In un recente scritto, “Il controllo dei flussi migratori clandestini e il contrasto alla criminalità organizzata transnazionale: gli equivoci dogmatici e le sfide ermeneutiche”, pubblicato da Il Diritto vivente, rivista quadrimestrale di Magistratura Indipendente[1], il Consigliere di Cassazione Alessandro Centonze affronta, dal punto di vista giuridico, uno dei più gravi fenomeni del nostro tempo, una delle maggiori fonti di profitto per la criminalità transnazionale: il traffico dei migranti clandestini attraverso il Mediterraneo, dalle coste dell’Africa a quelle dei paesi che costituiscono la frontiera sud dell’Unione europea, in particolare l’Italia. Essenziale per contrastarlo la conoscenza delle modalità di svolgimento dell’attività criminose. Scrive l’A.: “è necessario considerare che nella gestione di tali attività – di cui lo sbarco sul territorio dello Stato italiano costituisce la fase terminale di una più complessa attività accuratamente pianificata – risultano generalmente coinvolti natanti provenienti dai Paesi dell’area africana settentrionale, che, mentre attraversano le acque extraterritoriali del Mar Mediterraneo, vengono affiancati da imbarcazioni più piccole, senza bandiera, cui viene rimessa la realizzazione dell’obiettivo ultimo, non prima che venga operato il trasbordo dei migranti e venga lanciata la richiesta di soccorso marittimo, giustificata dall’inadeguatezza del mezzo nautico e dalle condizioni del mare”. Altre volte può accadere che per il trasporto si utilizzino natanti di modeste dimensioni condotti da soggetti direttamente collegati alle organizzazioni transnazionali che si occupano della pianificazione di questi traffici. “Anche in questo caso, i soggetti preposti alla guida dell’imbarcazione, dopo l’allontanamento del natante dalle coste nordafricane, lanciano una richiesta di soccorso marittimo, giustificata dall’estrema perigliosità della navigazione”.
Questi modus operandi sono frutto di accurata programmazione criminosa, volta a preservare, con esponenziale aumento del rischio per gli immigrati trasportati, il natante e il suo equipaggio “da possibili attività di captazione investigativa da parte delle forze di pattugliamento marittimo del nostro Paese, tenendoli al riparo dall’esercizio della giurisdizione italiana”. Giurisdizione in realtà sussistente in caso di approdo in Italia, perché locus commissi delicti “non è tanto il tratto di mare in cui è avvenuto il soccorso marittimo del natante, quanto, piuttosto, la località dove la nave soccorritrice ha fatto sbarcare i migranti”. Qui, difatti, si perfeziona l’evento delittuoso anche se il salvataggio sia avvenuto in acque extraterritoriali ad opera degli equipaggi di navi appartenenti o alle marinerie nazionali o ad organizzazioni non governative (ONG), quindi da soggetti estranei all’organizzazione criminale, che ha operato in modo da produrre una situazione di necessità, finalizzata a stimolare operazioni che consentano l’approdo sul territorio italiano e il raggiungimento degli obiettivi illeciti perseguiti. Operazioni che “non possono essere considerate isolatamente rispetto alla condotta illecita pregressa, che volutamente determina lo stato di necessità, proprio perché si tratta di una condizione di pericolo causata volontariamente dagli organizzatori del trasporto, che si collega alla scelta di abbandonare in mare uomini in attesa dei soccorsi, imposti dalla Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay”. In altri termini “l’ultimo tratto del trasporto marittimo rappresenta un passaggio pianificato di una concatenazione unitaria di condotte che non può essere interrotta, perché il soccorso in mare non è un fatto imprevedibile, che possa interrompere la serialità causale, ma una circostanza non solo prevista dalla consorteria transnazionale ma addirittura provocata”.
Descritta così la situazione, l’A. fa un rapido cenno alla posizione giuridica dei soggetti che col salvataggio in mare, sia extra- che territoriale, si inseriscono nella “concatenazione unitaria di condotte”. “L’azione dei soccorritori, che consente ai migranti di giungere nel nostro territorio –scrive– è riconducibile alla figura dell’autore mediato di cui all’art. 48 c.p., conseguente allo stato di necessità provocato e strumentalizzato dagli scafisti”. In effetti, questi soggetti, utilizzati per la commissione del reato, risultano, quanto meno potenzialmente, non punibili in quanto coperti, appunto, dalla discriminante dello stato di necessità (art. 55 c.p.), alla quale si può aggiungere l’adempimento di un dovere di cui all’art. 51. Tuttavia, dal momento che col trasporto marittimo dei migranti dal luogo di salvataggio a quello di sbarco, viene da loro portata compimento la parte finale della concatenazione di condotte predisposta dalla consorteria criminale, si potrebbe configurare la diversa ipotesi del concorso esterno in associazione criminosa. In particolare a carico delle ONG e relativi equipaggi, che, a differenza di quelli delle navi casualmente sul posto e della Guardia costiera, battono i tratti di mare interessati proprio al dichiarato scopo di effettuare questo trasporto marittimo, sia pure per l’ulteriore fine di prestare soccorso.
Come noto, l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico del reato di “concorso esterno” è contestata da chi lo ritiene di creazione giurisprudenziale in violazione del principio “nulla pena sine proevia lege” e, implicitamente, dalla sentenza CEDU del 14/4/2015 (caso Contrada c. Italia), che l’ha sì “legittimato”, ma solo con decorrenza dalla “sentenza Demitry” (Sezioni Unite 5/10/1994 n. 16), in quanto in precedenza non sufficientemente precisata nei suoi elementi costitutivi (va dato atto che la Cassazione da sempre contesta la tesi CEDU – da ultimo Cass. 12/1/2018 n.8661, Cass. 12/6/20183 n. 36509, Cass. 3/10/2018 n. 55894 -).
