ed è capace dei più inattesi avatara.
Le teologie quintomonarchiste e idee relative ai “Terzi Imperi” che dovrebbero durare “mille anni” – tale, appunto, il dritte Reich fatidicamente preconizzato durante la repubblica di Weimar – si ricollegano a questo immenso universo retto dal mito ma che sfocia molto spesso nel suo contrario e nella sua tragica emula, l’utopìa. Nella cultura portoghese – che naturalmente ha trovato un’eco anche nel Brasile contemporaneo attratto dall’idea del ritorno messianico degli imperatori della casa di Braganza – questa costellazione di temi, di leggende, di attese, si è coagulata attorno al cosiddetto “sebastianismo” che ha trovato un banditore d’eccezione in Fernando Pessoa e nel suo Mensagem. Tale il titolo d’una raccolta di poemi nei quali il grande letterato portoghese configura l’idea di un impero di pace e di giustizia universali nei quali lo spirito dominerà la materia: nonostante la parola significhi ovviamente “Messaggio”, il Pessoa la riempie di un senso più profondo e pregnante interpretandola come l’acrostico ermetico del motto Mens agitat molem, “È il pensiero che muove la massa materiale”. Un acrostico di sapore alchemico, che invita a risalire alle scaturigini esoterico-rosacruciane del suo pensiero.
Il sebastianismo è in sintesi la variabile portoghese del mito dell’Imperatore dei Giorni Ultimi: senonché, dal momento che i miti politici per sopravvivere hanno bisogno di ricorrenti radicamenti nella storia, in questo caso l’incarnazione del signore escatologico ha avuto come protagonista don Sebastiano, che occupò il trono dal 1557 al 1578 e che scomparve nella battaglia di Al-Ksar el-Kebir in Marocco il 4 agosto del 1578 lasciando dietro di sé una luna scia di leggende e di speranze.
“I re sono una necessità. Probabilmente un riflesso della costituzione stessa dell’anima”, ha sentenziato Lawrence Durrel: alla luce di tale intuizione, ripresa da Vladimir Volkoff, è l’intera antropologia della regalità – alla quale, com’è noto, Luc de Heusch ha dedicato alcuni studi molto importanti relativi al mondo africano – a dover essere riconsiderata in molteplici direzioni: non esclusa la psicanalitica, come hanno richiamato gli studi indianistici dello Zimmer non estranei alla lezione dello Jung.
Dopo i fondamentali studi di Georges Dumézil, la dimensione regale è apparsa “contesa” tra le due funzioni, quella magico-sacerdotale e quella eroico-guerriera, appunto perché tali due funzioni partecipano del delicato còmpito della fondazione del diritto e dell’amministrazione della giustizia.
La regalità sacra è posta da Mircea Eliade al centro della sua complessa meditazione sull’equilibrio cosmico del quale il sovrano in molteplici civiltà appare garante, sul rapporto fra cielo e terra rispetto al quale il sovrano è “ponte”, mediatore, e sulla ierofania. Le sue conclusioni sono state confermate a livello propriamente antropologico da Gilbert Durand, che ha studiato la dimensione monarchica nell’àmbito dei simboli ascensionali sottolineando la connessione tra divinità uranica, regalità e paternità, da cui deriva il forte rapporto – vivo nelle tradizioni indoeuropee come in quelle semitiche, in quelle egiziane e in quelle uraloaltaiche a loro volta connesse con le culture amerinde – tra le dimensioni del “Dio-Padre” uranico e del “Re-Padre”.
Non intendiamo qui affatto proporre un accordo tra le visioni per un certo verso contrastanti dello Eliade e del Sabbatucci quanto al rapporto tra sovranità e regalità: né tra due funzioni sacrali del “sovrastare” e del “reggere”. Ci pare tuttavia che proprio nell’Incarnazione, e quindi nella giustificazione cristiana d’una regalità sacra come simbolica e vicariale rispetto alla regalità del Cristo, esse possano convergere. Presentandosi nell’Incarnazione – secondo le tre funzioni adombrate nel racconto evangelico dei doni dei magi – come Vero Dio, Vero Re e Vero Uomo, il Cristo si propone insieme come sovrano e come reggitore, come garante d’un ordine che scende dall’alto e di una norma cosmica che presiede alle cose e le ordina.
