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LE RELIGIONI: COMPARABILITA’ E INCOMPARABILITA’. Di Madame Janus

Esistono più etimologie proposte della parola religione, tra cui le più conosciute sono: avere cura, ripercorrere o rileggere (relegere), legare insieme (religare), scegliere (religere). Rimane senz’altro indubbio che la religione riguarda ciò che una comunità umana ritiene sacro. Una constatazione è che ogni manifestazione del sacro, ogni ierofania, sia anche intesa come una cratofania, ovvero una manifestazione di potenza.

Una religione si afferma di norma attraverso dei miti costitutivi, caratterizzata dalla celebrazione di una ritualità per ricordare e riattualizzare eventi d’origine, propiziatoria, legata alla devozione alla divinità o alle sue incarnazioni molteplici, e come regola di condotta determinata da precetti etici che demarcano l’agire umano e producono senso. Ma esiste anche un’altro modo d’intendere, all’interno di comunità elitarie che hanno indicato nell’esperienza trasformatrice che viene in essere risvegliando le potenzialità latenti nella psico-fisiologia umana il significato più recondito del mito. E’ comunque nel realizzare il collegamento alla realtà trascendente il mondo molteplice che questo risveglio trova il suo effettivo compimento. Nella felice definizione di Mircea Eliade “il sacro è il reale”.

Nelle religioni trovano posto culti e rituali assai distanti gli uni dagli altri, risultanti da ideali e considerazioni talvolta opposte: troviamo pratiche mortificanti in contrasto con quelle che richiedono anche il godimento dei sensi, talvolta portati al parossismo; concezioni che delineano nettamente il bene e il male oppure richiedono la sospensione del giudizio; raffigurazioni di divinità plurime, di aspetti differenziati di potenze cosmiche o idee astratte e universali, oppure assenza di iconografia; imponente corpo dottrinale scritto, oppure trasmissione unicamente orale delle credenze, delle procedure rituali, e dei metodi dell’ascesi; concezione del divino come personale e provvidenziale in contrasto con quella di un deus otiosus, creatore del mondo ma chiuso nella sua perfezione, nascosto e silente. Se si volesse affermare una sorta di unità all’interno di una multiculturale vastità e contraddittorietà di dati, si potrebbe trovare comune denominatore sia l’intuizione che il mondo e l’esperienza personale non si esauriscono nella vita biologica e nella materia, sia il bisogno di un filtro interpretativo dell’esistenza nella consapevolezza dell’ineluttabilità della morte. Come giustamente sostenuto da studiosi come Eliade e Julien Ries, altro fattore universale è che «la nostalgia delle origini delle cose costituisce un carattere permanente della memoria collettiva del genere umano (…) ovunque l’uomo ha dato una spiegazione della sua condizione ricorrendo al contrasto che essa evoca a

riguardo di un’era [paradisiaca] primordiale». Intorno a questo nucleo a ogni latitudine sono proliferati significati, credenze e culti, etica e arte, così da maturare differenti interpretazioni nell’ambito anche di una medesima religione, talvolta nulla più che abbozzate, a volte aspramente combattute perché in conflitto con la consuetudine che si è imposta nel tempo come normativa. Va osservato che aggiunte dottrinali, modificazioni importanti con la creazione di nuove figure cultuali, l’integrazione nel corso del tempo di elementi che inizialmente erano controversi o ignorati, sono accadimenti comuni a tutte le religioni. In una visione d’insieme non ci possono esseri dubbi che «la religione è un variabile prodotto di un continuo processo d’appropriazione, elaborazione e interpretazione di significati».

La religione e la cultura cui dà luogo potrebbero essere considerate come «l’insieme dei tratti distintivi che caratterizzano una società o un gruppo umano»: si demarcano dei confini e delle differenze, necessari per un orientamento produttore di senso a livello della contingenza. Ma ogni società umana è venuta a formarsi anche da sconfinamenti, da cui il concetto di acculturazione «riguardante tutti quei fenomeni che hanno luogo quando tra comunità diverse intercorrono per un periodo dei contatti tali da provocare una modificazione nei modelli di riferimento». Nondimeno una religione è nel suo intimo la credenza nella realtà assoluta trascendente sempre presente, quindi è inevitabile che in una comparazione emergano delle similitudini e simboli archetipici – suscettibili di una significazione peculiare all’interno del discorso proprio a ciascuna religione – che trovano posto anche in civiltà lontane e che mai hanno avuto contatti, tanto da prospettare un’origine comune metastorica. Ma dal presupposto che è possibile parlare di verità solo quando sia un’unica e sola verità, è nato anche il pensiero che una o l’altra religione sia l’enunciazione di questa verità e che le altre non ne siano che una fase ancora preparatoria e parziale. Questa pretesa, a cui non è estraneo un retroterra evoluzionista e una concezione della storia progressiva verso un fine anch’esso storico, è più di tutto la traduzione di un bisogno umano, dove l’intuizione metafisica non è completa.