La componente oggettiva del reato si concretizza in una condotta suscettibile di contribuire alla realizzazione degli scopi della societas sceleris. Al riguardo, dopo qualche iniziale incertezza, si ritiene non sufficiente che la condotta del concorrente risulti, in via di previsione ex ante, idonea a favorire la realizzazione del fatto reato, ma occorre che, con una valutazione ex post, si accerti che abbia effettivamente concorso a realizzarlo (Cass. Sez. Unite 12/7/2005 n. 33748, sentenza Mannino).
In realtà la condotta del concorrente esterno (extraneus) non presenta nella sua materialità particolari elementi distintivi da quella del partecipe (intraneus) al sodalizio criminale, ricorrenti invece nell’elemento psicologico, come da Cass. 30/05/2017 n, 31541: “Il reato di partecipazione mafiosa si distingue dal concorso esterno in quanto nel primo caso il soggetto vuole fornire il suo contributo all’interno dell’associazione, mentre nel concorso esterno il soggetto intende prestare il suo apporto senza far parte della compagine associativa”. Cass. 13/4/2016 n. 18132 specifica il contenuto di questa volontà: “ai fini della configurabilità del dolo diretto occorre che l’agente, pur in assenza dell’ “affectio societatis” cioè della volontà di far parte dell’associazione, sia consapevole dei metodi e dei fini della stessa nonché dell’efficacia causale della propria attività di sostegno per la conservazione o il rafforzamento della struttura organizzativa, essendo a tal fine sufficiente che egli abbia previsto ed accettato tale effetto come risultato non solo possibile, bensì certo, o comunque altamente probabile, della propria condotta”
Più rigorosa, in quanto ritiene insufficiente una valutazione di probabilità dell’effetto della propria condotta, pretendendo invece la certezza, Cass. 23/2/2018 n. 26589, per la quale occorre che il soggetto abbia agito “con la volontà di fornire un apporto per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio, dovendo escludersi la sufficienza del dolo eventuale inteso come mera accettazione da parte del concorrente del rischio del verificarsi, insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti, dell’evento, ritenuto invece solamente probabile o possibile”.
Oltre alla differenza fra intraneus ed extraneus se ne ricava che l’elemento psicologico richiesto dal concorso esterno è il dolo diretto, con esclusione di quello eventuale. Non basta cioè che il concorrente abbia consapevolezza che altri (gli associati criminosi) agiscano con la volontà di realizzare il crimine, come lasciava intendere la citata sentenza Demitry, ma occorre che, “pur estraneo all’associazione della quale non intende far parte, apporti un contributo che “sa” e “vuole” sia diretto alla realizzazione, magari anche parziale, del programma criminoso del sodalizio” ( Sez. Un. Cass. 30/10/2002 n. 22327, sentenza Carnevale).
Rapportando quanto fin qui detto alle ONG, nel loro operato è certamente ravvisabile l’elemento oggettivo del reato: il trasporto marittimo dei migranti fino al porto di sbarco europeo, quindi l’attuazione della parte finale del progetto criminoso. Potrebbe sembrare presente anche l’elemento psicologico, in quanto i soccorritori, pur se agiscono per una loro diversa finalità, non solo vogliono completare il trasporto marittimo e sbarcare i migranti sulla costa europea, ma sanno che non si tratta di fatto isolato, ma di episodio di un più vasto programma, che in tal modo concorrono a realizzare e rafforzare.
Tuttavia dall’esame della giurisprudenza di legittimità sembra emergere la necessità di un dolo diretto per così dire particolarmente qualificato in quanto, pur esclusa la volontà di farne parte, presuppone una qualche previa forma di accordo, quali che ne siano le modalità di esplicazione (al limite tacite e sottintese), fra organizzazione e concorrente esterno. I tal senso sono le decisioni in materia (in particolare le più recenti). Cass. 5/6/2018 n. 30133 richiede che l’imprenditore “colluso” instauri con la cosca un rapporto di reciproci vantaggi (nello stesso senso ex multis Cass. n.ri 30348/2013 e 39042/2008). Ugualmente sussiste il reato nell’ipotesi di un patto di scambio”in forza del quale un uomo politico, non partecipe del sodalizio criminale si impegna, a fronte dell’appoggio richiesto all’associazione mafiosa in vista di una competizione elettorale, a favorire gli interessi del gruppo nei futuri rapporti con l’Amministrazione” (Cass. 12/10/2017 n. 56088, nello stesso senso, ex multis, Cass. 4/2/2005 n. 11613).
In conclusione, se non si prova l’esistenza di un pur sommario accordo, di un reciproco impegno l’operato delle ONG le colloca nella figura dell’autore mediato, rendendole non punibili per le ricordate scriminanti. Nel caso poi si ipotizzi un loro errore determinato da colpa sul fatto costituente reato la punibilità sarebbe ugualmente esclusa trattandosi di reato doloso (art. 47 cp.).
Francesco Mario Agnoli
- Il controllo dei flussi migratori clandestini e il contrasto alla criminalità organizzata transnazionale: un binomio inscindibile. – 2. Le fattispecie collegate al controllo dei flussi migratori clandestini e il problema del riconoscimento della giurisdizione italiana. – 3. Il ruolo della criminalità organizzata transnazionale nel controllo dei flussi migratori clandestini: una consapevolezza solo in parte avvertita dalla giurisprudenza nostrana. – 4. L’inquadramento delle fattispecie collegate al controllo dei fenomeni migratori clandestini e gli sforzi di armonizzazione sistematica compiuti dalla giurisprudenza di legittimità. – 5. La dimensione transnazionale del problema del controllo dei flussi migratori clandestini e la necessità di adeguare gli strumenti repressivi attraverso l’elaborazione di politiche criminali “sinergiche”.
