Scrivere di Storia, oltre alle ovvie ricerche sulle fonti, è anche fare congetture, porre quesiti, fabbricare riflessioni su connessioni ragionevoli ma a tutta prima non così evidenti. Talvolta è prendere posizione contraria ad una diffusa consuetudine interpretativa, cosa a cui William V.Harris non si sottrae in questa ambiziosa opera di valutazione del potere e della sua articolazione nell’evoluzione di Roma, da città-stato ad Impero.
Dal IV secolo a.C. l’aristocrazia romana emerge con chiarezza, con coerenza negli ideali e nel comportamento. Gli individui che ne facevano parte erano plasmati dal prolungato servizio militare e la loro ambizione concorreva per una carica pubblica, cosa che voleva dire l’incarico di un comando militare. Ogni successo bellico forniva degli schiavi usati come manovalanza in particolare nelle campagne. Nel 300 a.C. vi fu l’innovazione del conio della moneta che garantì l’aumentare delle risorse economiche e una paga regolare alle legioni di soldati. Roma divenne potenza marittima in grado di muovere guerra a Cartagine dal 264 a.C. e la decisiva vittoria su Perseo, ultimo Re della Macedonia, nel 168 a.C. diede ai romani il dominio sul Mediterraneo. Il controllo sui nuovi territori conquistati avveniva con la prontezza dell’uso della forza e con l’alleanza con le élite locali. Era abituale impiegare mercenari stranieri concedendo loro la cittadinanza a seguito dell’impegno in battaglie. La Repubblica era governata da un’aristocrazia patriarcale, terriera e proprietaria di schiavi, poiché chi occupava una carica pubblica non veniva pagato, solo i più abbienti potevano permettersi di avere un ruolo attivo nella vita politica. La fides, la buona fede, era considerata una virtù capitale, soggiaceva ai patti sociali in un’epoca in cui la maggior parte dei contratti non era scritta, e ad essa venne eretto un tempio. Altre idee elette a divinità furono la Virtus (coraggio), Concordia e la Salus (sicurezza) i cui templi furono eretti nel 304 e 302 a.C. la Mens (intelligenza) nel 181 a.C. e la Pietas. Altra divinità era la libertas che delimitava il confine tra il libero cittadino e lo schiavo, divenuto netto solo nel 313 a.C. con l’abolizione della schiavitù per debiti. La consuetudine di edificare questi templi a partire dal 173 a.C. iniziò a venir meno.
L’insieme di cause che misero fine alla Repubblica è molto dibattuta, ma è indubbio che furono i legionari sotto le armi a determinarla nel 49 a.C. e che portarono nel 46 a.C. Cesare, grande condottiero di legioni in Gallia e uomo estremamente ricco, a diventare “dittatore perpetuo”. Ma Cesare venne assassinato nel 44 a.C. da un gruppo di senatori che inclinavano ancora per la Repubblica. Dopo la battaglia di Azio (31 a.C.) il potere fu conquistato da Ottaviano che presto si dichiarò divi filius (non venne però formalmente divinizzato nell’Urbe che dopo la sua morte) e prese nel 27 a.C. il nome di Augusto. I senatori conservarono gran parte dei loro compiti, e possedimenti, nel governo delle province, fino al III secolo quando fu loro sottratta ogni responsabilità militare. Le province maggiormente romanizzate fornirono un numero sempre più crescente di soldati che entrarono a far parte di forze ausiliari, di norma dislocate lontano dalle loro regioni originarie.
La prima formulazione della missione civilizzatrice di Roma compare nella Naturalis Historia di Plinio dove si afferma che era stata scelta dagli Dèi per addolcire gli usi dei popoli barbari ed essere la patria di tutte le genti del mondo. Flavio Giuseppe mette in luce che nella Giudea l’Impero era una garanzia di rispetto della proprietà. Anche il concetto di appartenenza, di “romanità”, era andato man mano evolvendosi. Questo non impedì in Giudea rivolte continue che portarono a durissime repressioni in cui “furono rase al suolo novecentottantacinque dei loro più rinomati insediamenti e furono uccisi cinquecentottantamila uomini” (Cassio Dione). Quasi la metà dei senatori di cui si conoscono le origini ai tempi di Adriano veniva dalle province dell’Impero, ma va notato che appartenevano alla stessa classe sociale dei loro predecessori e vivevano di rendita. Nel II e III secolo la grande maggioranza dei soldati che combatterono nelle milizie romane era composta di abitanti originari delle province. L’ascensore sociale, per così dire, erano gli incarichi, gli onori, una ricompensa che poteva aumentare a seconda dei meriti in battaglia, di contro ai processi per tradimento, alle condanne a morte o all’esilio. Quanti vivevano nelle province potevano ottenere soddisfazione per i loro diritti, cosa che era un importante principio di buon governo, per quanto ai governatori romani delle province fosse concesso di scegliere chi poteva presentare delle petizioni e chi no.
