Il complesso della Loggia e dell’Odeo Cornaro è uno dei luoghi più particolari tra quelli che arricchiscono il patrimonio architettonico padovano. I lavori per la costruzione degli edifici ebbero inizio nel 1524, su progetto dell’architetto veronese Giovanni Maria Falconetto (1468-1534/5?); espressione diretta dell’interesse umanistico per il teatro antico e per gli insegnamenti raccolti da Vitruvio nel De Architectura, la Loggia rappresenta il primo esempio di realizzazione della frons scenae in area veneta, cioè «la scena a portico su base rialzata, scandita da arcate e pilastri compositi, ornata con fregi e chiusa da un fondale». Tra queste mura Angelo Beolco (1496?-1542), detto il Ruzante, ha recitato le sue famose commedie.
Falconetto e Ruzante erano entrambi membri della variegata corte di uomini colti che orbitava attorno al proprietario dell’intero sistema di giardini e di edifici: il veneziano Luigi Cornaro (1484-1566), conosciuto anche come Alvise Corner, scrittore, studioso di idraulica, importante possidente e mecenate. Parlando di sé l’illustre veneto annotò: «Ho speso molte e molte migliaia di scudi in molte honorate fabriche…ho con lo mio giovato alli letterati, alli scultori, alli musici, alli pittori, alli scrittori e simili». Le sue innumerevoli passioni si riflettono anche nel contenuto dei suoi saggi, in cui sono affrontati argomenti molto diversi tra loro.
Uno dei motivi a cui Cornaro deve la sua notorietà è il successo del suo Trattato de la vita sobria, un’opera composta (probabilmente) prima del 1552 e stampata nel 1558.
In questo volumetto lo scrittore presenta innanzitutto un resoconto della sua esperienza di vita: egli racconta di aver deciso di dare una svolta salutare alla sua esistenza verso i quarant’anni, dopo aver superato un periodo di grave infermità dovuto alla sua condotta giovanile. In particolare il letterato vuole mettere in luce la virtù dell’ordine; a suo dire, questo è il solo e vero elisir di lunga vita, poiché «L’ordine insegna le discipline più facilmente. L’ordine rende l’esercito vittorioso, e finalmente l’ordine mantiene le città, le famiglie, e i regni stessi». In realtà l’umanista sviluppa i suoi discorsi mantenendo sempre un tono gentile e misurato, non impone le sue opinioni con rimproveri pesanti e polemici.
All’inizio dell’opera, Cornaro riferisce che in Italia si sono introdotte tre gravi malattie: l’adulazione, il vivere «secondo l’opinion luterana» e la crapula. Questa triade di «mostri crudeli» opprime la vita umana: il primo morbo danneggia i buoni costumi, il secondo la Religione e il terzo la salute. L’autore dichiara quindi di essersi concentrato sull’obiettivo di combattere il terzo problema della sua lista, vale a dire l’ingordigia e i vizi della gola; tuttavia non presenta il suo testo come un libro di medicina. Infatti il rimedio proposto dal veneziano non è un farmaco, bensì una serie di consigli incentrati sul ritorno alla semplicità della natura, la quale insegna a non nutrirsi più del necessario.
L’ideale della vita sobria è improntato sulla moderazione e sull’adozione di un atteggiamento controcorrente rispetto alle consuetudini diffuse tra i benestanti. Il moralista segnala con preoccupazione che il gozzoviglio è ritenuto una pratica quasi normale tra i nobili, mentre, al contrario, la sobrietà è considerata un’abitudine disonorevole e propria degli avari.
Secondo Corner, gli eccessi culinari (e alcolici) accelerano l’invecchiamento e difatti osserva che, a causa della loro dissolutezza, molti uomini appaiono già decrepiti a quarant’anni. Allo stesso modo, ne La brevità della vita, Seneca afferma che nessuna occupazione è più vergognosa della libidine e dell’ubriachezza, ma che gli uomini saggi sono capaci di allungare notevolmente la durata della loro vita evitando di bruciarla con la fiamma del vizio. Oggettivamente le idee condensate nel Trattato de la vita sobria non sono innovative per la sua epoca, la reale novità del saggio risiede invece nel suo stile immediato, che si traduce in un libro breve e di rapida lettura.
Nondimeno alcune frasi contenute nel trattato sembrano quasi profetiche: «O misera e infelice Italia, non te n’avedi che la crapula t’ammazza ogni anno tante persone, che tante non ne potrebbero morire al tempo di gravissime pestilenze, né di ferro o di fuoco in molti fatti d’arme». Meditando su queste parole, nell’introduzione dell’edizione pubblicata da Il Polifilo nel 2004, il celebre narratore Mario Rigoni Stern (1921-2008) riconosce tristemente che esse si potrebbero riportare ai nostri giorni e alle disgrazie causate ogni anno dal consumo di stupefacenti.
Nella sua ricetta della sobrietà, il dotto veneziano non consiglia solo di preparare porzioni modeste, ma anche di studiare attentamente la qualità delle pietanze, ovvero (utilizzando un termine moderno) la loro digeribilità, perciò invita a evitare i condimenti.
L’erudito ammette però che esistono anche alcune fonti di sofferenza da cui è difficile difendersi, ossia i sentimenti negativi, l’odio e la malinconia, che conducono all’indebolimento e all’infermità.
Quando sono posti di fronte ad argomentazioni simili alcuni individui obiettano che, anziché rettificare le proprie cattive inclinazioni, è meglio accontentarsi e vivere dieci anni di meno, ma – prevedendo proprio questo tipo di biasimi – il propugnatore della vita sana sostiene che una decade di sobrietà possa completare il percorso di crescita dell’individuo. Inoltre aggiunge che l’età matura è la più importante, poiché essa mostra quanto l’uomo vale realmente.
Concludendo la sua breve analisi del trattato, Rigoni Stern avanza un’altra critica: l’asiaghese valuta la dissertazione come l’opera di un ricco che si rivolge esclusivamente ai suoi pari e giudica che sarebbe stato assurdo porgere tali suggerimenti ai contadini del Cinquecento, destinati a patire la fame e a vivere nella miseria.
Rileggendo lo scritto però si potrebbe ritenere che i concetti in esso contenuti siano (teoricamente) validi per tutti gli ordini sociali. Per Corner l’abitudine di nutrirsi in modo sbagliato non è diffusa solo tra chi mangia molto, ma anche tra gli umili braccianti e pure a loro raccomanda la «divina sobrietà grata a Dio», che è «benigna custoditrice della vita, tanto del ricco quanto del povero». Ciononostante non si può negare che la nostalgia per la cosiddetta civiltà contadina – che è un sentimento ricollegabile al mito di un idilliaco mondo primitivo – sia un’idealizzazione tipica di coloro che risiedono in città e godono di un certo benessere.
Più ironica è l’osservazione rivolta alla biografia del Cornaro da parte dello storico Giuseppe Gullino, il quale ricorda che, al fine di avvalorare le teorie igieniste che predicava, il veneziano aveva il vezzo di mentire sulla sua data di nascita: «Convinto com’era, infatti, che la natura avesse assegnato all’uomo un’esistenza di 90-100 anni, pensò bene di ritoccare qualche poco la sua».
Trascurando questa curiosa “trovata promozionale”, al trattato va riconosciuto il pregio dello stile aggraziato e lineare, in alcuni tratti aulico, ma sempre libero dalla pedanteria: questo libro è ciò che ai giorni nostri definiremmo una discreta opera di carattere divulgativo.
Riccardo Pasqualin