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L’INCOMPRENSIONE EBRAICA PER L’ESEGESI SCRITTURALE DI GESU’. Di Luigi Copertino – Parte prima

Verità cristiana dell’Antico Testamento nella prospettiva escatologica della storia

Prima Parte

Un tentativo di linciaggio

La scena è questa e si svolge dopo l’incontro con il Battista ed i quaranta giorni nel deserto.

Tornato nel suo villaggio, Nazareth, Gesù è in sinagoga. L’evangelista Luca (4, 16-30) ci dice che Gesù era solito andare in sinagoga. Da buon e pio ebreo. Qui, nell’assemblea sinagogale, Egli si alza per leggere la Scrittura e gli fu dato il rotolo del profeta Isaia (Is. 61,1s).

Gesù legge con voce chiara, forte, autorevole. Il passo isaiano recita: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore».

Arrotolato il volume e restituitolo all’inserviente, si mette a sedere mentre tutti lo fissano. Ed egli disse: «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi».

Luca ci dice che «tutti gli rendevano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» ma ci informa che, al tempo stesso, essi iniziarono a domandarsi «Non è il figlio di Giuseppe?». I presenti sembrano, dunque, dividersi. Alcuni sono affascinati da Gesù, altri iniziano ad irritarsi nei suoi confronti.

Passato l’iniziale momento di fascinazione, perché Gesù era uno che “parlava con autorità”, la piccola folla, o almeno una sua parte, ricordandosi della sua origine familiare cambia atteggiamento. Per questo Gesù, dopo averli apertamente sfidati – «Di certo voi mi citerete il proverbio: Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria!», segno che la Sua fama si era già diffusa nella regione –, replica loro «Nessun profeta è bene accetto in patria».

Il confronto si conclude, in un crescendo di avversione verso di Lui, con la Sua espulsione dalla comunità in un tentativo di ucciderlo nel modo che era riservato ai blasfemi. La  folla, convinta di eseguire l’esecuzione di un condannato, tenta di giustiziarlo

«All’udire queste cose, – ci dice Luca – tutti nella sinagoga furono pieni di sdegno; si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio. Ma egli, passando in mezzo a loro, se ne andò».

Il fatto che il tentativo vada a vuoto attesta che la folla, la quale inferocita contro il “blasfemo” vorrebbe giustiziarlo, ne è al tempo stesso intimorita, ne sente, ne avverte, l’autorevolezza, la superiorità spirituale. Tanto è vero che essa si ritrae quando Gesù fa per andarsene passando in mezzo ad essa.

Ma – questa è la domanda che dobbiamo porci per capire quale era il motivo dell’indignazione ebraica – cosa Gesù disse da spingere la folla a tentare di linciarlo? O meglio, qui sta il punto focale, quali cose Gesù non disse?

La vedova ed il generale

Il racconto di Luca ci informa che i fedeli presenti in sinagoga reagiscono con sdegno non quando Gesù annota che “nessun profeta è ascoltato in patria” – la storia di Israele era piena zeppa di profeti ripudiati dal popolo eletto, per poter essere stato questo il motivo scatenante dell’ira contro di Lui – ma quando Nostro Signore, dopo la lettura del brano di Isaia sulla liberazione degli oppressi e l’anno di grazia del Signore, ossia la profezia dell’inizio dell’era messianica, dell’era della Misericordia che Dio offre agli uomini prima di applicare la Sua Giustizia, aggiunge queste parole

«Vi dico anche: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese, ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Serapta di Sidone. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Nàaman il Siro».

Il primo dei riferimenti veterotestamentari di Gesù è relativo all’episodio, narrato nel Primo Libro dei Re (17, 7-24), del profeta Elia inviato in tempi di carestia ad una vedova fenicia, la quale nonostante non avesse quasi nulla da mangiare per sé e suo figlio condivide quel poco che aveva con il profeta. Il profeta l’aveva rassicurata promettendogli, a nome del Signore, che «La farina della tua giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà finché il Signore non farà piovere sulla terra». Ed infatti «Mangiarono essa, lui e il figlio di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunziata per mezzo di Elia».

Nell’episodio c’è una anticipazione della miracolosa moltiplicazione dei pani e dei pesci che Gesù avrebbe operato (Mt. 14,13-21) quale segno di salvezza messianica. L’era messianica è, infatti, quella della gratuità e dell’abbondanza, quella nella quale il Padrone, dopo aver convocato a cena gli invitati inizialmente designati ottenendone un rifiuto, sdegnato invia i servi affinché raccolgano dalle strade poveri, storpi, ciechi e zoppi onde riempire la Casa perché «Nessuno di quegli uomini che erano stati invitati assaggerà la mia cena» (Lc. 14, 15-24). Elia otterrà da Dio, per la vedova di Serapta, anche la resurrezione del figlio ammalatosi e morto, prefigurando in tal modo i miracoli che Gesù compirà quando riporterà in vita il figlio della vedova di Nain (Lc. 7, 11-17) e la figlia di Giàiro (Mt. 9, 18-26).