- Il controllo dei flussi migratori clandestini e il contrasto alla criminalità organizzata transnazionale: un binomio inscindibile. Il controllo dei flussi migratori illegali da parte della criminalità organizzata transnazionale rappresenta un fenomeno criminale tipico di questo ventennio, anche se non se ne può affermare la sua assoluta novità per il nostro Paese[1]. Non v’è dubbio, però, che si tratta di un fenomeno complesso, caratterizzato da aspetti di originalità, sotto il profilo degli interessi che ne rappresentano il sostrato criminale e che hanno determinato l’implosione degli strumenti di contrasto tradizionale, collegati al d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286. Nell’ultimo decennio, infatti, si assiste a un flusso migratorio illegale inarrestabile tra alcuni Paesi del continente africano e gli Stati dell’Europa occidentale meridionale. In questo modo, il territorio italiano è stato investito da continue ondate migratorie, che hanno avuto inizio un ventennio addietro e si sono intensificate con i moti politici verificatisi nell’area nordafricana in conseguenza dell’esplosione della “Primavera araba”. Le cause che hanno alimentato questi flussi migratori clandestini sono la conseguenza di una pluralità di fattori eterogenei, tra i quali, a scopo semplificativo, si possono citare: la globalizzazione dei processi di produzione industriale; il divario economico determinatosi tra i Paesi occidentali industrializzati e quelli sotto-sviluppati; il clima di perenne instabilità politica e istituzionale che caratterizza i Paesi nordafricani in conseguenza della “Primavera araba”; lo stato di conflittualità religiosa verificatosi nell’area mediorientale collegata alla disgregazione della Siria e all’emergere dell’Isis che, com’è noto, è l’acronimo con cui viene chiamato l’autoproclamatosi Islamic State of Iraq and Syria[2]. A tali fattori, se ne aggiungono altri, che sono correlati a quelli appena esaminati, ma che si presentano con connotazioni geo-politiche distinte. Tra questi, si richiamano la crescita demografica delle nazioni dell’Africa subsahariana, che deve essere correlata allo stato di perenne conflittualità bellica che soffoca tali aree geografiche; la disomogeneità etnica che connota numerosi Paesi del Terzo mondo; l’impossibilità di alimentare un circuito economico virtuoso delle nazioni più povere del pianeta, prevalentemente appartenenti al continente africano. In questo contesto geo-politico, il territorio italiano è risultato esposto a flussi migratori clandestini difficilmente controllabili per la pluralità delle concomitanti ragioni che si sono evidenziate. Tale esposizione, del resto, è anche la conseguenza delle peculiarità geografiche del nostro territorio, che rappresenta la zona privilegiata di accesso dell’area nordafricana e, unitamente alle frontiere greche e spagnole, il limes meridionale del continente europeo[3]. I rivolgimenti epocali descritti hanno determinato la necessità di fronteggiare con strumenti normativi di carattere emergenziale le ondate migratorie che hanno investito il nostro Paese, provocando al contempo un abbassamento dei limiti di tolleranza sociale della popolazione italiana rispetto alla popolazione straniera immigrata. L’abbassamento dei limiti di tolleranza sociale è la conseguenza dei problemi di ordine pubblico e di sicurezza delle aree urbane, che si associano, in tutti i Paesi europei, ai fenomeni geo-politici sottesi ai flussi migratori clandestini che hanno investito nel corso dell’ultimo ventennio le nostre coste.
- Le fattispecie collegate al controllo dei flussi migratori clandestini e il problema del riconoscimento della giurisdizione italiana. Nella cornice descritta nel paragrafo precedente, il primo problema che ci si trova ad affrontare è quello del riconoscimento della giurisdizione italiana nelle ipotesi in cui il trasporto dei migranti avviene attraverso le rotte marittime, che, nel corso degli anni, ha rappresentato il modus operandi attraverso cui si concretizzano i traffici internazionali di persone in esame. Occorre anzitutto precisare che per inquadrare giuridicamente la concatenazione delle condotte illecite attraverso cui i traffici internazionali di persone si concretizzano è necessario considerare che nella gestione di tali attività – di cui lo sbarco sul territorio dello Stato italiano costituisce la fase terminale di una più complessa attività accuratamente pianificata – risultano generalmente coinvolti natanti provenienti dai Paesi dell’area africana settentrionale, che, mentre attraversano le acque extraterritoriali del Mar Mediterraneo, vengono affiancati da imbarcazioni più piccole, senza bandiera, cui viene rimessa la realizzazione dell’obiettivo ultimo, non prima che venga operato il trasbordo dei migranti e venga lanciata la richiesta di soccorso marittimo, giustificata dall’inadeguatezza del mezzo nautico e dalle condizioni del mare. Può anche verificarsi l’ipotesi che il trasporto marittimo dei migranti abbia luogo a bordo di natanti di modeste dimensioni, che vengono condotti lungo le rotte mediterranee da soggetti direttamente collegati alle organizzazioni transnazionali che si occupano della pianificazione dei traffici internazionali di persone che si stanno considerando. Anche in questo caso, i soggetti preposti alla guida dell’imbarcazione, dopo l’allontanamento del natante dalle coste nordafricane, lanciano una richiesta di soccorso marittimo, giustificata dall’estrema perigliosità della navigazione. Tale modus operandi, dunque, è il frutto di un’accurata programmazione criminosa, volta a preservare il natante utilizzato e il suo equipaggio – la cui composizione varia a seconda del numero dei migranti trasportati e del mezzo di navigazione utilizzato – da possibili attività di captazione investigativa da parte delle forze di pattugliamento marittimo del nostro Paese, tenendoli al riparo dall’esercizio della giurisdizione italiana; condizioni, queste, che determinano un aumento esponenziale del rischio fatto correre agli immigrati clandestini trasportati. In questo contesto, l’ultimo tratto del trasporto marittimo rappresenta un passaggio pianificato di una concatenazione unitaria di condotte che non può essere interrotta, perché il soccorso in mare non è un fatto