Sistema Palamara: ricordi e confronti di un antico consigliere
Scrive Antonio Massari nelle prime pagine del suo libro Magistropoli a proposito della ormai celebre riunione in una sala del romano Hotel Champagne: “Considero altrettanto inaccettabile che (Luca Palamara) abbia discusso con i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri le sorti future della procura di Roma. Non mi scandalizzerebbe una dialettica tra parlamentari e magistrati, anche stretta e serrata su temi di politica giudiziaria: cosa avremmo potuto obiettare se avessimo scoperto Palamara, Ferri, Lotti e altri cinque consiglieri del CSM discutere di come rendere più efficace la lotta alla mafia o alla corruzione? Si conteggiavano invece i voti per portare a capo della procura di Roma, Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, ignaro di quest’incontro e dei suoi scopi”.
Una vicenda considerata inaccettabile da tutti i mass-media e da gran parte degli italiani, ma che interpella ancor più direttamente chi non solo ha svolto per oltre quarant’anni l’attività di magistrato, ma è stato componente di un pur remoto Consiglio Superiore della Magistratura (1986-1990, ancora piena Prima Repubblica). Remoto sì, ma già caratterizzato dal grande ruolo che vi avevano le “correnti” dell’Associazione Nazionale Magistrati (con qualche modesta variante le stesse di oggi) sia nella fase delle candidature e dell’elezione, sia nel suo funzionamento, in particolare nell’attribuzione degli uffici direttivi e semi-direttivi. Di conseguenza, anche all’epoca c’era chi sollevava critiche e magistrati che si sentivano trascurati nelle loro aspirazioni solo perché non iscritti a una “corrente”. Addirittura qualcuno già prospettava (ancora un po’ timidamente) di sostituire l’elezione dei consiglieri con il sorteggio.
Non ho memoria dell’esistenza di un Hotel Champagne” ma quale che fosse il locale prescelto, l’incontro di consiglieri con due parlamentari, di cui, per di più, uno imputato proprio dall’ufficio in ballo per la nomina del dirigente, mi avrebbe indotto (e così credo per tutti i colleghi) ad un giudizio ancora più duro di quello di Massari. Non vi avrei però trovato nulla di troppo scandaloso se al posto di Ferri e Lotti a conteggiare i voti per la nomina di Viola con i cinque consiglieri “togati” (cioè magistrati) e con Palamara vi fossero stati Stefano Cavanna e Fulvio Gigliotti (scelgo, a caso, un avvocato e un professore), componenti “laici”, quindi di nomina politica, del CSM in carica. Forse un piccolo dubbio sull’opportunità della presenza di un ex-consigliere (Luca Palamara), ma anche ai nostri tempi era pratica comune e per nulla segreta che i neo- consiglieri chiedessero (magari non in presenza di politici anche se membri del Csm) l’opinione di colleghi più esperti, coi quali in ogni caso era prassi consultarsi, nel fine settimana, al ritorno in sede come facevamo tutti anche per tastare il polso del Distretto e ascoltare i magistrati che lo desideravano, in realtà senza distinzioni fra gli iscritti alla corrente (comunque sempre i più numerosi) e gli altri.
Prassi e costumi che, uniti all’innegabile influenza delle correnti, potevano forse giustificare già allora la definizione in negativo di “Sistema”, utilizzata da Alessandro Sallusti nel libro intervista a Luca Palamara. Tuttavia con importanti distinguo, in particolare per quanto riguarda il rapporto magistratura-politica e la sua influenza sulla carriera dei magistrati e la copertura degli uffici direttivi e semi-direttivi.
Nell’attuale generalizzata esecrazione dell’operato del Consiglio si dimentica spesso e volentieri che la sua connotazione anche politica è frutto di una scelta dell’Assemblea Costituente, dove la tesi favorevole all’inserimento di componenti quanto meno di nomina politica prevalse su quella di chi voleva invece farne un organo di soli magistrati. Conseguenziale l’art. 104/4° comma Cost. secondo cui i componenti non di diritto (Primo Presidente Corte di Cassazione, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione) “sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”.