Per molti secoli la cittadinanza costituì un elemento centrale nella politica e nel riconoscimento dei diritti, e per questo esercitò una considerevole attrazione. Dopo l’editto di Caracalla del 212 che estese agli abitanti entro i confini dell’Impero la cittadinanza è possibile, e plausibile, che molti dei nuovi romani abbiano reagito positivamente, ma è anche possibile che questa abnorme inclusione abbia svuotato di significato quello che comunque fino ad allora era un privilegio, per cui si era disposti a lottare e farsi valere.
Quale fu l’evoluzione del potere imperiale sotto Diocleziano e Costantino? Nessuno si sorprese quando nelle monete si pose sopra il loro capo l’aureola, il nimbo, in precedenza riservata solo agli Dèi. Diocleziano fallì nel tentativo di prevenire l’inflazione dei prezzi e dei salari, ma riorganizzò i censimenti accurati nelle province, necessari per un’efficace riscossione dei tributi e per il ridimensionamento o azzeramento dei privilegi goduti da tempo da alcune comunità. Costantino fondò una Capitale alternativa sul Bosforo, cosa che da un lato diede un colpo decisivo al rimanente potere del Senato romano e che portò in pratica alla divisione in due dell’Impero, e dall’altro rese decisamente più importante e imponente la presenza romana non lontano da zone considerate vulnerabili, il basso Danubio e la Mesopotamia. Costantino elesse il Cristianesimo come religione di Stato, cosa che non gli impedì di far uccidere il figlio primogenito Crispo e la moglie Fausta. Gli intrighi e omicidi di Corte per altro non erano una novità. Per alcuni – Montesquieu, Voltaire, Gibbon, e altri – i rituali, i simboli, e l’etica cristiana erano in contraddizione con la difesa del potere secolare di Roma, e fiaccarono le milizie che sotto Teodosio pare dovettero rinunciare ai tradizionali sacrifici animali e giurare fedeltà al misericordioso Dio cristiano. D’altra parte Mitra, Dio delle legioni romane, uccisore del toro mitico, non era meno caritatevole e non meno protettivo soccorritore dei suoi fedeli. Rimane lapalissiano delineare un insieme di concause che portarono alla fine dell’Impero d’Occidente nel 476, tra cui appaiono decisive l’invasione sempre più massiccia dei popoli barbari e il progressivo indebolimento delle finanze dello Stato. Dopo le guerre di Giustiniano per riconquistare in parte le terre d’Occidente, che causò abnormi costi di vite e di denaro, nel VII secolo l’Impero d’Oriente era ancora abbastanza ricco da attirare saccheggiatori, ma non più in grado di difendere efficacemente un territorio così esteso. Fu con l’avanzare dell’Islam (la prima battaglia contro i seguaci di Maometto ebbe luogo a Sud-Est del Mar Morto nel 629) che anche l’Impero romano d’Oriente iniziò a vacillare. La considerazione di datare la fine dell’Impero d’Oriente alla conquista turca di Costantinopoli nel 1453 è per Harris un errore: lo Stato romano-bizantino fra tardo VII e inizio del XI secolo non si può certo definire un Impero.
Queste poche righe non possono che rinviare alla lettura di Harris per un approfondimento. E’ però opportuno far intuire la continuità tra il Cristianesimo nascente e le religioni ellenistico-romane, cosa che può porsi in antitesi all’idea che la nuova religione di Stato fu una delle cause della caduta dell’Impero, argomento che esulava dalle intenzioni dell’autore nel libro.
