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DELL’IRONIA. RIFLESSIONE SU UNA BREVE LETTURA ELIADIANA A PROPOSITO DI EMIL CIORAN.

Emil Cioran (1911-1995)

In accordo al dizionario l’ironia è dissimulare fingendo. Il significato della parola ironia si avvicina a quello di beffa, derisione, scherzo maligno o insultante; ma può anche riguardare un rimprovero bonario, o una constatazione di fatti. Kierkegaard nella sua tesi sulla dialettica socratica enuncia l’ironia come infinita negazione. Ma se l’ironia così intesa fosse vera fino in fondo, ultimo termine del rapporto uomo-mondo, dovrebbe portare a non soffrire più della vita e delle sue dinamiche. E quindi essere somma decifrazione della disperazione come della gioia, essere lama ben affilata, ironia su se stessi, demolizione di ogni giustificazione, compreso il dolore.

In un breve articolo uscito nella raccolta intitolata “Fragmentarum”, Mircea Eliade tratteggia un’interpretazione di Emil Cioran che «non conosce l’ironia, ma utilizza in compenso, fino alla saturazione, l’invettiva e il paradosso sarcastico» e in cui reputa il pensiero in rivolta contro la retorica del giudizio, delle aspirazioni, e quella del facile conforto, non differentemente dall’ascesi religiosa: «tutte le ascesi procedono da una svalutazione della vita profana e dunque da un’intuizione pessimistica dell’esistenza umana in quanto tale». Il disgusto di fronte al mondo, temperato da alcuni momenti delicati, si potrebbe dire l’anticosmismo di Cioran, in questo diverso da Nietzsche, procosmico, che vedeva nel nichilismo tutto ciò che tortura la vita e obietta alla volontà di potenza. La macerazione deve invadere fin nel midollo, una lenta e continua decomposizione del reale. Secondo Eliade è solo dopo aver fatto propria questa intuizione che l’asceta può acquisire la capacità di vedere con gli stessi occhi «un pezzo di terra e un pezzo d’oro, un pezzo di carne da macellaio e una coscia di donna». Questa intuizione è in definitiva ancor troppo schematica per delineare una forma d’ascesi universale. E ascesi di segno opposto non mancano. Ogni definizione che il pensiero elabora sulla realtà è parziale, prodotto, per quanto possa essere raffinato, della mente discriminante e non della gnosi senza tempo che non ha parole in cui essere racchiusa, se non quelle elusive dell’allegoria. Eliade, tentando di mitigare Cioran, fa riferimento a una delle nobili verità del Buddhismo, per cui l’esistenza è sofferenza, tutto ciò che è sottoposto ad una durata e quindi ha una nascita o un inizio. Ma questa verità relativa, in quanto dialettica, è più di tutto un mezzo, un pungolo utilizzato per orientare al risveglio interiore. E’ bene intendersi, anche per Cioran «l’odio non porta alla liberazione. Odiare il mondo e odiarsi vuol dire prestare troppo credito al mondo e a se stessi, rendersi inadatti ad affrancarsi da entrambi». Eppure «senza il dolore saremmo tutti dei fantocci, non ci sarebbe più alcun contenuto dove che sia; con la sua sola presenza, esso trasfigura qualsiasi cosa». Se il dolore è inevitabile, essendo il mondo radicato nel dipanarsi dell’esperienza dei contrari, non il dolore esaurisce la realtà, la cui inimmaginabile plenitudine risiede appunto nella coincidenza degli opposti, la natura ontologicamente primordiale dell’anima incisa nei Veda che a Cioran parve irreale perché appunto nega il dolore. L’attaccamento al proprio dolore circoscrive sempre il senso.

«Soffrire produce conoscenza» è certamente vero, non meno che l’affermare che gioire produce conoscenza. Cioran si diceva «un negatore, non astratto ma viscerale, che quindi afferma» domandandosi, «uno schiaffo è forse negazione?». «Non sono credente né miscredente, per me scrivere è un dialogo con Dio». La lucidità nel decomporre l’apparenza, portata allo stremo, diventa tentativo di evocazione. Nell’ironia di Cioran, «la mia rivolta è una fede che sottoscrivo senza credervi», ritorna con insistenza il tema della sofferenza grazie a cui si esiste e che non perdona l’assuefarsi alla falsità delle intenzioni, al ridicolo che investe il valore morale delle persone “nobili” di un mondo esausto, e lo rende, come d’altronde egli desiderava, pronto a indossare una maschera pessimista: «questo è il nostro destino: essere degli incurabili che protestano… l’anarchico rimane desto in noi e si oppone alla nostra rassegnazione». Nel contempo affermava «non sono un ribelle, il ribelle è militante, ho il sentimento dell’irreparabile». Nella suadente prosa Cioran pare toccare l’infinita negazione che Kierkegaard attribuiva all’intenzione di Platone. Negazione dell’affermazione, come pure negazione della negazione, quindi affermazione. Labirinto senza via d’uscita, se non risolve la rivolta nell’illuminazione subitanea del non-luogo dove non ha più cittadinanza. L’unica libertà possibile negli scritti di Cioran pare delineata come essere quel che si è senza illusioni, lucidità che dà soffrendo – e perché mai il dolore dovrebbe essere l’unica non-illusione? – dove la cessazione, la morte, è il ritorno agli elementi costitutivi inorganici. Altrove imprime altro vigore, «se la liberazione veramente ci sta a cuore, deve procedere da noi stessi: a nulla serve cercarla altrove, in un sistema già fatto, o in una dottrina orientale». In una esegesi inversa: ai Misteri si andava per fare un’esperienza. Ogni cosa scritta tende, quando è certa nello stile e persuade l’affetto, a diventare sistema, a nidificare a favore degli epigoni.

P.A.

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