In Italia non ha avuto particolare risalto la notizia che Hashim Taçi, presidente della Repubblica del Kosovo, è stato tratto a giudizio con alcuni suoi collaboratori d’un tempo, davanti al Tribunale Speciale istituito all’Aja per rispondere di gravissimi crimini contro l’umanità. L’ormai ex-presidente (si è dimesso in novembre a seguito dell’incriminazione) si trova attualmente detenuto all’Aja, nel carcere che vent’anni fa “ospitò” il suo nemico: Slobodan Milosevic, l’ultimo presidente jugoslavo. Nel nutrito capo d’imputazione, che comprende omicidi, rapimenti, persecuzioni e torture, il reato che più colpisce, trattandosi di un politico, è quello di traffico di organi umani.
Si tratta di fatti che in gran parte risalgono all’ultimo decennio del secolo scorso, quando l’imputato era a capo dell’Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK secondo l’acronimo albanese), che si finanziava e finanziava la guerriglia contro quanto restava della Jugoslavia (in sostanza la Serbia di Slobodan Milosevic) col traffico internazionale di droga, armi e donne. Un’attività criminale condotta in collaborazione con le mafie albanesi e italiane (in particolare napoletana e pugliese). Non per nulla, già all’inizio del decennio, quando conduceva la guerriglia contro il governo di Belgrado, l’UCK era stato incluso nella lista nera delle organizzazioni terroristiche dall’ONU e da molti paesi fra i quali anche gli Stati Uniti, suoi futuri alleati e protettori. Invece il traffico di organi umani sembra avere avuto inizio (spetterà ai giudici dell’Aja accertare fatti e stabilire date) in un momento successivo, nell’estate del 1999, quando, grazie ai bombardamenti della Nato, i miliziani dell’UCK controllavano di fatto buona parte del territorio del Kosovo e avevano la possibilità di disporre dei corpi vivi di cittadini serbi, sia militari che civili. Adesso, con l’incriminazione di Taçi, in certo senso si torna al 1998, cioè a prima che gli Stati Uniti, alla vigilia della cosiddetta guerra del Kosovo, provvedessero a togliere l’UCK dalla lista nera e convincessero a fare altrettanto il Regno Unito di Tony Blair e, con qualche resistenza in più, la Francia di Jacques Chirac. Una riabilitazione funzionale alla decisione statunitense di schierarsi contro la Jugoslavia a sostegno dei ribelli albanesi, formalizzata il 9 giugno 1998 dall’allora presidente Bill Clinton con una dichiarazione di “stato di emergenza nazionale”, giustificato dalla “minaccia insolita e straordinaria alla sicurezza nazionale e alla politica estera degli Stati Uniti”. Con l’unica eccezione della Grecia, tutti i paesi della Nato si affrettarono ad adeguarsi (con particolare solerzia la Germania, ansiosa di sperimentare le capacità combattive del suo Bundewehr, con qualche ipocrita patema l’Italia, retta in quel momento da un governo di centro-sinistra presieduto da Massimo D’Alema). Dopo qualche mese di trattative destinate, salva resa totale di Belgrado, al fallimento, perché albanesi e Stati Uniti erano ben decisi a sottrarre, quale che fosse la formula, la provincia del Kosovo alla sovranità jugoslava, il 24 marzo 1999 la Nato diede il via a massicci bombardamenti, impegnandovi un migliaio di aerei (aviazione militare italiana inclusa), in massima parte con partenza dalle basi Nato esistenti in Italia. Ne furono oggetto non solo installazioni e luoghi militari, ma anche città serbe (venne fra l’altro colpita, provocando la morte di tre dipendenti, la sede dell’ambasciata della Cina a Belgrado). L’incriminazione del presidente kosovaro serve anzitutto a riportare alla memoria un vergognoso episodio della storia dell’Occidente, sul quale si era cercato (con notevole successo) di calare un omertoso silenzio. Tuttavia vi è un altro aspetto per il quale meritano la nostra gratitudine, quali che siano le loro motivazioni e gli interessi perseguiti, gli uomini e i gruppi che hanno fortemente voluto il processo di un uomo che, sentendosi ormai del tutto al sicuro, nel 2016 aveva voluto ufficializzare, con la nomina a presidente della repubblica, la sua ormai ventennale signoria di fatto sul Kosovo. Il ritorno a quegli anni, fra molte altre cose, ricorda a tutti che i massimi creatori e diffusori di notizie false sono, per lunga e ininterrotta tradizione, i governi, più in generale i detentori, pubblici e privati, nazionali e internazionali, del potere. Lo si sa da sempre e tuttavia da qualche tempo sembra trovare credito presso una parte più o meno consistente dell’opinione pubblica la campagna messa in piedi da questi spacciatori professionali di menzogne al preteso fine di moralizzare la comunicazione, depurandola dalle troppe fake news, ovviamente tutte di provenienza altrui (a cominciare dalla Russia di Putin per finire con i leoni da tastiera), che vi sguazzerebbero come branchi di pesci nell’acqua. Adesso la rilettura di quegli avvenimenti potrà ricordarci che nel 1998-1999 l’attacco alla Jugoslavia fu preceduto e preparato in tutti i paesi dell’Occidente da un progressivo accumulo di menzogne elaborate nei gabinetti dei governi e nei comandi Nato e diffuse in tutto il mondo dal complice coro delle emittenti televisive e di tutti i principali mezzi di comunicazione. E’ pacifico che anche la parte jugoslava fu tutt’altro che tenera e che la repressione della guerriglia fu condotta con mezzi che sarebbe eufemistico definire “rudi”, ma per riabilitare l’UCK e, soprattutto, screditare Belgrado vennero messe in scena persecuzioni e massacri inesistenti, le azioni di repressione della guerriglia furono trasformate per il pubblico di tutto l’Occidente in programmate operazioni di genocidio e di epurazione etnica. A coronamento della storia l’attribuzione al governo jugoslavo di un piano, denominato “Ferro di cavallo”, elaborato per la deportazione dal Kosovo dell’intera popolazione albanese. Una fake news in seguito riconosciuta per tale, tuttavia giustificandola con la necessità dell’intervento militare, dal politico ambientalista Joschka Fisher, all’epoca ministro degli Affari Esteri e vice-cancelliere della Repubblica Federale Tedesca. In altri termini il bombardamento con bombe a uranio impoverito sganciate sulle città e su civili innocenti, fu preceduto dal bombardamento delle menti e delle coscienze attraverso una pianificata campagna di disinformazione, tutt’altro che unica nella storia delle nazioni, anzi inserita in una serie che conta, anche negli anni più vicini a noi, esempi clamorosi (basti pensare alle inesistenti armi di distruzione di massa attribuite al defunto rais iracheno Saddam Hussein), ma tale per dimensioni e intensità che l’autorevole mensile Le Monde diplomatique, nel pubblicare (aprile 2019) una dettagliata ricostruzione dell’intera vicenda, ha potuto definirla la “più grande panzana della fine del XX secolo” (Le plus grand bobard de la fin du XXe siècle). Almeno a prima vista, il processo che avrà luogo all’Aja, quali che siano le cause di questa eccezione, si distingue da altri in apparenza similari, perché ha come accusati non i vinti, ma i vincitori e perché accanto a loro siederanno idealmente sul banco degli imputati gli ideatori e gli esecutori della disinformacija. Possiamo quindi apprezzarlo fin d’ora sia per la concreta speranza che si faccia giustizia di crimini rimasti tropo a lungo impuniti, sia perché ci ricorda che di bugiardi possiamo incontrarne tanti, ma la vera disinformazione è appannaggio del potere.
Francesco Mario Agnoli