Il Cristianesimo nasce nelle terre d’Oriente dell’Impero da quella che in origine era una setta giudaica apocalittica, nel contesto di rivolte sociali alla dominazione romana. Il Cristianesimo, che si diffuse nel crogiolo multiforme di religioni permeabili le une con le altre, nei primi secoli era declinato differentemente nelle varie comunità dell’Impero, aveva diverse voci, solo nel IV secolo inizierà ad assumere una linea comune ben definita nel 325 con il Concilio di Nicea. Costantino per ovvie ragioni politiche voleva che si uscisse dal Concilio con dogmi e dottrina chiaramente formulati, e si convenne su cosa fosse vero e cosa falso. Il libico Ario fu da quel momento eretico, come tutte le comunità adozioniste per cui Gesù era un uomo dotato che solo dopo il battesimo nello Spirito Santo poté essere figlio dell’Altissimo. Ma anche dopo Nicea il Cristianesimo continuerà ad assimilare idee e simbolismi che si trovavano nelle altre religioni contemporanee dell’epoca. Grazie al prezioso contributo dell’archeologo e filologo Franz Cumont, si potrà almeno in parte chiarire lo scenario. Nell’Impero romano era uno straripare di credenze e di concezioni egiziane, semitiche, caldee, persiane. Nel culto di Mitra, già diffusissimo tra i soldati in ogni parte dell’Impero sotto Commodo, il rituale si celebrava con banchetti liturgici e con un battesimo d’acqua. Mitra, a cui fu assimilato l’Imperatore che aveva mandato divino sulla terra, era il “sol invictus”, poi attribuito al Cristo. La religione persiana introdusse un dualismo metafisico, il Dio malvagio e il Dio buono in conflitto tra loro, che tradotto tra i soldati divenne l’etica ferrea della lealtà e del rispetto della parola dàta. Il dualismo metafisico che dava una risposta al male nella vita, fu possibilmente derivato dall’osservazione dei fenomeni naturali, dal ritmo respiratorio, dalla complementarietà uomo-donna, dal Sole che di giorno illumina e di notte scompare. E’ generalmente ammesso che i giudei furono così influenzati da questa antica concezione da annettere un sovvertitore in una certa misura antagonista al Dio unico, Satana. Questo stesso dualismo persiano determinò la netta distinzione nel destino dell’uomo dopo la morte, tra cieli ed inferi, e il mondo come teatro di un conflitto perpetuo. Mitra è la divinità che assiste i suoi fedeli nella loro lotta contro la malvagità tanto che alla fine del mondo anche i corpi fatti di carne verranno resuscitati e parteciperanno al bene imperituro. Dottrina che ha un eco in un’antica credenza egizia. Nel culto di Cibele già presente a Roma alla fine della Repubblica, il divino compagno della Magna Mater moriva per poi resuscitare, così come i suoi fedeli dovevano dopo la loro morte rinascere a nuova vita. Un’iscrizione romana porta la dicitura “Attis l’Altissimo”, che è l’appellativo di Javhé Sabaoth, Dio degli eserciti dell’antico testamento, e continua “a te che contieni e mantieni tutte le cose”. Attis era Giove, Osiride, Dioniso, era omnipotentes. I suoi attributi simbolici erano il disco solare con i suoi raggi e la mezzaluna. Suona familiare. I sabaziasti credevano che dopo la morte il loro angelus bonus li avrebbe condotti al banchetto dei beati, riflesso della celebrazione rituale del pasto in comune, a cui venivano ammessi neofiti di ogni etnia. Nella liturgia si mangiava la carne di un animale concepito come divino e si credeva in tal modo di partecipare delle qualità divine. Nell’antica zoolatria semitica due animali erano particolarmente venerati: la colomba e il pesce. La colomba era simbolo dell’amore, mentre il pesce era consacrato ad Atargartis, divinità di origine siriana, e veniva nutrito in vasche in vicinanza dei templi. Era cibo proibito, ma gli iniziati al culto lo consumavano nei banchetti in comune, sempre nell’assimilazione magica del cibo con le qualità divine. Non è un caso che uno dei simboli paleocristiani per eccellenza fosse appunto il pesce, che nella nuova dottrina orienta al Cristo, Re pescatore di anime. I sacerdoti caldei, astronomi e astrologi, osservando i cieli stellati avevano concluso per la perpetuità nel cambiamento, ogni volta che gli astri paiono scomparire nel cielo notturno, in particolare la Luna, rinascono a vita nuova. Così il Baal, il Signore, venne ad essere considerato eterno abitante le regioni del cielo. Ma i Baal erano molteplici, come gli Elohim del vecchio testamento, e il loro potere non limitato dal tempo o dallo spazio: erano dei “pantei” che abbracciavano tutto nella loro comprensione. A questa credenza era associato il pantei solare che crebbe in popolarità a tal modo da imporsi su tutto il mondo romano. La simbologia solare non poteva che confluire nel Cristianesimo, e così da Costantino in poi il Cristo nacque il 25 Dicembre, nella “resurrezione” annuale del Sole dopo tre giorni dall’aver toccato il punto più basso all’orizzonte al Solstizio d’Inverno. La religione cristiana, innovativa per aver trasposto la teofania in evento storico, per i fedeli l’incarnazione del Logos divino, fu davvero una rottura culturale di tale portata con il mondo religioso dell’epoca da modificare profondamente la morale, le attitudini psicologiche e interpretative della vita della popolazione dell’Impero, in particolare quello d’Occidente, in un relativamente breve lasso di tempo?
P.A.