imprevedibile, che possa interrompere la serialità causale, ma una circostanza non solo prevista dalla consorteria transnazionale ma addirittura provocata. In buona sostanza, come anche gli ultimi accadimenti balzati agli onori della cronaca hanno consentito di accertare, l’azione di abbandono in acque extraterritoriali dei migranti è destinata a produrre una situazione di necessità, finalizzata a stimolare le operazioni di salvataggio marittimo – poste in essere da navi appartenenti alle marinerie nazionali ovvero alle organizzazioni non governative (ONG) presenti nelle acque extraterritoriali – che consentano l’approdo sul territorio italiano degli immigrati clandestini e il raggiungimento degli obiettivi illeciti perseguiti dalle consorterie transnazionali. Ne consegue che, ai fini dell’individuazione del luogo di commissione del reato, quello che assume rilievo non è tanto il tratto di mare in cui è avvenuto il soccorso marittimo del natante, quanto, piuttosto, la località dove la nave soccorritrice ha fatto sbarcare i migranti[4]. Ne discende che le operazioni di salvataggio marittimo dei migranti non possono essere considerate isolatamente rispetto alla condotta illecita pregressa, che volutamente determina lo stato di necessità, proprio perché si tratta di una condizione di pericolo causata volontariamente dagli organizzatori del trasporto, che si collega alla scelta di abbandonare in mare uomini in attesa dei soccorsi, imposti dalla Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay[5], nella ragionevole speranza che siano condotti sulle coste italiane sotto la protezione dell’intervento soccorritore. Tali conclusioni discendono dalla previsione dell’art. 98, par. 1, della Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay, che prevede: «Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa; c) presti soccorso, in caso di abbordo, all’altra nave, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri e, quando è possibile, comunichi all’altra nave il nome della propria e il porto presso cui essa è immatricolata, e qual è il porto più vicino presso cui farà scalo». Ne discende che la giurisdizione italiana deve essere riconosciuta, laddove in ipotesi di traffico di migranti dalle coste africane a quelle nostrane, questi siano abbandonati in mare in acque extraterritoriali su natanti del tutto inadeguati, allo scopo di provocare l’intervento del soccorso in mare e consentire che i trasportati siano accompagnati nel tratto di acque territoriali dalle navi dei soccorritori, operanti sotto la copertura della scriminate dello stato di necessità. In questi casi, infatti, il grave pericolo corso dai migranti è direttamente riconducibile ai trafficanti che l’hanno provocato e si collega al segmento della condotta commessa in acque extraterritoriali, ricadendo nella previsione dell’art. 6 c.p.[6] Ne deriva ulteriormente che l’azione dei soccorritori, che consente ai migranti di giungere nel nostro territorio, è riconducibile alla figura dell’autore mediato di cui all’art. 48 c.p., conseguente allo stato di necessità provocato e strumentalizzato dagli scafisti, che è sanzionabile nel nostro Stato, ancorché i trafficanti ovvero i soggetti che vi sono collegati abbiano operato materialmente in un ambito extraterritoriale, risultando determinante ai fini dell’individuazione del locus commissi delicti, rilevante ai sensi dell’art. 6, comma secondo, c.p., la località dove gli immigrati clandestini vengono fatti sbarcare dalla nave soccorritrice. Sul punto, è opportuno richiamare conclusivamente la giurisprudenza di legittimità, secondo cui: «Sussiste la giurisdizione del giudice italiano relativamente al delitto di procurato ingresso illegale nel territorio dello Stato di cittadini extra-comunitari nella ipotesi in cui i migranti, provenienti dall’estero a bordo di navi “madre”, siano abbandonati in acque internazionali, su natanti inadeguati a raggiungere le coste italiane, allo scopo di provocare l’intervento dei soccorritori che li condurranno in territorio italiano, poiché la condotta di questi ultimi, che operano sotto la copertura della scriminante dello stato di necessità, è riconducibile alla figura dell’autore mediato di cui all’art. 48 cod. pen., in quanto conseguente allo stato di pericolo volutamente provocato dai trafficanti, e si lega senza soluzione di continuità alle azioni poste in essere in ambito extraterritoriale»[7]. 3. Il ruolo della criminalità organizzata transnazionale nel controllo dei flussi migratori clandestini: una consapevolezza solo in parte avvertita dalla giurisprudenza nostrana. Chiarite le ragioni giuridiche che impongono di riconoscere la giurisdizione italiana nelle ipotesi di sbarchi clandestini sulle coste italiane e ribadita l’inscindibilità del rapporto tra criminalità organizzata transnazionale e flussi migratori illegali, si ritiene utile formulare qualche precisazione sulle caratteris
tiche strutturali delle consorterie che controllano l’immigrazione clandestina. Occorre anzitutto partire dalla consapevolezza che l’immigrazione clandestina rappresenta il momento terminale di un fenomeno più complesso che riguarda la sfera di operatività delle organizzazioni transnazionali che la controllano, sfruttando le condizioni di disagio, variamente rilevanti, che condizionano vaste aree del pianeta. Come osservato da Vincenzo Militello, il controllo dei flussi migratori clandestini è «una delle forme di manifestazione più tipiche della criminalità contemporanea, per il suo essere […] una criminalità del profitto, una criminalità di genere, una criminalità organizzata transnazionale»[8]. Non si può, pertanto, che prendere atto della molteplicità delle attività illecite attraverso le quali si concretizza il controllo dell’immigrazione clandestina da parte delle consorterie transnazionali. Infatti, la forza criminale e il potere di controllo delle rotte internazionali rappresentano il presupposto illecito e il modello organizzativo indispensabile per la comprensione di questo fenomeno, nell’analizzare il quale occorre tenere presente che le attività delittuose attraverso cui si sostanziano tali traffici sono gestite da gruppi criminali transnazionali – operanti secondo il modello normativo prefigurato dall’art. 3 della Convenzione delle Nazioni Unite