Come ha evidenziato l’articolo di Claudio Giovannico “Ipertrofia normativa e incertezza del diritto ai tempi del Covid-19” pubblicato in questa Rivista, la politica di contrasto all’epidemia di Covid-19 si è realizzata attraverso una valanga di provvedimenti sia delle autorità centrali che di quelle locali, spesso caratterizzati questi ultimi da regole e limiti più stringenti. Un’alluvione normativa che non solo ha costretto i cittadini ad acrobazie interpretative per adeguarsi a precetti dai contorni incerti, non di rado sovrapposti e contraddittori, ma ha anche aggravato un problema che, pur lasciato sullo sfondo dalle preoccupazioni per l’imperversare del morbo e il numero dei decessi, è connaturato a “misure di contenimento” incidenti sulle libertà garantite ai cittadini dalla Costituzione. In altri termini una questione di legittimità costituzionale, vitale per un democratico Stato di diritto, che non può essere risolta in base al semplice richiamo formale all’art. 16 della Costituzione, pur se è a questa disposizione, che prevede la possibilità di stabilire per legge limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno “per motivi di sanità o di sicurezza”, che occorre rivolgersi per accertare la conformità costituzionale tanto del decreto legge n. 6 del 23/2/2020 (convertito nella legge n. 12 del successivo 5 marzo) e dei conseguenti provvedimenti applicativi, quanto del successivo d.l. 25/3/2020 n. 19, parzialmente abrogativo del precedente, entrato in vigore il 26 marzo 2020. Quest’ultimo, che, a differenza del precedente, cita espressamente l’art, 16 nel preambolo, mira a mettere un minimo d’ordine fra i provvedimenti in essere e a razionalizzare quelli futuri. Si prevede difatti: 1) tipizzazione delle misure con l’indicazione di 19 casi in presenza dei quali possono essere adottate “secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalita’ di esso”;
ggetto dell’informale adesione dei vescovi italiani, ma anche altre forme di esercizio del culto, come la somministrazione dei Sacramenti, che potrebbero essere o no comprese nel termine “cerimonie religiose”. In concreto, il caso si è presentato in questo periodo soprattutto per le estreme unzioni e i matrimoni, che un’interpretazione letterale sembra includere fra le cerimonie temporaneamente vietate. Dalle trasmissioni dei mass-media con immagini di sacerdoti che, ritti davanti al portone per loro sbarrato dell’ospedale, impartiscono una sorta di estrema unzione collettiva ai ricoverati defunti, il divieto sembra l’opzione adottata per questo Sacramento nella realtà quotidiana. Per i matrimoni la situazione si è complicata a causa della celebrazione di matrimoni negli uffici comunali, con ampia risonanza nei giornali locali, nonostante il divieto riguardi anche le “cerimonie civili”. Per porre riparo alla diversità di trattamento ai danni del matrimonio religioso è intervenuta, il 28 marzo, la nota della Direzione centrale degli Affari dei Culti del Ministero dell’Interno, a chiarire che “ove il rito si svolga alla sola presenza del celebrante, dei nubendi e dei testimoni – e siano rispettate le prescrizioni sulle distanze tra i partecipanti – esso non è da ritenersi tra le fattispecie inibite dall’emanazione delle norme in materia di contenimento dell’attuale diffusione epidemica di Covid-19” . Considerazioni che dovrebbero valere per altri Sacramenti quali il matrimonio, l’ordine, il battesimo, ma di fronte al testo normativo e al silenzio della nota ministeriale permangono dubbi e incertezze, che già di per sé si prospettano come violazioni della libertà di religione a danno tanto della Chiesa cattolica quanto dei singoli cittadini. Non va, difatti, dimenticato che fondamentalmente il “diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata” è garantito dall’art. 19 Cost. a tutti in quanto cittadini e non in quanto membri della Chiesa cattolica o di altra Confessione religiosa . Infine la libertà economica e d’impresa (artt. 4, 35, 41 Cost.), certamente colpita da molte delle ipotesi previste dall’art. 2 del d.l. n. 19/2020, in particolare quelle di cui alle lettere u) (“limitazione o sospensione delle attività commerciali di vendita al dettaglio a eccezione di quelle necessarie per assicurare la reperibilità dei generi agricoli, alimentari e di prima necessità…”), v) (“limitazione o sospensione delle attività di somministrazione al pubblico di bevande e alimenti…”), z) (“limitazione o sospensione di altre attività d’impresa o professionali…”). Incidente su questa libertà, sia pure in senso opposto in quanto non sospende, ma impone la continuazione dell’attività, il disposto del 3° comma, che incide anche sul diritto di sciopero. Tirando le fila, va riconosciuto che le limitazioni alla libertà di circolazione determinate dalla necessità di contrastare il diffondersi dell’epidemia finiscono inevitabilmente per incidere anche su altre libertà costituzionalmente garantite, il cui esercizio presuppone, in molti casi e forme, la più ampia libertà di movimento. Tuttavia, proprio perché si tratta di libertà diverse, per le quali nemmeno è espressamente prevista la possibilità di sospensioni o limitazioni, occorre, per evitarne l’illegittimità costituzionale, che i provvedimenti limitativi della libertà di circolazione, tanto i primari (aventi valore di legge), quanto quelli, secondari, attuativi vengano adottati “secondo principi di adeguatezza e proporzionalità” non solo al rischio sanitario effettivo, come recita l’art. 1/comma 1 del d.l. n. 19/2020, ma anche alla necessità di ridurre al minimo indispensabile la contrazione, in termini sia quantitativi che temporali, di tutte le libertà costituzionali coinvolte. Francesco Mario Agnoli