Il nostro paese non è in Europa quello con il maggior numero di residenti cinesi. Tanto meno quello con più intensi rapporti economici e culturali con la Repubblica Popolare cinese. Tuttavia è il primo per quanto riguarda la diffusione del Coronavirus e il numero dei decessi. In realtà non era cominciata così. Il 30 gennaio il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, aveva invitato gli italiani a stare “sereni e tranquilli”, perché il governo stava affrontando il problema “con la massima responsabilità” grazie ad “una linea di misure cautelative che è la più efficace, attualmente, sicuramente in Europa e addirittura forse a livello internazionale”. In effetti, in quel momento, mentre qualche caso si era verificato in Francia e in Germania, da noi i colpiti dal virus si riducevano a due coniugi cinesi in giro turistico e un italiano proveniente da Wuhan, la città dove – pare- tutto è cominciato. Non abbiamo però tardato a risalire la classifica fino a conseguire il primato.
Come d’abitudine. Soprattutto quando si tratta di materie e di settori nei quali l’incidenza dei fenomeni viene calcolata non con le variabili spanne dell’immaginazione, ma con i freddi numeri delle statistiche. In presenza di accertamenti “sicuri” non vi è classifica negativa nella quale l’Italia non occupi il primo posto o comunque una posizione di assoluto prestigio. Si tratti di debito pubblico, di smaltimento dei rifiuti, di indice di natalità, di giustizia, di produzione industriale, di burocrazia, di corruzione, di produttività e costo del lavoro, di criminalità organizzata, di fisco, di sistema bancario. Adesso, di fronte all’emergenza, anche di sanità, che pure veniva vantata come “un’eccellenza” del nostro paese.
Di questi primati di solito si preferisce non parlare. Alle volte li si contesta con pretestuose argomentazioni (nel caso del Coronavirus si è arrivati a sostenere che il maggior numero dei contagiati dipenderebbe dalla grande quantità di accertamenti effettuati in Italia rispetto a quelli fatti – ad esempio – in Francia, trascurando il modesto particolare che lì non si sono avuti morti da virus). Alla peggio, si prende atto dei risultati statistici relativi ad ogni singolo settore, ma si evita di riunirli in uno sguardo d’insieme in vista di una valutazione complessiva, che renderebbe inevitabili le scomode domande del perché e del percome.
In realtà, a volere prestare fede alla narrazione corrente del governo e dei mass-media ufficiali, non mancherebbero settori nei quali l’Italia sarebbe detentrice di primati ritenuti positivi. Anche se non del tutto dimenticato, un po’ fuori moda, per effetto di alcune risonanze mussoliniane e populistiche, quello del paese di eroi, santi poeti e navigatori, le attuali “eccellenze” riguarderebbero l’antifascismo, l’antirazzismo, il politicamente corretto, l’accoglienza. Qualunque cosa se ne pensi, tutti campi nei quali la difficoltà dei riscontri matematici lascia spazio alle fantasie della retorica con l’unica eccezione dell’accoglienza, una materia che invece consente alla statistica di lavorare su dati precisi.
Anche in questo caso però l’esito positivo (per dir meglio, ritenuto tale dalla classe politica di governo e dal Vaticano, essendo del tutto opposto il parere dei partiti di opposizione e di buona parte dell’opinione pubblica) rimane tale solo finché si opera sui dati grezzi del numero degli immigrati ammessi all’ingresso in Italia. Si ribalta invece per tutti nel solito primato negativo non appena l’indagine statistica si raffina e passa a misurare il fenomeno dell’integrazione lavorativa e sociale degli immigrati, individuando e conteggiando, per dirla col giornalista Toni Capuozzo, “chi dorme all’aperto o raccoglie pomodori da schiavo”.
Quanto al Coronavirus (adesso, scientificamente Covid 19), è indubbio che la gestione dell’emergenza da parte del governo e del servizio sanitario nazionale non è stata all’altezza del compito e presenta falle ed errori tipici di chi, sapendosi considerato (e in realtà temendo di essere) l’ultimo della classe, ha sperato di cogliere l’occasione per riabilitarsi e finalmente emergere. E’ difatti certo che una delle cause dell’ingresso e dell’espansione del virus in Italia sta nella decisione del governo di non adeguarsi, al contrario di quanto hanno fatto gli altri paesi europei, alla raccomandazione dell’OMS di sottoporre a controllo e quarantena chiunque arrivasse dalla Cina a favore della decisione, solo in apparenza più dura, di bloccare tutti i voli provenienti da quel paese (una scelta da alcuni attribuita anche a ragioni ideologiche, connesse ai discutibili primati “positivi” di cui sopra).
In ogni caso, dovunque vadano individuate le cause di questo ulteriore fallimento, è inevitabile chiedersi come mai accada che in ogni campo e in ogni circostanza l’Italia risulti costantemente l’anello debole, il vagone di coda, il paese che più di ogni altro ha necessità del soccorso di vicini a loro volta sempre più tentati, a seconda dei casi, o di isolarlo o di approfittare a proprio vantaggio della sua debolezza.
Difficile continuare ad appellarsi all’antica giustificazione del “destino cinico e baro”. Ma difficile anche scaricare la responsabilità sempre e soltanto sull’inadeguatezza e l’incompetenza del governo e della classe politica. Quanto meno in democrazia ogni paese ha il governo che si merita.
Si tratta di percorsi difficili, di riflessioni amare, ma risulta inevitabile chiedersi se il difetto non stia nel manico: nelle caratteristiche culturali e nel modo di essere cittadini del popolo italiano quale l’hanno formato secoli di storia, caratterizzati da avvenimenti quasi mai felici.
Francesco Mario Agnoli