contro il Crimine organizzato transnazionale sottoscritta a Palermo il 15 dicembre 2000, così come ratificata dalla legge 16 marzo 2006, n. 146[9] – che seguono tutte le fasi del trasporto e del trasferimento illegale degli immigrati stranieri. Nel nostro caso, dunque, è necessario parlare di fenomeni criminali organizzati da valutare come un complesso di fatti e accadimenti considerati nel loro divenire e nella loro dimensione transnazionali, rispetto ai quali i parametri generalmente seguiti dalla giurisprudenza nostrana si rivelano insufficienti. La dimostrazione di quanto si sta affermando ci proviene dal fatto che, a fronte del ruolo determinante che la criminalità organizzata transnazionale assume nella gestione dei flussi migratori clandestini, sostanzialmente isolati appaiono gli interventi giurisprudenziali dedicati a questo tema, essendosi le verifiche giurisdizionali sul fenomeno in esame essenzialmente concentratesi sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, tipizzato dall’art. 12 della legge n. 286 del 1998, che rappresenta la parte terminale di un più ampio e complesso fenomeno[10]. La comprensione del ruolo della criminalità transnazionale nella gestione dei flussi migratori clandestini consente di superare la visione frammentaria che spesso la giurisprudenza ha avuto del fenomeno delinquenziale in esame, permettendo di inquadrare correttamente quel complesso di attività delittuose che sono riconducibili alla tratta di persone, che è finalizzata allo sfruttamento economico degli immigrati stranieri trasferiti clandestinamente e alla loro preordinata destinazione a un mercato criminale dello Stato d’ingresso, nei termini tipizzati dall’art. 601 c.p.[11] Al contempo, il riconoscimento della centralità del ruolo della criminalità organizzata transnazionale consente di inquadrare in termini più aderenti alle sue dinamiche il complesso di attività delittuose riconducibili al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, che è finalizzato all’introduzione dei migranti nel territorio di uno Stato straniero, senza che assuma rilievo, ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998, il loro eventuale inserimento in uno mercato illecito e la prospettiva di uno sfruttamento economico[12]. Né sono possibili soluzioni ermeneutiche alternative, atteso che le due fattispecie sono state definitivamente consacrate sul piano internazionale dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro il Crimine organizzato transnazionale[13], che ha dedicato a ciascuna di tali figure criminose un’apposita disciplina. Ne discende che solo attraverso la comprensione delle dinamiche di questo fenomeno criminale possiamo affrontare tutte le questioni collegate all’esplosione dell’immigrazione clandestina nel nostro Paese, superando quella visione frammentaria che spesso ha caratterizzato l’approccio giurisprudenziale. Si consideri che le organizzazioni criminali transnazionali sfruttano la condizione di sottomissione degli immigrati clandestini per impiegarla nei loro mercati illegali di riferimento, sia che l’attività delle consorteria si concretizzi nel semplice trasporto del migrante sia che tali condotte mirino a uno sfruttamento illecito ulteriore rispetto a quello prefigurato dall’art. 12 del d.lgs. n. 298 del 1998, dando origine a un’ipotesi di tratta di persone rilevante ex art. 601 c.p. Si tratta, pertanto, di forme di sfruttamento illecito multiformi, che hanno come obiettivo quello di comprimere gli spazi di libertà personale dell’immigrato clandestino, asservendolo agli interessi della consorteria che lo gestisce, in un’ottica di perseguimento di profitti illeciti, rispetto ai quali rimangono estranei i migranti, che rappresentano solo l’oggetto di un commercio illecito, diretto o indiretto che sia[14]. Le considerazioni esposte impongono di ribadire il ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nella gestione dei flussi migratori illegali, nell’ambito della quale deve essere inquadrata l’esplosione dell’immigrazione illegale nel nostro Paese, che si inserisce in un più ampio contesto, rappresentato dal controllo dell’immigrazione clandestina nel continente europeo. Il riconoscimento di questo ruolo costituisce la concretizzazione di un percorso ermeneutico recente, che, sul piano giudiziario, solo da qualche anno, si è riusciti a elaborare, sia pure nei termini frammentari che si sono richiamati[15]. Ne deriva ulteriormente che il riferimento alle fattispecie del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e della tratta di persone deve essere inteso in un’ampia accezione, puntando a rappresentare tutte le attività delittuose attraverso le quali si concretizza, nel nostro Paese, il controllo dei flussi migratori illegali da parte della criminalità organizzata transnazionale. In questi termini, occorre affermare l’esistenza di un rapporto diretto tra il dilagare dell’immigrazione illegale sul territorio italiano e il controllo dei flussi migratori clandestini da parte delle consorterie transnazionali. Solo su queste basi, dunque, è possibile comprendere il ruolo marginale e comunque passivo degli immigrati clandestini, che di tali traffici sono le vittime, mantenendosi estranei a ogni profilo organizzativo. Occorre, pertanto, ribadire che, per la comprensione delle dinamiche e delle relazioni funzionali collegate all’esplosione del fenomeno migratorio illegale, risulta determinante l’analisi degli interessi delle organizzazioni criminali transnazionali che lo gestiscono sul nostro territorio. Al contempo, deve essere chiara l’inscindibilità delle due fattispecie sopra richiamate, che rappresentano due aspetti diversi ma complementari di un fenomeno criminale omogeneo di matrice extranazionale, il cui elemento unificante è rappresentato dal ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale[16]. 4. L’inquadramento delle fattispecie collegate al controllo dei fenomeni migratori clandestini e gli sforzi di armonizzazione sistematica compiuti dalla giurisprudenza di legittimità. A questo punto della disamina è opportuno introdurre qualche precisazione per comprendere i punti di riferimento ermeneutico del percorso analitico che si sta sviluppando. Tali puntualizzazioni si rendono necessarie perché l’assenza di interventi normativi organici sui rapporti tra flussi migratori clandestini e criminalità organizzata transnazionale impone una ricognizione preliminare sulle scelte sistematiche seguite dalla giurisprudenza di legittimità, che si è occupata di tali fenomeni soprattutto con riferimento all’aggravante della transnazionalità del reato prevista dall’art. 4 della legge 16 marzo 2006, n. 146[17]. Tenuto co