La tesi radicata nel Vangelo, e che si vuole necessaria per una testimonianza di fede, è che il Cristianesimo è superiore in virtù del Cristo. La credenza nell’unicità di Gesù Cristo trova altrove un parallelo: l’epifania della divinità in un mediatore-messaggero, anch’egli chiaramente divino, non è esclusiva del Cristianesimo – un esempio già sufficientemente noto sono gli Avatara incarnazioni di Visnu o il vedico Agni “figlio dell’uomo” – né che il Redentore sia nato da una vergine – come Vardhamana nel

Jainismo o Gautama Siddharta, il Buddha – né il sacrificio della divinità o antenato archetipico che si può trovare nei miti di quasi ogni civiltà. Chiaramente l’accento nel Cristianesimo è posto sulla storicità del Cristo, cosa che per altro vale anche per gran parte delle tradizioni del Buddhismo nei riguardi del Buddha, ma è necessario rammentare che un mito è un discorso peculiare ad ogni religione sulla realtà in perenne attualità, al di là del divenire del tempo. Il mito non solo prefigura la storia ma la risolve, è transtorico. In altri termini è nel tempo mitico che la storia trova la sua ragione d’essere e il suo fine. La storia sacra che si compie è nel tempo mitico che è «reversibile e recuperabile e si inserisce nello svolgimento del tempo storico, nel quale provoca una rottura». Rottura che rende possibile il ritorno all’origine metafisica primordiale. E’ a questa condizione che il mito è modello esemplare del rituale. Nulla cambia per un occhio penetrante, tradurre il mito in evento storico è più che altro indicativo di una mentalità e attitudine, esplicative di un’epoca dell’umanità. Per citare ancora Ries «il mito è portatore di un linguaggio relativo alla condizione umana, ma è anche un metalinguaggio, possiede cioè un significato distinto da quello del discorso che lo costituisce». Metalinguaggio in cui il simbolo è anzitutto ciò che è rappresentativo di un’altra cosa, ma anche polivalente, ovvero esprime simultaneamente diversi significati a più livelli della realtà. Se quindi è una possibilità perfino il confondere il simbolo con il simboleggiato, è non men vero che il simbolo non può essere esaurito da una interpretazione unilaterale.

Una religione può riguardare come ben noto una giustificazione per fede, comunque intesa ad affermare un discernimento etico, uno studio approfondito dei testi considerati sacri, la sincera devozione di cui pratica naturale è la preghiera. Ma va anche affermato, senza temere lo sdegno razionalista, che la dottrina deve poter tradursi in una pratica contemplativa efficace per conoscere ciò che trascende l’abituale orizzonte fenomenico. Solo in quest’esperienza il ritorno alle origini primordiali può essere compiuto durante questa vita, solo così il “transconscio”, il sacro, diviene totalizzante. Questa esperienza centrale, con maggiore enfasi presso quei popoli considerati volgarmente “primitivi” per cui ogni fatto religioso trova in essa il suo fondamento, può avere come supporto materiale le ierofanie più varie concretizzandosi per la comunità nel linguaggio del simbolo.

Nella multiformità religiosa odierna si trovano sia elementi assimilabili di antica sapienza sia affermazioni irriducibili, intendimento letterale di testi sacri contrapposto ad una comprensione più raffinata e intuitiva, pratiche che viste

dall’esterno posseggono un margine d’ambiguità e che vengono non raramente fraintese, medesimi concetti assimilati differentemente in corrispondenza a sensibilità e abitudini culturali diverse, ergo una plurima comprensione delle possibilità della condizione umana.

Madame Janus

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