Tanto rumore per nulla verrebbe da dire, nascendo il nostro destino è la morte, ciò che ha un inizio ha una fine, con Epicuro e Seneca «quando c’è la morte io non ci sono, quando io ci sono la morte non c’è». Lucrezio rincara la dose, «nulla è dunque la morte per noi, in nulla ci riguarda». «Non sappiamo se la morte sia un bene o un male» insinua Platone in bocca a Socrate. Altrove, nel Gorgia «noi ora (nella vita) siamo morti e il nostro corpo è la nostra tomba».
Quel che sappiamo è che la morte è la fine di una presenza, quantomeno, se si fa proprio un orientamento religioso, la fine di una condizione. Lenire l’inevitabile dolore della perdita, del commiato, maturando il sentimento della gratitudine per l’opportunità di quel che si è vissuto, è serena pacificazione con il mondo, lascito della saggezza comune a differenti culture. Ma il suo opposto, alimentato da un sentimento continuo di estraneità, è altrettanto possibile, il vivere la morte come una liberazione da una vita con o senza gravi tragedie, pur sempre deludente e prodiga di promesse non mantenute. Vivere diviene “essere per la morte”, slancio vitale che vuole affrancare dal timore dell’inevitabile, l’incuranza della lotta essendo certi della sconfitta come declinato da Albert Camus, l’uomo che non indietreggia nella consapevolezza dell’assurdità di quello che lo circonda. “Abbiamo sognato o cosa?” potrebbe essere l’ultima e forse retorica domanda di un degno epilogo.
Il pensiero sulla morte è stato in passato inscindibilmente legato al senso del valore, morale e spirituale, così nell’etica dell’élite guerriera tradizionale per cui «tra la vita e la morte il samurai sceglie sempre la morte» (Hagakure). Altrimenti espresso da Abū ‘Abd er-Rahmān es-Sulamī «è tipico della cavalleria essere consapevoli della propria mancanza in ogni situazione e il non essere mai ammiratori del proprio sforzo», mentre per Abū Sa’īd al-Kharrāz l’ascesi proficua è «l’abbandono dei dati certi, il discernimento sulla propria individualità, la sfiducia nei confronti del mondo, l’abbandono delle domande e delle opposizioni» perché «la Creazione è talmente mutevole, la vita è talmente breve, che non si può perdurare in una data condizione». Ancora Sahl ben ‘Abd-Allah at-Tustārī «il tuo
istante è la cosa più importante, ci si sbarazza di sé quando non si vede oltre all’istante in cui ci si trova». L’attenzione senza posa, paradossale preparazione alla pienezza dell’istante, e se le condizioni occorrono, al disinteresse per la propria sorte e alla morte valorosa, partecipa, quantomeno idealmente, di un’ordine e significato superiore all’individuo. Un modello che si offre nella fede di poter ripetere l’esperienza catartica dei predecessori.
Per Basilio Valentino nel fuoco del Giudizio Universale il mondo dovrà dissolversi prima di coagularsi nuovamente. La premessa è che nulla si oppone a Dio, e nulla può esserne coeterno.
E l’eternità coerentemente non ha un inizio. Paolo di Tarso nel Vangelo afferma la resurrezione finale della carne dalla morte e non solo dell’anima o pneuma che per gli orfici era costituito di energia più sottile di quella sensibile, che non perisce con il corpo fisico e che si reincarna in nuove dimensioni vitali perdendo il ricordo di quanto in precedenza vissuto. Se tutto viene da Dio, inclusa la materia, a Dio deve tornare, ogni forma dimora perpetuamente in Dio come possibilità intatta non manifesta. La materia quindi non ha esistenza a sé stante. Qui si dipana la polemica gnostica dei primi secoli, per quanto l’etichetta di gnosticismo basata sulle invarianti dottrinali sia vaga o di azzardata correttezza: in Genesi viene affermato che lo Spirito di Dio aleggia sulle acque e divide quelle superiori da quelle inferiori, opponendo la Luce alla Tenebra, che come le acque appare preesistente, inverando un dualismo metafisico. Per gli gnostici non è Dio ad organizzare il mondo, essendo plenitudine del Pleroma, Perfezione senza tempo, bensì il Demiurgo, né onnipotente né onnisciente, che ha una nascita, e che a volte è buffone, a volte imbroglione, a volte incapace. Gesù viene qualificato come inviato dal Pleroma per risvegliare la luce divina imprigionata che ogni essere umano ha in sé, e che quando conosciuta, ovvero liberata, trascende la creazione demiurgica. In questo senso l’evangelico «sono venuto a portare la spada e non la pace», dividere l’imperituro da ciò che muore. Continua la polemica puntando l’indice nel passo biblico dove Adamo ed Eva mangiano il frutto proibito e Dio non conosce dove essi siano andati. Vi sono quindi cose che Dio non vede? Nella tensione, per altro non generalizzabile, gnostica tipicamente antigiudaica è qui inteso il Dio dell’Antico Testamento, il Demiurgo.
Dio per gli gnostici, in accordo a Culianu, è anarchos, senza causa, senza inizio, senza forma, non-qualificabile e non arché, Principio e Architetto del Cosmo. La dottrina della Provvidenza come intesa nel Cattolicesimo ha quindi un senso diverso per gli gnostici, non conferma la vita e talvolta la morte viene salutata come affrancamento. Pure altre volte la vita non è semplicemente negata come valle di lacrime, è opportunità di redenzione nella severa ascesi. L’atteggiamento gnostico oscillava nelle differenti varianti tra un ottimismo e un pessimismo di fondo, mentre coltivava nell’uomo il sentimento d’essere straniero al mondo.
Il mito produce un modo comune di sentire che può essere, in una civiltà pluralista, rifiutato. Il mito, il racconto delle cose primordiali, del perché dell’origine della vita, e quindi il senso della morte, e ogni altra declinazione ulteriore, è una questione di fede, o meglio di predilezione intuitiva e di contingenze storico-culturali. Accettarne le premesse, maturandone le conseguenze, che non raramente alimentano anche il sentimento d’appartenenza ad una comunità, costituisce un intendimento da cui sovente si è portati non al difficile confronto con quanto dà un differente orientamento e significato alla vita, quanto al conflitto. Culianu, con ampiezza di visione, nelle conclusioni finali del suo complesso quanto pregevole libro “I miti dei Dualismi Occidentali” afferma che «bisogna rassegnarsi al fatto che ogni attività umana è il risultato di un bricolage mitico che non offre alcuna garanzia di verità». Non dimenticando che «se c’è una ragione naturale, essa non è altro che una fra le miriadi di soluzioni mitiche possibili», e sopratutto che «è il potere temporale che rende alcuni miti più veri di altri, ma alla fine ogni potere viene eliminato da un altro che ha motivazioni mitiche diverse».
P.A.