nto di quanto affermato nei paragrafi precedenti, occorre ribadire che l’inscindibilità del rapporto tra criminalità organizzata transnazionale e flussi migratori clandestini comporta che in tale ambito illecito siano ricomprese tutte le attività delittuose, che presuppongono una gestione coordinata delle operazioni di trasferimento illegale dei migranti e si fondano sul loro sfruttamento, diretto o indiretto. In questo contesto, devono essere comprese due differenti fattispecie: il “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina” e la “tratta di persone”. Ne discende che nel contesto che si sta considerando devono essere compresi sia la “tratta di persone”, che è un’ipotesi delittuosa finalizzata allo sfruttamento di soggetti che sono stati trasportati illegalmente sul territorio di uno Stato straniero, definita convenzionalmente trafficking of human beings, che è direttamente collegata alla sfera di operatività di un’organizzazione criminale; sia il “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, che è un’ipotesi delittuosa finalizzata all’introduzione nel territorio di uno Stato straniero di uno o più immigrati clandestini, che è definito convenzionalmente smuggling of migrants, che presuppone il coinvolgimento indiretto di una consorteria transnazionale, la cui presenza, tuttavia, non rileva ai fini della configurazione delle varie figure di reato previste dall’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998[18]. D’altra parte, l’approvazione delle misure contro la “tratta di persone”, conseguente all’entrata in vigore della legge 11 agosto 2003 n. 228, così come novellata dal d.lgs. 4 marzo 2014, n. 24, ha reso questa differenziazione l’unica conforme all’assetto normativo previsto dal legislatore italiano per contrastare i fenomeni criminali collegati ai flussi migratori clandestini. Infatti, la riforma delle disposizioni degli artt. 601, 602 e 416 c.p. da parte della legge n. 228 del 2003 chiarisce quale sia l’assetto normativo del contrasto a questo fenomeno, che, da una parte, è sanzionato dalle fattispecie relative al “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, riconducibili all’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998; dall’altro, è sanzionato dalle fattispecie di reato, monosoggettive e associative, previste dagli artt. 601, 602 e 416, comma sesto, c.p., così come novellate dalla legge n. 228 del 2003 e ulteriormente integrate dal d.lgs. n. 24 del 2014. Più in generale, fermo restando che nel prosieguo di questo intervento si avrà modo di precisare il contesto illecito al quale di volta in volta si intende fare riferimento, deve osservarsi che con le fattispecie di reato finalizzate a contrastare il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, previste dall’art. 12 del d.lgs. n. 286 del 1998, si indicano quelle attività delittuose attraverso cui si consente l’ingresso illegale di una o più persone in uno Stato straniero di cui i soggetti trasportati non sono cittadini o residenti, la cui punibilità è subordinata alla circostanza che il fatto che si persegue «non costituisca più grave reato […]». La clausola di riserva prevista dall’art. 12, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, a sua volta, presuppone «che il reato più grave sia posto a tutela del medesimo bene-interesse tutelato dal reato meno grave che deve essere assorbito […]»[19]. In questo ambito, vengono in rilievo tutte quelle attività illecite gestite – sia in forma mono-soggettiva sia in forma pluri-soggettiva – che sono strumentali al trasporto e all’ingresso illegale degli immigrati in uno Stato straniero. Di conseguenza, le fattispecie in esame si incentrano sulla condotta di trasferimento, gestita sia in forma individuale sia in forma collettiva, funzionale all’introduzione illegale di cittadini stranieri nel territorio di uno Stato[20]. Invece, le fattispecie collegate alla tratta di persone – eminentemente riconducibili agli artt. 601, 602 e 416, comma sesto, c.p. – appaiono finalizzate a reprimere quelle attività delittuose consistenti nell’offerta iniziale di servizi illegali e nel successivo reclutamento, tramite l’impiego della forza fisica o di altre forme di coercizione morale, di immigrati clandestini in funzione del loro sfruttamento per scopi criminali. Tali fattispecie, dunque, si incentrano sulle condotte di sfruttamento del migrante, che ne presuppongono il trasferimento nello Stato straniero e la sua immissione in un mercato illecito. In queste ipotesi, l’attività illecita di sfruttamento soggettivo tende a consentire l’impiego coattivo degli immigrati clandestini in alcuni mercati illegali dello Stato di destinazione. Si tratta, pertanto, di forme di asservimento realizzate attraverso comportamenti che limitano la libertà personale dell’immigrato per il conseguimento di profitti, rispetto ai quali rimangono estranei i migranti[21]. La conferma di quanto si sta affermando si trae dal fatto che, ai fini della configurabilità della tratta di persone di cui all’art. 601 c.p., non è richiesto che il soggetto passivo si trovi in condizione analoga a quella della schiavitù, atteso che, secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, il delitto in questione «si ravvisa anche se una persona libera sia condotta con inganno in Italia, al fine di porla nel nostro territorio in condizione analoga alla schiavitù; il reato di tratta può essere, infatti, commesso anche con induzione mediante inganno in alternativa alla costrizione con violenza o minaccia»[22]. La tratta di persone, del resto, si fonda su relazioni interpersonali fondate sulla coartazione, che la caratterizzano come una “moderna forma di schiavitù”[23], rispetto alla quale occorre tenere presente che l’abolizione generalizzata della condizione di schiavitù come stato giuridico della persona non impedisce che, sotto il profilo della tutela dei beni giuridici, la situazione soggettiva