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DIPINGERE LA LUCE. EDWARD HOPPER.

«Dipingo quando riesco a costringermi» ammetteva uno fra i più grandi pittori del Novecento, Edward Hopper. L’arte come imperativo categorico, l’arte che è fatica e non divertimento come candidamente affermava. Nel 1908, a 26 anni, la sua visione era già conforme a quella che avrebbe maturato negli anni a venire. Il preteso realismo di Hopper non si dà come fedeltà alla scena naturale, perché quel che vi è di più essenziale sono le reazioni intime che vi si sovrappongono. «L’arte deve reagire all’esistenza, non evitarla». Il malessere non celato era verso tutto quel che odorava d’avanguardia intellettualistica, le invenzioni che sono finzioni concettuali. Audaci o meno.

Tutto nella sua pittura è apparizione nella e della luce, ma non con la modalità degli impressionisti, vi è un continuo interesse per i volumi ben definiti. «Sono sicuro che potrei fare con il monocromo quel che faccio con il colore». Infatti i disegni, quanto le acqueforti, lasciano paralizzati. Da dove sorge tutta quella luce senza il colore? E il silenzio, così inspiegabilmente manifesto, reso spazialmente presente, realtà che non conosce l’apparente mimesi. «Non penso di aver mai dipinto il paesaggio americano» fulmineo e non acquiescente. «Penso che i pittori della “scena americana” abbiano fatto una caricatura dell’America. Io ho sempre voluto stare per conto mio». Era facile cadere nell’equivoco della solitudine, quella della metropoli quanto quella dei quieti villaggi privi del frastuono industriale, tema che i critici si affrettarono a vedere come marchio distintivo dei suoi lavori. «In questo modo si riduce a una formula ciò che non vuole essere formulato» obiettava. Alla fatidica domanda del come scegliesse il soggetto – alcuni dei quali, va ricordato, sono luoghi dell’immaginario – rispose laconicamente «scelgo quel che mi piace» e che «sono stato influenzato solo da me stesso». In un’intervista del 1953 per la rivista Reality Hopper afferma che l’arte è «an outward expression of inner life (un’espressione verso l’esterno della vita interiore)».

Brian O’doherty, che ne aveva una lunga frequentazione, lo tratteggia senza risparmiare una delicata ironia, con l’incisività tipica della certezza, aprendo a quella che è molto di più di un’ipotesi.

«Gli americani – ovviamente quando non semplici turisti – si possono dividere in due categorie: quelli che entrano in crisi quando vanno in Europa e quelli che vi entrano quando tornano. “Tutto mi sembrava terribilmente rozzo e acerbo, quando sono tornato. Mi ci sono voluti dieci anni per rimettermi dall’Europa” (E.H.). Avvenne allora il fatidico matrimonio tra il pittore e il suo soggetto: il dimesso paesaggio urbano, selvaggio come il paesaggio naturale che gli artisti americani avevano dipinto cinquant’anni prima. Hopper dipinge scene assolutamente banali ma in ogni opera riconosciamo i nostri pensieri rimossi, che ci ritornano in mente con una straniata maestosità. Ha tradotto il rigore morale in precisione stilistica, ha battezzato la nuda scena con la luce, misurandola secondo una solenne geometria spaziale. Sa bene di lavorare per la luce, ma crede che la densità di un quadro dipenda dalla personalità dell’artista, dall’equilibrio dello spirito».

E. Hopper, “Scritti, interviste, testimonianze”, Abscondita, 2017.

Lo sguardo vergine nella semplificazione del dettaglio. Il vuoto che non sottrae ma è costitutivo. Nelle figure umane la psicologia dell’espressione che è volutamente solo abbozzata. Infine ancora la luce, campo elettromagnetico in cui la forma prende sostanza. «Cézanne? No, molti Cezanne sono esilissimi, non hanno peso». Nonostante l’apparenza di solidità, era poeta elusivo, mentre convintamente affermava, contemplava il dubbio. «Non sono mai stato capace di dipingere quel che avevo deciso di dipingere. Appena cominci a metterlo sulla tela, ogni elemento concreto si allontana dall’idea.

Non puoi proiettare i tuoi pensieri sulla tela, perché ci sono fatti concreti, fatti tecnici, che interferiscono. C’è un decadimento rispetto all’idea originaria». Quel decadimento per cui ciò che viene ritratto diventa un di più, testimoniando di un altrove recondito nella coscienza. Ammirava Goethe, «Su tutte le cime è quiete/ In tutte le valli non un suono/ Tacciono gli uccelli nel bosco/ Aspetta: presto riposerai anche tu». L’arte della luce sussurra forse di morte? Il mistero riposa dove pare non esserci alcun mistero.

P.A.

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