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LE DUE VOCAZIONI CHE DOBBIAMO RITROVARE. Di Maurizio Blondet*

La fanteria spagnola mandata a debellare la rivolta dei moriscos sulle Alpujarras si comportò male, subendo gravi perdite  nel cercare di conquistare Galera (un  paese che ribelli avevano  ben fortificato) e dandosi addirittura alla fuga nel  tentato assalto a Seron. Il comandante  – che era stato  ferito due volte – ne fece impiccare due per dare l’esempio. Era  Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V imperatore, il futuro vincitore di Lepanto.  Scrisse: “La causa principale che rende  gli uomini così maldisposti e deboli d’animo è, lo so bene, il loro comportamento dissoluto,  la disattenzione alla propria anima, la coscienza facile”.  Era il 1569 e don Giovanni aveva 23  anni. Colpisce  la sua intuizione che la causa della viltà militare sta nella dissolutezza.

Non conobbe mai sua madre e fu allevato  da estranei fino a sette anni – cosa che, oggi crederemmo, avrebbe fatto di lui un complessato.  Non fu il caso.   Dopo quell’età, mentre il suo padrino, il cortigiano-soldato Luis Quixada,   gli insegnava a cavalcare e tirare di spada,  la moglie di Quixada, Magdalena, gli aveva insegnato il latino e la devozione alla Vergine. Anche Carlo V  del resto  divorava i romanzi cavallereschi, e pensava a sé come  cavaliere  errante che da Dio aveva ricevuto due mandati: debellare il turco e, a Nord, la  luciferina eresia luterana. Ogni hidalgo che non abbracciasse la vita di religione,  viveva la cavalleria come vocazione. In quegli anni,  per  i gentiluomini di sangue, le due vocazioni erano compresenti. 

Lo stesso Carlo V,   che aveva avuto quel figlio illegittimo  fra  le battaglie  sul Danubio e la vittoria di Muhlberg sull’elettore di Sassonia nella primavera del 1546,  cedendo (lui vedovo a 47 anni) alle grazie di una ventiduenne bionda, tedesca,  di nome Barbara Blomberg  – dieci anni dopo abdicò volontariamente dall’immenso impero (pieno di debiti, è vero, più che di ricchezze) perché bramava la pace dell’anima.

Si fece allestire dal fido Quixada un appartamento presso il convento di San Jeronimo de Yuste in Estremadura:  alla parete   il  quadro del Tiziano che lo ritraeva in Gloria, da una finestrella poteva seguire la Messa conventuale.   Lì, sul letto di morte, dettò a Quixada  la lettera  in cui rendeva noto al figlio legittimo, suo successore al trono,  Filippo II, di quel figlio che aveva avuto “da una donna nubile” ;  che sarebbe  stata  la cosa migliore che questi “liberamente”  scegliesse di vestire l’abito di un ordine di frati, ma “se preferisce condurre vita secolare, è mio comando che egli riceva ogni anno 20 mila ducati dai  proventi del regno di Napoli”. E’ chiaro che era stato lo stesso Quixada a suggerirgli,  ammonendolo del rischio per la salvezza dell’anima sua, di adempiere a questo dovere verso un figlio che mai aveva voluto vedere, che aveva tolto alla madre e fatto allevare lontano dalla Corte, perché non creasse problemi dinastici.

Anche l’illegittimo Juan, quando i 3 ottobre 1568 si sentì offeso perché al funerale della regina Elisabetta di Valois,  la moglie-bambina  di cui era amico personale (erano coetanei), il fratellastro Filippo  gli aveva assegnato un posto non solo lontano dal baldacchino regale, ma dai familiari – reagì in questo modo:  di notte montò a cavallo e raggiunse il convento francescano di Santa Maria de Scala Coeli a Valladolid: e per due mesi don Giovanni “rimase coi francescani adempiendo con la massima serietà ai doveri religiosi e  condividendo in tutto la vita francescana, la cura dei poveri e la pratica  della povertà”; tanto che a corte si sparse la voce che  don Giovanni si sarebbe fatto frate, dopotutto.  Ma Filippo II  – risultò  – non poteva privare il regno di  quell’imbarazzante fratellastro, in cui aveva riconosciuto  quella  virtù  che  a  lui sapeva far difetto,e di cui l’impero aveva  bisogno:   le qualità militari.  Era cominciata la rivolta dei moriscos,   nel cuore della Spagna stessa, e Filippo  ordinò a  Juan di uscire dal convento e  comandare  10 mila uomini per schiacciare la rivolta.   Il confessore  francescano, frate Juan de  Calahorra, “gli ricordò i suoi doveri”: aveva visto che la gloria era la vera vocazione del giovanotto. Fatto sta che Giovanni d’Austria  a Granada sfilò con le sue truppe  –   e  s’innamorò  di una bellissima Margherita di Mendoza   – da cui ebbe una figlia,  Anna d’Austria.