della vittima «possa essere costruita su un’analogia con la schiavitù»[24]. La distinzione tra le due fattispecie postula un’ulteriore precisazione, collegata ai rapporti tra le ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e quelle collegate alla tratta di persone, in relazione alle quali ultime non è applicabile la clausola di riserva prevista dall’art. 12, comma 1, d.lgs. n. 286 del 1998, essendo diverso il bene giuridico tutelato dalle norme in questione, in quanto le prime sono poste a tutela dell’ordine pubblico, mentre le seconde mirano a garantire la libertà della persona. Basti, in proposito, richiamare la giurisprudenza di legittimità consolidata, secondo cui: «Il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, previsto dall’art. 12, comma primo, d.lgs. n. 286 del 1998, non è assorbito dai più gravi delitti di tratta di persone o di riduzione in schiavitù, essendo diverso il bene giuridico tutelato dalle norme, in quanto la prima è a presidio dell’ordine pubblico, mentre le altre della libertà della persona»[25]. In questa cornice, occorre ribadire ulteriormente che la distinzione tra le due fattispecie trae il suo fondamento dall’adozione dei due protocolli addizionali della Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, già citata, con cui si è affermata la necessità di un’azione di contrasto alla criminalità organizzata fondata su una disciplina armonica sul piano del diritto internazionale e della cooperazione giudiziaria. Si tratta di un documento di eccezionale importanza per il diritto internazionale, che ha posto le basi per una visione comune dei problemi collegati alla sfera di operatività delle consorterie transnazionali. La Convenzione di Palermo ha dedicato ampio spazio ai fenomeni criminali del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e della tratta di persone, che sono stati efficacemente differenziati sia sotto l’aspetto normativo sia sotto l’aspetto criminologico, con l’accoglimento delle definizioni, convenzionalmente accettate, di smuggling of migrants[26] e di trafficking of human beings[27]. Sono stati, infatti, dedicati il secondo e i
l terzo protocollo addizionale del testo convenzionale palermitano per disciplinare i due fenomeni criminali, che per la prima volta sono stati definiti in un ambito convenzionale largamente condiviso. Tali conclusioni, naturalmente, non si muovono in una direzione diversa rispetto a quella che abbiamo affermato a proposito della complessa linea di demarcazione che separa la fattispecie del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina da quelle collegata alla tratta di persone, che non sempre risulta di agevole individuazione sulla base dei dati che ci provengono dall’esperienza giudiziaria che si sono richiamati. Si è detto, del resto che non esiste alcuna certezza che nei casi in cui i migranti dispongono di un capitale proprio al momento del loro ingresso sul territorio italiano siano per ciò solo immuni dalla possibilità di diventare l’oggetto di una tratta di persone. Ne consegue che se si assume come punto di riferimento dell’accertamento la figura dell’immigrato clandestino nella sua veste di persona offesa non sempre è possibile quale sia la sua posizione di soggetto passivo del reato[28]. - La dimensione transnazionale del problema del controllo dei flussi migratori clandestini e la necessità di adeguare gli strumenti repressivi attraverso l’elaborazione di politiche criminali “sinergiche”. Alla stregua di quanto si è affermato nei paragrafi precedenti si può ritenere un dato consolidato dell’esperienza giurisprudenziale nostrana quello secondo cui il controllo dei flussi migratori clandestini da parte delle organizzazioni criminali transnazionali non può che essere valutato in una prospettiva sistematica unitaria. Tale prospettiva ermeneutica si rende necessaria in ragione del fatto che questo fenomeno criminale si presenta con caratteristiche di omogeneità, che impongono l’adozione di modelli di analisi della responsabilità penale che tengano conto della dimensione organizzativa delle consorterie di riferimento e degli interessi che ne rappresentano il sostrato delinquenziale. Non è, del resto, dubitabile che i flussi migratori clandestini che investono da un ventennio il nostro Paese devono essere analizzati in una prospettiva multi-statuale che prescinde dal territorio delle singole nazioni investite da questo fenomeno criminale. Un’attività illecita di queste dimensioni e con queste caratteristiche transnazionali si traduce nella costituzione di un enorme mercato illecito, che comporta la gestione di somme di denaro ingenti e l’utilizzazione di forze criminali in grado di coordinare una rete che si manifesta nei territori di diversi Paesi, non sempre direttamente coinvolti dall’ingresso illegale dei migranti sul loro territorio. Tutto questo, inoltre, richiede il supporto operativo di quantità elevate di soggetti, in posizione di affiliazione o di concorrenza esterna rispetto ai gruppi transnazionali di riferimento, in funzione del controllo di questo mercato illecito[29]. La valutazione delle attuali strategie di controllo del mercato dell’immigrazione clandestina impone di ribadire la centralità delle organizzazioni transnazionali nella gestione di tale fenomeno criminale. Tale centralità costituisce la conseguenza della globalizzazione del fenomeno migratorio e delle ragioni su cui ci si è soffermati, che hanno determinato lo spostamento incontrollato di una moltitudine di soggetti, dando vita a migrazioni difficilmente paragonabili con altre epoche dell’era contemporanea. Per controllare questo stratificato mercato illecito le organizzazioni transnazionali elaborano delle complesse strategie criminali, ponendosi in condizione di operare nel territorio di tutte le nazioni nell’ambito delle quali si dovrà realizzare il passaggio dei flussi migratori clandestini. Per queste ragioni, l’analisi dei modelli organizzativi utilizzati per il controllo di tale segmento criminale, pur con le inevitabili difficoltà che un siffatto accertamento comporta sul piano giurisdizionale, diventa un presupposto indispensabile per verificare le responsabilità penali collegate alla gestione dell’immigrazione clandestina sul territorio italiano, in considerazione della complessità delle