Il 2 novembre il presidente della regione Liguria Giovanni Totti si è scusato se il suo tweet del giorno precedente (attribuito all’imperizia di un collaboratore – verosimilmente giovane dal momento che, oltre a scusarsi a sua volta, si impegna a “imparare e migliorare”-) ha ferito qualcuno. Qualcuno, cioè i vecchietti, che potrebbero averlo interpretato nel senso che vada considerato “sacrificio sopportabile” la scomparsa per Covid di “pazienti molti anziani, persone per lo più in pensione, non indispensabili alla sforzo produttivo del Paese”. Certo il tweet si chiudeva con l’affermazione che anche questi non indispensabili “vanno però tutelati”, che tuttavia suonava più come una caritatevole concessione che un riconoscimento di un naturale (e, giuridicamente, costituzionale) diritto degli anziani e di un obbligo assoluto per lo Stato e la società.
E’ credibile che il tweet sia stato scritto in modo maldestro (a questa forma di comunicazione succede fin troppo spesso) e che il collaboratore abbia malamente interpretato e tradotto in “tuittese” il pensiero di Toti, se non altro perché controproducente in una democrazia nella quale i politici cercano di evitare comportamenti e affermazioni suscettibili di privarli del consenso di intere categorie di elettori, come quella degli anziani (diciamo dai 70 in su) che in Italia sono particolarmente numerosi e, nonostante qualche ricorrente tentazione al riguardo, non sono ancora stati privati del diritto di voto. Tuttavia è probabile che non si sbagli se si considera il tweet in questione alla stregua di una “voce dal sen fuggita” dettata quasi inconsapevolmente (a Toti o al suo collaboratore o, più probabilmente, ad entrambi) dalla profonda condivisione di una cultura materialista ed efficentista, portatrice della convinzione che l’essere umano non abbia valore di per sé, ma per la sua utilità sociale quale produttore e consumatore. Una cultura che stenta a trovare una collocazione positiva per gli anziani, che inevitabilmente non producono, in genere poco consumano e, per di più, in quanto pensionati, sono a carico del sistema (dal momento che in questo tipo di cultura più che in ogni altra è valido il detto sapienziale “l’acqua passata non macina più”, poco importa che abbiano contribuito, nei lunghi anni della loro attività lavorativa, a costruirlo e a mantenerlo in vita). La conferma viene, paradossalmente, proprio dai difensori dei diritti degli anziani. Animati da buone intenzioni, ma consapevoli di quanto poco valga nella nostra società, caratterizzata dall’imperativo adeguamento ad una tecnica in continua evoluzione, la definizione degli anziani quale “risorsa in termini di patrimonio di esperienza e di saggezza”, si sforzano di rivalutarli come produttori e consumatori, diretti e indiretti, ricordando che “essi sono gli attuali ammortizzatori sociali della famiglia (in Italia la pensione è per una famiglia su tre il primo e spesso unico reddito)” e attorno a loro ruota un’economia, la Silver Economy, che secondo i dati dello studio voluto dalla Commissione Europea e realizzato dal Gruppo Technopolis e da Oxford Economics, genera consumi fino a 4.200 miliardi.
La pandemia che ci funesta (non è chiaro quanto per la propria effettiva contagiosità e letalità, quanto per la sua strumentalizzazione da parte della politica) offre a questa cultura, da tempo largamente predominante, ma un po’ trattenuta in alcune sue manifestazioni esteriori da quanto (non molto) rimane dell’etica cristiana, di allargare i propri spazi di manifestazione pubblica. Così è accaduto col “documento tecnico” (sempre la tecnica a giustificazione di tutto) diffuso nel marzo 2020 dalla Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva per dettare agli anestesistirianimatori le linee-guida per il loro operato nei seguenti termini: “Può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e secondariamente a chi può avere più anni di vita salvata”. Un documento (mai formalmente rinnegato) che non ha perso nulla della sua significatività anche se, in occasione della seconda ondata pandemica, altre organizzazioni sanitarie hanno ritenuto opportuno (bontà loro) specificare che l’età non deve essere l’unico criterio di scelta per la priorità nelle cure.
Intendiamoci. Si tratta della cultura dominante in tutta Europa, più esattamente in tutto l’Occidente, dove anzi vi sono paesi che ne fanno applicazioni più dure e rigorose, ma ciò non toglie che l’Italia, a dispetto del senso della famiglia che, a quanto si sente ripetere dai mass-media, dovrebbe caratterizzarla e del proclamato amore per nonni e bisnonni (è stata loro dedicata perfino una “giornata” o festa laica in concorrenza con quella religiosa degli angeli custodi), non solo ne sia pienamente partecipe, ma possa vantare titoli di priorità. Chi si reca a Fenestrelle, una località prealpina piemontese, a visitare le imponenti rovine di una fortezza sabauda divenuta celebre perché negli anni immediatamente successivi al 1860 vi vennero incarcerati, per esservi rieducati, i soldati napoletani colpevoli di non avere disertato, ma di essersi battuti per il loro paese e il loro re, ancora oggi può leggere, scritta su una parete superstite a grandi caratteri neri, la frase che esprime meglio di un intero trattato filosofico la quintessenza di questa cultura: “Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”.
Francesco Mario Agnoli