Anche in Occidente la regalità sacra – specie nella sua direzione imperiale romano-germanica: ma anche in quelle regie francese, franco-normanna, italo-normanna, iberica – ha proceduto nella ferma fedeltà alla dimensione cristica e cristomimetica del sovrano: lo si vede bene sia nelle affermazioni che presentano l’autocoscienza del sovrano nei confronti della sua missione, sia nelle espressioni omiletiche e propagandistiche, sia negli scritti dei teorici dell’impero, sia nei cerimoniali d’incoronazione, sia negli stessi oggetti simbolici della regalità a cominciare dalle corone. È sviante collegare in qualche modo questa cultura della regalità esclusivamente al medioevo: essa continua molto al di là dei limiti convenzionali di esso, investendo fortemente lo stesso secolo XVI non solo in area cattolica e asburgica, ma anche protestante. Almeno finché, nel processo di secolarizzazione, la Cristianità occidentale non cessa gradualmente – fra XVII e XVIII secolo, con quella che Paul Hazard ha definito la “grande crisi di coscienza della civiltà occidentale” – di essere e di considerarsi tale per lasciare spazio, appunto, all’emergere dell’idea di Europa-Occidente come dimensione politico-culturale. I trattati di Westfalia appaiono al riguardo un momento incoativo del quale tener conto, purché ad essi non si attribuisca un valore irreversibilmente deterministico.
Tuttavia, il mito messianico del legislatore e giustiziere nascosto, destinato in qualche modo a tornare, rappresenta un’insopprimibile aspirazione alla pace e alla giustizia alla Fine dei Tempi certo, ma pur sempre nella storia, non all’indomani di essa: qui risiede il suo carattere non mitico, bensì utopico: che in qualche modo sopravvive alla stessa fondazione della Modernità come primato dell’individuo, della razionalità scientifica sperimentale, dell’economia e della tecnologia. Lo vediamo ben presente nell’incipiente Trecento, il “secolo della crisi”, nel Convivio e nel De Monarchia di Dante, che nei giorni della discesa di Arrigo VII si rivolge in un’indignata e accorata epistola ai suoi scellerati concittadini predicendo loro il castigo che il sovrano infliggerà loro; lo scorgiamo affiorare – in una forse confusa ma anche robusta sincresi tra immagini del Cristo dux et iudex in virga ferrea della Seconda Venuta apocalittica, suggestioni gioachimite e forse reminiscenze arturiano-sveve (l’Arthurus – rex quondam, rex futurus e il “nuovo Federico” già delineato nel Ludus de Antichristo), non immemore tuttavia della lezione impartita dal Defensor Pacis di Marsilio da Padova – nella meditazione teologico-cavalleresca di Cola di Rienzo che sarebbe approdata alla complessa “Sacra Rappresentazione” elaborata dal Tribuno del popolo romano per se stesso nella sua vestizione nel 1347 a “cavaliere dello Spirito Santo”, in un contesto simbolico nel quale egli si autopresentava come “Re del Mondo”, quindi Monarca Universale, convocando papa Clemente VI e imperatore Ludovico al suo cospetto (anche se essi, com’era ovvio, non risposero neppure).
Questa concezione anima e giustifica un mito più e più volte nella storia presentatosi a livello folklorico con lontane e nascoste scaturigini sincretiche (dal Buddha Amida a Tupac Amaru alle tradizioni musulmane del Mahdi e dell’“Imam nascosto”). Ne riscontriamo la traccia profonda nel racconto anabattista di Giovanni da Leyda e del regno apocalittico di Münster; risorge nel “sebastianismo” che ha il suo protagonista in Sebastiano V del Portogallo, caduto nel 1578 durante una surreale spedizione crociata in Marocco e che ha dato vita alla leggenda “quintomonarchista” del nuovo futuro impero portoghese e del ritorno del re Desejado ed Encoberto celebrata da Fernando António Pessoa nel suo celebre Messagem; torna nelle pieghe messianiche del “banditismo sociale”, da Robin Hood a Fra Diavolo a Salvatore Giuliano fino al “Che” Guevara (tu mano gloriosa y fuerte – sobre la historia despara); sfiora l’“Isola-Che-Non-C’è” di Peter Pan e il “Ritorno di Aragorn” di John R.R.Tolkien; investe il messianesimo cristomimetico e utopistico giamaicano, cioè il “rastafarismo” (da Ras Tafari, il nome del ras che divenendo Negus Neghesti assunse il nome di Hailè Selassiè, “Santa Trinità”) che ha ispirato Bob Marley e la mitologia della marijuana, l’“Erba Sacra” cresciuta sulla tomba di Salomone. È l’antica aspirazione diretta al Mondo Perfetto guidato dal Giusto Monarca vendicatore di ogni torto e protettore di tutti i deboli, che lampeggia demagogizzata nella mitologia politica dei grandi totalitarismi e che talora veste anche abiti femminili, come nella Vergine Guerriera Giovanna D’Arco (non a caso riproposta, dopo la sua tragica morte sul rogo, da una lunga teoria di emule e mistificatrici) e in Eva Duarte de Perón, Santa, Santa, Santa Evita – Señora de todos los pobres – de los desamparados, de los descamisados, de los trabajadores, la Madonna del Popolo la cui morte struggente dopo una lunga malattia fu seguita, dalle masse argentine, come una nuova cristomimetica Passione. Mater Dolorosa, ora pro nobis.
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Franco Cardini