Affascinante,  cattolico, germano-ispanico  miscuglio di carne e ascesi, di  devozione e  valore guerriero, di lotta fra i sensi e la fede. Nessuno  visse coscientemente questo scontro in sé   più dell’uomo  – suo cugino  – che Carlo V mandò a fare il viceré di Catalogna: Francisco Borgia. Suo nonno era uno dei tanti figli  che aveva disseminato Alessandro VI,   il  famigerato scandaloso papa Borgia.  Paggio di corte  della madre dell’imperatore, la regina  Giovanna  (La Pazza), amico e confidente di Carlo V e suo necessario braccio destro,  era consapevole ed assillato dalla necessità di tenere a freno “il sangue dei Borgia”  che gli ribolliva nelle vene; si affrettò a sposare una damigella di 19 anni, Eleonora de Castro. Fu un travolgente grande amore. Eleonora li diede otto figli;  “ma dopo l’ultimo aborto non osando  più toccarla, egli prese a dormire da solo. E nella stanza, il vicerè si fustigava”.
Perché viceré di Catalogna lo aveva nominato Carlo  V,   provincia già allora difficile  e insubordinata, e allora infestata dal banditismo. Con pochi uomini, e a sue spese  (Carlo V non aveva mai quattrini) Francisco Borgia –  che allora era un obeso proverbiale –  cavalcò sulle  montagne, catturò  e impiccò alcune dozzine di briganti, ma disciplinò anche vescovi biscazzieri ed ecclesiastici mondani che coi banditi erano in combutta  mafiosa;    comprò grano per i poveri.  Quando come viceré sedeva ai banchetti o nei consigli dei nobili, “sotto il ricco vestito teneva il cilicio”  per tenere a freno il sangue  dei Borgia.

In realtà, don Francisco non aspettava  altro che  Carlo imperatore lo sollevasse dai  doveri politici, per entrare in religione. Aveva conosciuto un ex soldato ed uomo d’arme basco, Ignazio de Loyola,  e segretamente aveva  fatto professione di entrare nell’ordine appena nato.   Ma  morì suo padre, e lui dovette amministrare i beni di famiglia: che erano il ducato di Gandia, primo esempio di agricoltura industriale che produceva seta e zucchero.   Il Loyola gli aveva ordinato: prima,   hai  il dovere  di assicurare un avvenire ai figli maschi, e nozze decorose alle figlie femmine.  Così, “Dalle  quattro alle otto del mattino  Francisco pregava, per il resto della giornata amministrava”: Senza dimenticare di   piazzare 60 cannoni   contro le incursioni dei corsari di Algeri; di addestrare una milizia popolare di 600 uomini contro lo stesso pericolo; di allestire una scuola per i figli dei moriscos e un ospedale per i poveri. Intanto studiava teologia. Già frate nell’anima, scrisse una pregevole Pratica delle opere cristiane;   comandante, viceré, amministratore  del feudo,  fu anche musico. Scrisse partiture organistiche per la chiesa collegiata, “sufficienti a collocarlo fra i  maestri della musica spagnola dell’epoca” .  L’amata moglie gli morì nel 1547.   A corte nacque la voce che Carlo V voleva farlo ministro, per  cui Francisco accelerò la professione segreta di gesuita.  Quasi fuggì a Roma e   da frate, il duca e viceré e comandante fu messo a servire i confratelli, a rigovernare e lavare i piatti e i pavimenti. Finalmente felice:  aveva vinto   la carne dei Borgia.  Vero è che dovette tornare nel gran mondo, ormai come confessore della reggente Donna Juana,  un’altra “che attendeva solo di essere sollevata dall’incarico  politico   per entrare in convento”, e un’altra per chiudere gli occhi a Giovanna La Pazza che, dopo una vita  di follia  in cui aveva urlato solo bestemmie, l’ultimo respiro sussurrò: “Gesù crocifisso, assistetemi”.