E’ possibile che i padri costituenti si illudessero che il Parlamento avrebbe scelto i componenti “laici” solo in base alle loro conoscenze giuridiche ed esperienze nel mondo della giustizia, ma fin dall’inizio non è stato così e non poteva essere altrimenti dal momento che i “laici” vengono suddivisi fra i partiti in proporzione alla loro rappresentanza parlamentare (più o meno le regole del “manuale Cencelli”)[1]. Ovviamente, in assenza di ogni contraria indicazione normativa, questi consiglieri hanno sempre partecipato, in assoluta uguaglianza con i “togati” (se c’è qualche differenza è tutta a loro vantaggio dal momento che il vicepresidente del Csm, i cui poteri sono tutt’altro che formali, va scelto fra i “laici”), non solo alle discussioni sulla politica giudiziaria o la lotta alla mafia o alla corruzione, ma a tutte le attività consiliari, incluse carriera dei magistrati, comprensiva di nomine agli uffici direttivi e semi-direttivi. Il che comportava che carriera e, soprattutto, nomine dipendessero già nei remoti anni ‘80 del secolo scorso anche da considerazioni e valutazioni di carattere politico/partitico.
Appunto per questo, all’epoca mi sembrò perfettamente legittima e corretta (continuo a pensarlo tuttora) l’iniziativa di un “laico”, in quota Pci, che – un po’ stanco, come mi disse, delle eccessive pretese e delle chiusure ideologiche dei “togati” di Magistratura Democratica, mi avvicinò per proporre “scambi di opinioni” anche sulla copertura degli uffici giudiziari con Magistratura Indipendente, la mia corrente di appartenenza (credo di essere stato scelto per la convinzione che fossi il più, se non “sinistro”, progressista del mio gruppo, definito di destra e conservatore, forse perché, da pretore, avevo promosso un’azione giudiziaria per fatti d’inquinamento marittimo nei confronti di ENI e di altri stabilimenti industriali presenti nel territorio ravennate ed era opinione comune che i cosiddetti “pretori d’assalto” fossero tutti, più o meno, di sinistra). All’epoca il presupposto di tali interlocuzioni, per quanto ne so condiviso da tutti i togati, era che avvenissero esclusivamente con i consiglieri “laici” e preferibilmente all’interno del Csm. Forse quest’ultima riserva localistica può sembrare di scarso rilievo, ma non mi è mai accaduto di avere incontri – prandiali o post-prandiali -, nei quali si parlasse di nomine e si conteggiassero voti, con componenti “laici” fuori dalle stanze del Palazzo dei Marescialli. Senza dubbio molto più importante, anzi decisivo, che tutto si svolgesse solo fra componenti del Consiglio e – per quanto riguardava noi “togati” – a titolo informativo con i colleghi interessati a questo o quell’ufficio. Pretendere l’assoluto silenzio anche nei loro confronti sarebbe stato allora (e sarebbe oggi) umanamente assurdo.
Restava il fatto, ben noto a tutti, che, come noi “togati” eravamo, anche se non rigidamente vincolati, influenzati da indicazioni correntizie, a loro volta i “laici” erano portatori dei desiderata del loro partito di riferimento. Una situazione già in quegli anni a rischio di deragliamento verso la “inammissibile commistione fra politici e magistrati” menzionata in una nota (maggio 2020) del Presidente della Repubblica e ripresa da Palamara in un’intervista a Massimo Giletti: “Il politico dall’esterno non può incidere sui magistrati, ma questo sistema favorisce una commistione”. “Commistione”, dal punto di vista di un antico consigliere, “inammissibile” se coinvolge soggetti, politici e non, estranei al Consiglio, ma costituzionalmente legittima se limitata, oltre che nell’oggetto (materie di competenza del Csm), ai consiglieri, tutti collocati, in ordine ad ogni aspetto dell’attività consiliare, sullo stesso piano, senza distinzioni fra “togati” e “laici”.
Se ciò che oggi, dopo il caso Palamara, si vuole evitare è davvero qualunque forma di “commistione”, occorre ribaltare la decisione presa a suo tempo dai Padri costituenti e tornare al progetto di un Csm composto soltanto di magistrati. Non è però questa la direzione presa dal progetto di riforma elaborato dal ministro della Giustizia Bonafede (fortunatamente ormai ex) e varato dal Consiglio dei Ministri (agosto 2020), che punta tutto, o quasi, sulla componente togata, attribuendo il “Sistema” e i suoi guai all’influenza delle correnti. La partecipazione dei “politici” (meglio, dei partiti) al deragliamento del sistema vi fa appena capolino e il rimedio escogitato è del tutto inadeguato. Difatti, nonostante la prevista ineleggibilità di chi ricopra o abbia ricoperto nei due anni precedenti ruoli di governo a livello nazionale o regionale (inclusi parlamentari, consiglieri regionali e sindaci di città con oltre 100.000 abitanti), i consiglieri “laici” saranno pur sempre soggetti legati a un determinato partito, che hanno fatto politica e potranno tornare a farla una volta finita l’esperienza consiliare (nel mio Csm per alcuni “laici” l’incarico di consigliere era una sorta di onorevole benservito a fine carriera, per altri – più giovani – una piattaforma di lancio).
