«Nel mondo in cui appare il successo come un vantaggio, un guadagno, non si può non riconoscere tutta la seduzione di un impegno o di una vita spesi inutilmente». Sconcertante e fulmineo, in questo libro di straordinario interesse, l’Abate del monastero Soto di Fudenji, Taiten Guareschi, trasporta il lettore all’imponderabile che scardina le categorie abituali del pensiero. «Lo Zen è inscindibile dalla cosiddetta meditazione, Zazen, che è il modo di stare di fronte all’indisponibilità, quindi a se stessi, oltre le ragioni, anche le buone ragioni del pensiero». E’ la mente razionale che separa, il pensiero naturalmente dualistico che struttura l’interpretazione del mondo. Non è falsità, perché risponde ad un bisogno, ma è parziale. «Appaio ma non suppongo che l’apparire o l’esteriorità sottenda qualcosa. Sono sipario, non è che dietro ci sia dell’altro». E’ necessario ricordare che la prassi Zen è rivolta sia a vanificare l’assoluta affermazione quanto l’assoluta negazione. «Anzitutto vi è l’intuizione che ogni scopo è falso, e questo è affrontare la propria indisponibilità. Il senso è quello del gioco, non si può separare l’uomo ludico, fantasioso, dalla dimensione religiosa. Inverare la realtà fingendola si avvicina molto allo spirito del Buddhismo, illusione e realtà vanno insieme». Tutto ciò è trascurabile o perfino inaccettabile per l’individuo che vuole un riscontro, il più immediato possibile, alle proprie intenzioni. «L’insegnamento del Buddha è primariamente metodo» chi vede nel Buddhismo un sistema filosofico, nichilista o pessimista, è ingannato da un’ingenua e banale consuetudine interpretativa. Il Dalai Lama conviene a chiamarlo più propriamente “scienza della mente”. «Anche se non si pratica la meditazione a lungo, godetevi l’immobilità e interrompete ogni movimento cosciente», dice Dogen Zenji. Ma questo a ben vedere è un paradosso perché l’immobilità è lottare con vigore contro natura. Solo quando il respiro, e di conseguenza il corpo, si calma, diviene profondo, riempie l’intero spazio e si arresta, l’immobilità è raggiunta. E ogni funzione psico-fisiologica ne viene coinvolta e sconvolta. Ma se si entra in questo stato, che trascende la legge della natura, poi si esce. Non si può coscientemente interrompere la coscienza, è sospensione spontanea quando, magari dopo prodigo e sincero sforzo, ogni sforzo volatilizza, ogni idea di affrancamento o schiavitù, annichilimento o acquisizione è dissolta. Deshimaru, il quale portò in Europa la tradizione del lignaggio Soto e definiva lo Zen “la religione prima delle religioni”, ripeteva: «lo Zen è Zazen», semplicemente stare seduti nella postura corretta. L’immobilità è in rapporto all’iconografica posizione del corpo del Buddha in contemplazione, è passaggio dal continuo mutamento alla libera natura primordiale.
«Lo Zen non è solamente spiritualità, né materialismo, né solamente oltre i due. Nella e con la pratica soggetto e oggetto diventano unità». Non-due. Evidentemente spirito e materia sono categorie elaborate dal pensiero. «La cultura reale, intesa come saper fare, facilmente si corrode fino al saper dire e addirittura al pensare di saper dire».
«Passare di pensiero in pensiero, contrapporre idea ad idea, è la grande distrazione (…) il segreto dello Zen è nello spazio di non-conoscenza tra l’azione e il suo frutto». E così si può anche intuire come sia stato possibile applicare lo Zen a varie forme d’arte, da quelle marziali alla pittura, dalla disposizione dei fiori alla cerimonia del tè, al massaggio, e in definitiva a molte altre attività, anche le più umili, comunque necessarie nell’economia di un monastero. E’ esclusivamente nell’esperienza della pratica che la tradizione si fa vita. «Una cosa è capire, altra il realizzare».
«L’ossessione per la verità equivale a rimuovere l’illusione di questo se stessi che si libera per gioco: vivere liberi ci appartiene da sempre. Per credere non c’è bisogno della sola verità, perché c’è la falsità del credere e la verità del dubitare che procedono insieme mano nella mano». Lo Zen è anche arte del tacere. E’ non accontentarsi di una conoscenza di seconda mano, è non turbarsi della propria inadeguatezza. E’ imparare a comprendere con il corpo nella piena libertà del momento in cui la corda dell’arco “si tira”, in cui il massaggio “si fa”, in cui il gesto, pur codificato, è inatteso, in cui l’intuizione è immediata e avviene senza alcun impedimento. Quando questo accade ci si può inchinare e fare Gassho. Ma anche se l’esperienza non lascia dietro di sé il dubbio, il pensiero tende ad appropriarsene e prima o poi a proliferare. Per questo in molti casi un incontro per parlare dello Zen finiva con un pugno sbattuto sul tavolo.
Madame Janus