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IL REGNO DELL’INIQUO E’ GIA’ TRA NOI ED HA IL VOLTO DEL CAPITALISMO FINANZIARIO. Di L. Copertino – Parte Prima

Una favola moderna

Nella favola cinematografica “Pretty Woman” il protagonista, Richard Gere, trova nell’amore di una prostituta, Julia Roberts, la forza di cambiare trasformandosi da finanziere speculatore in imprenditore. Fino a quel momento la sua attività era stata quella di comprare, a due soldi, aziende in difficoltà per poi, incurante della sorte dei lavoratori e del know-how accumulato, smembrarle e rivenderle a prezzo maggiorato. Gere nel film ha interpretato il tipo umano dello speculatore che fa profitto – un profitto appunto speculativo – sulla pelle di chi produce, di chi crea e fa crescere le aziende ossia imprenditori e lavoratori che a livelli differenti lavorano in esse.

Nella finzione filmica Richard Gere riesce nel suo sporco gioco tramite le proprie conoscenze nel mondo della finanza e della politica in modo da iugulare gli imprenditori presi di mira per costringerli a svendere ed a cedere alle sue offerte ricattatorie. Quando incontra la Roberts, Gere è alle prese con due imprenditori navali, padre e figlio, che cercano di sottrarsi al suo ricatto perché nutrono speranza in una commessa governativa che avrebbe dato loro ossigeno. Gere riesce a bloccare l’appalto grazie ad un senatore che gli è debitore del finanziamento della campagna elettorale e quindi dell’elezione. Costretto a cedere, l’imprenditore navale senior chiede a Gere di non smembrare la sua azienda per preservare il posto di lavoro dei suoi dipendenti che avevano contribuito a farla crescere.

Naturalmente Gere dà una formale assicurazione, in merito, mentre già pensa al profitto che avrebbe ricavato dallo spacchettamento, senza il minimo scrupolo per la sorte dei lavoratori e delle loro famiglie. Perché lui non gestisce aziende, lui è un finanziere, uno speculatore, che fa denaro dal denaro, ossia senza alcuna preoccupazione per la base reale e produttiva. Il tipo umano rappresentato nel film da Gere non ha il gusto di fare, di creare qualcosa di buono ed utile per il bene comune, né quello di dare lavoro al prossimo e vedere prosperare i propri progetti investendo il denaro nella produzione. Per lo speculatore il denaro immobilizzato in concrete realtà produttive è denaro infruttuoso, sterile o sterilizzato. La prospettiva finanziaria vive della fecondità autogena del denaro, della moneta auto-riproduttiva, che cresce in quantità ed in valore fittizio senza troppi legami con le esigenze della produzione reale e quindi in modo sempre più indipendente dal lavoro umano.

Nella favola filmica, l’amore della Roberts rende possibile la trasformazione dello speculatore che ora inizia a capire l’essenza nichilista e distruttiva della manipolazione finanziaria dell’economia. Sicché non solo, per la rabbia di un repellente avvocato suo socio d’affari, Gere risparmia l’azienda navale ma offre al suo proprietario di entrare in società con lui perché «Finora – così dice, più o meno – le aziende sono stato capace solo di smembrarle, ora invece voglio costruire qualcosa di buono». Una favola, naturalmente – non a caso il film si chiude con un Gere che romanticamente torna dalla Roberts emulando un cavaliere nell’atto del salvataggio della sua principessa per essere lui stesso salvato da lei –, e tuttavia una favola moderna che, come le antiche, nasconde una profonda verità etica la quale rimanda alla Verità metafisica.

Antonio e Shylock

Ne “Il mercante di Venezia” William Shakespeare fa dire al protagonista, Antonio, in polemica con l’usuraio di turno che i suoi denari non sono montoni. L’usuraio shakesperiano si chiama Shylock. Lasciamo perdere, perché qui non ha importanza, il fatto che egli sia ebreo. Non ci importa adesso stabilire se si tratta di un ricorrente e secolare stereotipo oppure se, invece, questo stereotipo corrispondesse, all’epoca del grande drammaturgo inglese, ad una effettiva tipologia storica. Ci interessa invece evidenziare quanto sotteso dal protagonista della commedia shakesperiana. Antonio, infatti, vuol dire che il denaro non può riprodursi come i montoni, non può produrre da sé, senza investimenti reali, altro denaro. In altri termini, Antonio nega che il denaro possa riprodursi per autogenesi come vorrebbero gli usurai. Lo Shylock del suo tempo ed il Richard Gere del film odierno.