Per attenersi al linguaggio di Luca Palamara, nel caso perfettamente appropriato, la Costituzione ha previsto e voluto “una convergenza fra politica e magistratura”, da tenere ben distinta dal fenomeno, totalmente negativo, della “commistione” senza forse tenere conto del continuo rischio di precipitarvi per la fragilità della linea di confine. Una “convergenza” resa evidente già all’inizio di ogni consiliatura dall’elezione del vice-presidente, da scegliere fra i consiglieri “laici”. L’importanza dell’incarico comporta il massimo impegno di tutti i partiti politici[2] e, quindi, dei loro rappresentanti in Csm, non senza il coinvolgimento, più o meno diretto, dello stesso Presidente della Repubblica (perfettamente legittimo dal momento che si tratta del suo sostituto). Di conseguenza, anche per noi, “togati” del remoto 1986, l’approccio iniziale con la realtà consiliare fu di natura “politica”, ma in una situazione molto diversa da quella descritta da Palamara per l’elezione (di cui si attribuisce il merito) del vice-presidente del suo Consiglio, Giovanni Legnini, e del successivo (e attuale), Davide Ermini (entrambi di provenienza PD). All’epoca, le previsioni dei mass-media puntavano su un ex-parlamentare democristiano con la possibile alternativa, anche per la posizione ambigua di alcuni componenti di Unità per la Costituzione, di un professore “laico” di area Pci. Venimmo così a trovarci al centro dell’attenzione nazionale, ma a sparigliare le carte provvedemmo proprio noi, “togati” di Magistratura Indipendente, che, per un lampo di genio del collega Marcello Maddalena, decidemmo in una riunione “di gruppo”[3] di puntare sul pofessor Cesare Mirabelli, di area democristiana, ma senza particolari trascorsi di attività politica e che davvero non se l’aspettava. Una scelta portata al successo con la semplice, ma irremovibile, decisione di non piegarsi a trattative, che costrinse quanti volevano evitare una vice-presidenza di area comunista (una risicatissima maggioranza) ad adeguarsi. Il che fece, mostrandosene tutt’altro che rammaricato, anche l’allora Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga.
Già. Nella vita dei consiglieri vi sono anche i rapporti col Presidente della Repubblica, da ritenere, dato che lo presiede, interni al Csm. Detto questo, nel libro-intervista Sallusti-Palamara si trovano accenni a rapporti ed interventi del presidente Napolitano che meriterebbero di essere approfonditi, ma che sembrano muoversi in una realtà totalmente diversa da quella del “mio” Consiglio. Questa, difatti, ben presto si caratterizzò per una crescente conflittualità, giunta, alla fine della consiliatura (primavera/estate 1990) quasi a un punto di rottura, poi clamorosamente superato col successivo CSM, quando – come molti ricorderanno – il Palazzo dei Marescialli venne circondato dai carabinieri (stavo per scrivere “regi”) in tenuta anti-sommossa. Di conseguenza, l’esperienza di un componente di quel Csm non è in grado di dire nulla su una situazione che Palamara descrive come di totale collaborazione anche per la sua vantata, assoluta acquiescenza agli input provenienti dal Quirinale nell’era Napolitano.
Francesco Mario Agnoli
[1] A seguito dell’esito delle elezioni nazionali 2018 i membri laici dell’attuale Consiglio sono così ripartiti: 3 M5S, 2 Lega, 2 Forza Italia, 1 PD.
[2] Significativamente sui 19 vicepresidenti che si sono succeduti nel tempo ben 12 erano parlamentari o ex-parlamentari.
[3] La Riforma Bonafede vieta la costituzione di questi “gruppi” (espressione delle correnti associative in Consiglio), come se fosse possibile impedire in fatto riunioni e consultazioni di consiglieri che si sentono in affinità o in comunione d’intenti. Al massimo gli si potrà impedire di parlare e votare ufficialmente a nome di una corrente. Niente di più.