“Una grandiosa humiltad”

Come sappiamo (o dovremmo sapere) a  incarnare insieme le due vocazioni più perfettamente erano gli Ospedalieri di San Giovanni:   corpo   sovrannazionale di monaci guerrieri, residuo anacronistico delle  Crociate, Carlo V aveva  dato loro l’isola di Malta.  Nel 1565,  profilandosi l’assedio di schiaccianti forze turche,  700  cavalieri erano tornati  nell’isola a prendere servizio,   richiamati dal gran maestro,  Jean Parisot de la Valette, settantenne.

Era l’avamposto degli uomini perduti, pochissimi, asserragliati tra fortificazioni incompiute,  scarsità di polvere da sparo,  di cibo, persino di acqua: immediatamente divennero il sogno di una gioventù aristocratica  nutrita dei romanzi cavallereschi.  Lo stesso don Giovanni cercò di partire per arruolarvisi, impedito dal divieto del fratellastro imperatore. Quando il viceré di Sicilia, don Garcia de Toledo,  andò personalmente a Malta con una flotta per evacuarne  le bocche inutili e portarvi provviste di grano, suo figlio minore, il sedicenne Federico,    volle entrare nell’ordine e restò a combattere. Anche 4 mila maltesi si misero agli ordini del  comandante La Valette; e persino due ebrei, che dal  Qohelet  sapevano  “c’è un tempo per vivere e uno per morire” e vollero farlo in buona compagnia.       Alla fine  dell’assedio, dei 700 cavalieri, 250 erano morti e tutti gli  altri erano  gravemente feriti e mutilati,  ma i turchi avevano perso 31 mila uomini  –  senza espugnare  Malta.

A  Lepanto,  dove tutte le ciurme ed anche i criminali cristiani al remo – i galeotti  –   erano stati forniti di armi,  e tutti avevano partecipato alla Messa in coperta, don Giovanni passò  con una fregata  lungo un’ala  tenendo alto il crocifisso per risistemare lo schieramento;  nel fitto della battaglia,  mentre forzava i rematori della sua ammiraglia ad arrembare l’ammiraglia del comandante turco, fra le palle di archibugio che fischiavano, fu visto “danzare una gagliarda sulla piattaforma dei cannoni  al suono dei pifferi” con altri due gentiluomini.  Aveva  24 anni, in fondo.

Come noto a Lepanto si batté, imbarcato su La Marquesa,  un soldato di mestiere della stessa età, di nome Miguel De Cervantes: l’uomo che col Don Quixote avrebbe  versato le più  autentiche lacrime sull’ideale cavalleresco, con la scusa di canzonarlo. Perse la mano  sinistra, e  fu colpito al petto da un’archibugiata. “Con una mano afferravo la spada, e il sangue correva giù dall’altra.  La sinistra era  già  lì, spezzata in mille parti. Ma il giubilo che mi prese l’anima vedendo vinto il crudele popolo infedele da quello cristiano fu tale, che non capivo se ero ferito davvero”.   Cervantes aveva 68 anni quando morì: volle essere seppellito con il saio francescano. Era terziario, e  i confratelli dissero che  affrontò l’agonia con “una gran paz y  una grandiosa humiltad”.

Grandiosa umiltà:  nulla di più  spagnolesco di questo chiasmo. Che splendidi caratteri, che forti vite e nobiltà  diede la Spagna  al cattolicesimo; anzi, che  civiltà fu quella cristiana ai tempi di Lepanto,  dove l’aristocrazia  stava tra le due vocazioni –    possiamo misurare di quanto ne siamo decaduti e degradati liberandoci dalla fede, fino ad auto-estinguerci per viltà e privazione di senso.   Che  quella grandiosa cristianità sia perduta per sempre ”come lacrime nella pioggia”, non lo credo possibile.   Il sangue dei martiri di Sri Lanka, vittime del  preciso progetto satanico di spegnere tutti i residui punti di irradiazione della Grazia, me ne dà la certezza.  Christus Vincit

Maurizio Blondet

* tratto dal blog https://www.maurizioblondet.it

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