Nelle parole di Antonio è riflessa la tradizionale concezione sulla sterilità del denaro, quindi sull’illiceità del prestito ad interesse, che la Cristianità aveva ereditato senza dubbio dall’aristotelismo ma innanzitutto dalla propria radice ebraica. Il Cristianesimo, infatti, ha universalizzato il divieto di praticare l’usura e l’obbligo etico del patto di solidarietà che il Vecchio Testamento prescriveva per i membri del Popolo di Dio ossia tra soli ebrei. Entrati tramite Cristo anche i pagani nell’Alleanza del Dio di Abramo è ormai evidente che il Popolo di Dio, ovvero ora la Chiesa madre di tutti i popoli, comprende potenzialmente tutte le genti, non solo gli ebrei.

Al di là delle secolari diatribe su cosa fosse o meno interesse, e quindi prestito ad interesse, la questione essenziale che si celava dietro le dispute stava nella negazione che il denaro possa produrre altro denaro indipendentemente dalla sua connessione con le attività produttive, con il lavoro, con l’economia che oggi chiameremmo reale. Infatti, lo stesso Aquinate distingueva tra investimento e prestito ad interesse e sappiamo come la teologia sia storicamente alla radice della riflessione economica. L’economia, quale scienza umana, deriva direttamente dall’etica. Per questo quando si è preteso di separare l’etica dallo Spirito e quindi l’economia medesima dall’etica ogni freno all’avidità umana fu tolto.

Legittimità ed illegittimità del capitale

C’è, dunque, un capitale frutto del lavoro che è legittimo ed un capitale frutto della speculazione improduttiva che è moralmente e socialmente illegittimo. L’intuizione profonda sulla legittimità del capitale quando esso deriva dal lavoro – quello dell’imprenditore e insieme quello dei lavoratori – è stata la costante idea guida, nel loro sviluppo, delle correnti del pensiero sociale moderno, dal socialismo non marxista (Proudhon, Mazzini, Lassalle, Sorel, Avigliano, Labriola, Sismondi, Owen, Fourier, etc.) a quelle cristiane (Toniolo, Adam Müller, W. E. von Ketteler, Manning, De La Tour Du Pin, Ozanam, etc.), perfino quelle liberali (Einaudi).

«… si è trovato il pretesto … – scriveva nel 1939 Pierre Drieu La Rochelle – per abolire i beni accumulati con il lavoro o ereditati. Si distrugge così, con il peggio del capitalismo, anche il residuo meno malvagio dell’economia patriarcale, che sosteneva la possibilità della cultura e dell’indipendenza dello spirito».

Qui sta l’essenza del problema. La finanza, che dovrebbe essere soltanto uno strumento al servizio dell’economia reale, senza alcuna pretesa di distaccarsene, è diventata egemone, non più solo localmente ma ormai su scala globale. L’economia gira non più per produrre quanto necessario alla vita umana ma per accumulare profitti speculativi ed accrescere bolle finanziarie gonfie di valori fittizi, dematerializzati, avulsi dall’originaria base reale, parassitari come tutte le rendite improduttive. Bolle che poi, quando esplodono, fanno ricadere i loro effetti distruttori sull’economia reale, quella produttiva, quella della povera gente che si guadagna da vivere con il sudore della fronte, compresi i piccoli e medi imprenditori.

L’economia reale, quella delle piccole e medie realtà produttive, è un’economia dei produttori ed in quanto tale più sociale. Nella medio-piccola azienda l’imprenditore ed i lavoratori sono a stretto giro di gomito, si conoscono, si comprendono, sono entrambi consci che la loro vita dipende dalle sorti dell’impresa. Non è certo esclusa, come in tutte le realtà umane, la possibilità del conflitto interpersonale ma è anche vero che in tali realtà il conflitto è gestibile in modo più diretto e quindi risolvibile in modo più pragmatico. Si tratta di uomini reali che si guardano negli occhi, faccia a faccia, e che possono anche mandarsi reciprocamente a quel paese ma che, laddove prevalga il buon senso, finiscono per reciprocamente capirsi, e venirsi incontro, perché, pur nella differenza dei ruoli lavorativi (di direzione e di esecuzione), appartengono entrambi allo stesso ceto produttivo.

La finanza speculatrice, quella che fa denaro da denaro, al contrario non è un mondo di uomini per uomini ma è il mondo dell’impersonale potere del capitale anonimo che – nonostante sia questa la strada dell’annientamento economico, l’avidità è ciò che in esso regna – vuole svincolarsi dal lavoro, quindi dall’uomo, fino a sostituirlo oggi con l’automazione in modo che la produzione, così robotizzata, possa essere sottomessa alle sue immorali pretese di virtualizzazione ed auto-costruzione della realtà. Non solo autocostruzione della realtà intesa nel senso sociale ed economico del termine ma anche di quella intesa nel senso ontologico di “creazione”. Perché ciò che muove la finanza è l’antica, primordiale, ribelle, pulsione a “non servire” ma a “farsi servire” in un delirio di auto-deificazione.

[Continua…]

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