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LA PAROLINA DEL PRESIDENTE. MATTARELLA E LA LEGGE SULLA LEGITTIMA DIFESA. Di Francesco Mario Agnoli

  Il 26 aprile il presidente della Repubblica ha firmato  la  nuova legge sulla legittima difesa. Per l’esattezza, sulla sottospecie della legittima difesa “domiciliare”, perché la legge riguarda esclusivamente la difesa contro aggressioni all’interno di luoghi destinati ad abitazione, domicilio, privata dimora, attività commerciali, imprenditoriali, professionali. Esultanza del leader della Lega, Matteo Salvini, che forse nutriva qualche timore. Rammarico degli oppositori politici e di molti addetti ai lavori, a cominciare dall’Associazione Nazionale Magistrati, tutti impegnati prima durante e dopo, a scrutare  le pecche, reali o presunte,  della legge.

         Sergio Mattarella ha firmato, ma,  a consolazione dei delusi, ha accompagnato la firma con una lettera  ai presidenti delle Camere e del Consiglio ove spiega che la legge  trova il suo “fondamento costituzionale” nella “esistenza di una condizione di necessità”  e  non indebolisce “la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutele della incolumità e della sicurezza dei cittadini”. Forse  già troppo dal momento che né Costituzione, né prassi  prevedono  missive di spiegazione o, peggio, di giustificazione, ma il presidente  ha voluto  estendere le sue considerazioni ad alcune norme specifiche. Anzitutto per spiegare che il nuovo testo dell’art. 55 del codice penale nella parte in cui esclude la punibilità per eccesso colposo nella legittima difesa quando l’autore si trovi“ in stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto”, evidentemente “presuppone, in senso conforme alla Costituzione, una portata obiettiva  del grave turbamento e che questo sia effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta”. Si tratterebbe, quindi, di una incostituzionalità potenziale, che diverrebbe attuale ove i giudici non si attenessero all’interpretazione loro  suggerita. Autorevole, ma di non facile comprensione, per altro inevitabilmente data la nebulosità dei dubbi di costituzionalità sollevati su questo punto dai critici della legge. Al riguardo va considerato  che molti  paesi europei, la Germania addirittura dal 1871,  ritengono non punibile l’eccesso di reazione “se si è agito per concitazione o paura”, cioè se la non proporzionalità della difesa all’offesa è dovuta  allo stato di agitazione, paura e confusione cagionato dall’aggressione. Riesce, quindi,  difficile  comprendere  perché una norma che valorizza  il “turbamento” quale causa di non punibilità e che ha da gran tempo pieno diritto di cittadinanza in Europa debba essere in Italia addirittura a rischio di anticostituzionalità. Forse perché i cittadini italiani hanno, o sono tenuti ad avere, a differenza dei tedeschi, nervi d’acciaio?  In ogni caso, mentre è ovvio che tanto in Italia quanto in  Germania  i giudici  – se è questo che s’intende col richiamo all’obiettività – debbono accertarne la sussistenza  e la  dipendenza dalla situazione nella quale il soggetto è venuto a trovarsi, nemmeno in Italia  può esistere un turbamento ”oggettivo”, impossibile in natura. Questo, grave o no che sia, ha sempre natura soggettiva  dal momento che le condizioni suscettibili di determinarlo variano secondo il modo in cui le recepiscono mente  e psiche del soggetto coinvolto.

  Più condivisibili e tali che forse nemmeno l’interpretazione  giudiziaria “conforme a Costituzione” potrebbe risolverli, i sospetti d’incostituzionalità di cui  alle ulteriori considerazioni della lettera presidenziale. E’ il caso dell’art. 8 della legge, che pone a carico dello Stato  le spese di giudizio degli imputati ”nei procedimenti penali nei quali venga loro riconosciuta la legittima difesa “domiciliare” (…) mentre analoga previsione non è contemplata per le ipotesi di legittima difesa in luoghi diversi dal domicilio”. Una  differenza di trattamento per casi che potrebbero  essere considerati, se non uguali (il domicilio fa comunque differenza), troppo simili per giustificarla.

  Ancora più grave, per incostituzionalità manifesta e, in certo senso, già dichiarata dal momento che il presidente richiama una sentenza della Corte costituzionale,  il caso dell’art. 3, che subordina al risarcimento del danno la sospensione condizionale della pena al condannato  per furto in appartamento o con strappo, ma non per rapina, così determinando un  trattamento differenziato e irragionevole “poiché – come indicato dalla Corte costituzionale, nella sentenza n. 125 del 2016 – “gli indici di pericolosità che possono ravvisarsi nel furto con strappo si rinvengono, incrementati, anche nella rapina“.

    Comunque, se ne condividano o no contenuti e apprezzamenti, è proprio la lettera è rendere inevitabile la domanda sulle ragioni per cui il presidente, una volta accertata l’esistenza di possibili cause di incostituzionalità e anzi, come si è visto, di almeno un’ipotesi di “incostituzionalità manifesta”, non si è avvalso del potere, espressamente  assegnatogli dalla Costituzione, di rinvio della legge alle Camere per un riesame. Se lo chiedono anche, sul Sole 24 Ore del 29 aprile, Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani, che, pur propensi agli elogi per l’equilibrio  del Capo dello Stato (e alle critiche a chi ha proposto la legge), debbono constatare che “al di là del merito, resta il fatto, raro e non previsto dalle regole sul procedimento legislativo, di una “accompagnatoria” alla promulgazione di una legge, che ne detta l’interpretazione autentica, o meglio ne stigmatizza in anticipo l’esegesi incompatibile con le norme costituzionali”,  così realizzando quella che definiscono  “una obiettiva torsione del sistema: invece di attendere il controllo diffuso della magistratura ed eventualmente della Corte, è lo stesso vertice della Repubblica a individuare i confini di una interpretazione non contrastante con la Carta”.

Francesco Mario Agnoli

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