Non si può lungamente girovagare per Milano per poi, dopo varie amenità culturali o mondane, accostarsi con facilità alla Pietà michelangiolesca. Solo con dedizione e imparziale attenzione è possibile. Richiede tempo quest’opera, sconsigliabile la fretta. Non è questione di entrare per vedere tanto per poter dire di aver veduto, non è auspicabile una visita stanca o tra le fila di gruppi impazienti.
L’ultima opera a cui lavorò il Buonarroti prima della morte ma che meditò per lustri, continuamente accantonandola. Perché mai, cosa cercava? La banalità di alcuni studiosi ha trovato la ragione di tal incertezza: il rinnovato interesse verso le forme medievali dell’arte. Come se Michelangelo non le avesse da sempre ben conosciute. Se il Buonarroti è giustamente celebrato per la somma abilità nel rendere con straordinario realismo i dettagli e i volumi dei corpi, la tensione risolta nella Pietà Rondanini è la ricerca dell’estrema levità nella pesante materia, il far trasparire l’anima che viene dall’invisibile e vi ritorna, movimenti opposti fusi in tutto unico. Rimando vicendevole che davvero non si può costringere nell’interpretazione di chi crede di leggervi un incompiuto intento naturalistico o un’arbitraria originalità estetizzante. Non assecondando una certa consuetudine del giudizio si può riscoprire un parallelo di epoca giovanile, oltre a quelli evidenti nel San Matteo e nei Prigioni, in quel Cristo sospeso come fosse quasi intangibile, se non fosse per il capo reclinato in avanti, nel crocifisso della chiesa di Santo Spirito a Firenze. Un deciso richiamo alla tradizione figurativa cristiana dei secoli precedenti il Rinascimento.
La Pietà Rondanini è al contempo materia e spirito, la lotta della forma per emergere, come se il corpo scolpito si sforzasse di liberarsi dal marmo che pure a priori lo contiene: come Michelangelo delinea è più un levare che un porre il lavoro dell’artista che, data per scontata la destrezza dello scalpello, ricerca non l’inalterabile iconografia ma ciò che la materia stessa e l’idea suggeriscono all’intelletto. In questa scultura, vivente in un blocco unico di marmo, la rassegnata tristezza sembra abitare e porgersi senza alternative, non soltanto per il sacrificio divino, quanto per ogni sacrificio perpetuamente necessario, quello di ogni uomo alla morte. Un eco nei versi del Buonarroti medesimo:
Amore e crudeltà m’han posto il campo:
l’un s’arma di pietà, l’altro di morte;
questa n’ancide, e l’altra tien in vita.
Occhi lucenti e santi,
mie poca grazia m’è ben dolce e cara,
c’assai acquista chi perdendo impara.
L’ingegno, l’arte, la memoria cede:
c’un don celeste non con mille pruove
pagar del suo può già chi è mortale.
Il non-finito michelangiolesco è in scultura la più sconvolgente sintesi visiva dell’esistenza. Per i più prosaici un falso mito dovuto ai troppo numerosi impegni lavorativi del Buonarroti. Il non-finito non è un arrestarsi, un abbozzo, una mancanza, è l’immagine dell’infinito, che sempre mantiene ogni possibilità e sempre diviene altro. Questa apparente immediatezza nel rappresentare l’irrappresentabile è un vertice assoluto.
La postura. Nella Pietà è anche una questione di posizioni e di rapporto tra le figure. La Madre, simbolo dell’origine senza pause della vita, dal volto in contenuto trasporto per la morte del Figlio, lo raccoglie dolcemente a sé, sorreggendolo come se una forza altra, invisibile, lo facesse. La postura della Madonna che con superna grazia si estende come ad estrema difesa del corpo morto del Cristo, è la causa dell’intensa commozione. Il Figlio ha un volto tumefatto, avvolto dall’oblio della materia ove pur si scorge uno sguardo sepolto. Se è morte è anche il venire al mondo. Per un senso il supplizio, la condanna, la fine inerte, per l’altro la promessa che la forma è inesauribile, che la morte non è definitiva perché essa non esiste senza la vita. Michelangelo ha scolpito non solo un mondo, ma il mondo in ogni tempo.
(P.A.)