condotte illecite costitutive del mercato illecito che si sta considerando[30]. Questa constatazione impone l’utilizzo di modelli di analisi differenti rispetto a quelli utilizzati nel nostro sistema penale in relazione al crimine organizzato tradizionale, che è presente all’interno del territorio nazionale dove si caratterizza per una vocazione regionalistica. Tale vocazione, infatti, costituisce un connotato strutturale delle organizzazioni criminali presenti sul territorio italiano, che operano in ambiti geografici circoscritti ai confini di un’area regionale. Tali considerazioni, al contempo, impongono una profonda rivisitazione degli strumenti di analisi della responsabilità penale tradizionali. Non v’è dubbio, infatti, che tutti i fenomeni criminali collegati al controllo dell’immigrazione clandestina da parte di consorterie transnazionali presuppongono la extra-territorialità degli obiettivi illeciti perseguiti, che non è agevole analizzare con gli strumenti proposti dalle codificazioni penali del secolo scorso, nel cui ambito il Codice Rocco si inserisce[31]. La consapevolezza di queste difficoltà ermeneutiche impone un’accelerazione nella ricerca di modelli di analisi nuovi, idonei a descrivere fenomeni criminali complessi, che non sono più riconducibili all’interno degli schemi con cui le teorie della responsabilità penale tradizionale tentano di inquadrare tutte le condotte delittuose: tanto quelle semplici quanto quelle complesse; tanto quelle individuali quanto quelle plurime; tanto quelle collettive quanto quelle associate. Tale impostazione teorica, inoltre, non tiene conto del fatto che, nelle relazioni complesse che governano i flussi migratori clandestini e nei comportamenti funzionalmente collegati degli appartenenti a un gruppo criminale transnazionale, il singolo agente opera in modo contestuale agli altri esponenti del sodalizio, su un ambito territoriale extranazionale del quale generalmente non conosce le complesse dinamiche. Occorre, al contempo, considerare che di fronte a una pluralità di comportamenti funzionali alla realizzazione di un progetto illecito attuato in un ambito transnazionale non si possono facilmente enucleare le cause determinanti nel processo volitivo di un singolo agente, con tutte le conseguenze negative che ne derivano in termini di accertamento processuale dell’elemento soggettivo. Tali considerazioni valgono a maggior ragione con riferimento alla gestione dei flussi migratori clandestini, che rappresenta il frutto di una strategia criminale organizzata con il contributo di interventi collegati tra loro in una dimensione transnazionale, indispensabile per controllare i meccanismi di ingresso illegale dei migranti. Diventa, allora, indispensabile soffermarsi sulle relazioni esistenti tra il controllo del mercato dell’immigrazione clandestina e il ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale. Non v’è dubbio, infatti, che la gestione dei flussi migratori clandestini costituisce la piattaforma criminale di queste consorterie, caratterizzandole sia sotto il profilo strutturale che sotto il profilo organizzativo. Della necessità di elaborare politiche repressive adeguate alle dinamiche criminali connesse al rapporto tra criminalità organizzata e flussi migratori clandestini, del resto, il legislatore italiano si è mostrato pienamente consapevole, introducendo, con l’art. 9 del d.lgs. n. 24 del 2014, il comma 2-bis dell’art. 13 della legge n. 228 del 2003, che così recita: «Al fine di definire strategie pluriennali di intervento per la prevenzione e il contrasto al fenomeno della tratta e del grave sfruttamento degli esseri umani, nonché azioni finalizzate alla sensibilizzazione, alla prevenzione sociale, all’emersione e all’integrazione sociale delle vittime, con delibera del Consiglio dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro dell’interno nell’ambito delle rispettive competenze, sentiti gli altri Ministri interessati, previa acquisizione dell’intesa in sede di Conferenza Unificata, è adottato il Piano nazionale d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani […]». In questa cornice, occorre ribadire che solo accedendo a una tale impostazione, tendente a valutare il fenomeno in esame nella sua dimensione transnazionale, nel solco del Piano nazionale d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani prefigurato dall’art. 9 del d.lgs. n. 24 del 2014[32], è possibile comprendere il sostrato criminale che alimenta il mercato dell’immigrazione clandestina e il contesto organizzativo che lo supporta sul piano internazionale. Tutto ciò rende evidente che le caratteristiche di questo mercato illecito sono comprensibili solo con un approccio tendente ad analizzare le relazioni esistenti tra le organizzazioni criminali transnazionali e i flussi migratori clandestini che da un ventennio investono il territorio italiano. Non si può, d’altra parte, fare a meno di osservare che solo l’elaborazione di politiche crimi
nali “sinergiche” consente di adeguare i modelli di analisi della responsabilità penale alla realtà del nostro Paese, che è diventato il punto di approdo di una moltitudine di cittadini stranieri, ponendo il problema del controllo del mercato dell’immigrazione clandestina da parte delle organizzazioni transnazionali attive nel nostro territorio[33]. In definitiva, per affrontare il problema del contrasto all’immigrazione clandestina da parte delle organizzazioni criminali transnazionali si deve partire dalla presa di coscienza che questo fenomeno criminale si è manifestato con forme nuove rispetto al passato. Questi strumenti non possono essere esaminati con i modelli di analisi della responsabilità penale forniti dal codice Rocco e impongono l’adozione di politiche criminali “sinergiche”, necessarie a evitare il rischio di approcci ermeneutici iinadeguati a comprendere le dinamiche del fenomeno migratorio illegale. (*) Questo contributo riproduce, con alcune modifiche e integrazioni, soprattutto riguardanti le note bibliografiche, due seminari svolti in sedi universitarie siciliane sul tema dei rapporti tra immigrazione clandestina e flussi migratori illegali.
[1] https://www.magistraturaindipendente.it/il-controllo-dei-flussi-migratori-clandestini-e-il-contrasto-alla-criminalita-organizzata-.htm