Il secondo episodio biblico al quale Gesù fa riferimento, nel suo confronto con i nazaretani, è quello narrato nel Secondo Libro dei Re (5,1-27). Vi si parla di Eliseo, discepolo di Elia e profeta come lui (questa discepolanza evidenzia l’esistenza, in Israele, di vere e proprie scuole “iniziatiche” di profeti), che guarisce dalla lebbra il generale siriano Nàaman. Questi, dapprima contrariato dall’ordine del profeta di bagnarsi per sette volte nelle acque del Giordano, infine, per fede nella promessa di guarigione, fa quanto richiestogli e guarisce.

Nell’uno e nell’altro caso, si tratta di pagani, ossia, agli occhi degli ebrei, di gente idolatra e fuori dell’Alleanza, dunque destinata, secondo l’esegesi che era prevalsa tra essi, a non avere parte nel futuro regno messianico. Ed è proprio questa esegesi che Gesù contesta ai nazaretani: Elia e Eliseo furono inviati non ad israeliti ma ai pagani, i quali, benché non appartenenti per etnia al popolo ebreo, risposero alla chiamata di Dio. Il racconto di Elia, infatti, si chiude con una professione di fede della vedova pagana: «Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità» (17,24) mentre Nàaman, che avrebbe voluto ricompensare Eliseo con denaro, dal profeta rifiutato fermamente, comprende che l’unica ricompensa che può offrire all’uomo di Dio è la sua conversione: «Ecco, io riconosco adesso che non c’è nessun Dio in tutta la terra, fuorché in Israele … il tuo servo non offrirà più olocausti e sacrifici ad altri dèi, ma solo al Signore» (15,17). Al contrario, sarà il discepolo infedele di Eliseo, l’israelita Ghecazi, a farsi donare, con un inganno, il denaro da Nàaman, per essere poi punito dal maestro che fece ricadere su di lui e la sua discendenza la lebbra tolta al pagano (19,27).

Cani pagani

Non dobbiamo dimenticare che Gesù, in un’altra occasione, si accreditò come un ebreo radicale, “fondamentalista” per usare un termine moderno, proprio per dimostrare ai suoi correligionari l’inconsistenza dell’esegesi esclusivista che essi avevano erroneamente derivato dalla Scrittura. L’episodio è in Mt. 15,21-28 ed è quello della madre siro-fenicia, della zona di Tiro e Sidone, la cananea venuta ad implorarlo per la guarigione della figlia. Ai discepoli che intercedevano per lei, fino a quel momento ignorata da Nostro Signore, Gesù obietta, esattamente nel modo nel quale avrebbe obiettato il messia secondo le aspettative ebraiche, «Non sono stato inviato che alle pecore perdute della Casa di Israele … Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini». Allorché, però, la madre pagana, implorandolo, osserva che tuttavia «anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni», Gesù si spoglia dell’immagine precostituita del messia come lo aspettavano gli ebrei, per lodare pubblicamente la fede della donna non ebrea. Lo stesso farà più tardi con il centurione romano del quale dirà non aver incontrato nessuno tra gli ebrei con una fede più grande di quel pagano (Mt. 8, 5-13).

Alla luce di questo episodio della vita terrena di Gesù, e di tanti analoghi episodi evangelici, sarà l’ebreo Saulo di Tarso a spiegare, nella Lettera ai Romani 11, 1-36, , che nel disegno salvifico di Dio, affinché i gentili potessero avere parte all’Alleanza, era necessaria la  momentanea recisione degli israeliti dall’Olivo Santo di Israele, per esservi riammessi solo alla fine dei tempi quando essi riconosceranno la Divino-Umanità di Cristo. Saulo era un zelante fariseo, discepolo del saggio rabbi Gamaliele, ma anche, non casualmente, cittadino romano. Dopo la folgorazione sulla via di Damasco, a Paolo fu chiaro che l’Israele carnale, respingendo Cristo, stava adempiendo al disegno divino. Mediante i profeti, Dio, in vista dell’Incarnazione del Suo Verbo nel Cristo Venturo, aveva proclamato  “luce delle genti” proprio Israele: ma quello, come vedremo, teologale. Citando agli astanti israeliti un passo biblico a loro ben noto e che essi interpretavano come profezia del futuro primato di Israele sulle genti, senza però alcun riferimento all’adempimento in Cristo della profezia, Paolo, insieme a Barnaba suo discepolo, come testimoniano gli  Atti degli Apostoli 13, 46-49, non esitò con estrema franchezza a disincantare l’errata esegesi biblica dei suoi correligionari: «“Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza fino all’estremità della terra”. Nell’udir ciò i pagani si rallegravano e glorificavano la parola di Dio e abbracciarono la fede tutti quelli che erano destinati alla vita eterna. La parola di Dio si diffondeva in tutta la regione».

Va notato che nell’episodio evangelico della donna cananea trapela l’idea ebraica, poi passata anche nella letteratura post-esilica raccolta nel Talmud, per la quale i non ebrei, i goym, sono sì uomini ma, dal punto di vista spirituale, non nel senso pieno del termine, sono cioè, sotto il profilo spirituale, “animali parlanti”. Uomini, in altre parole, senza lo Spirito e quindi più vicini all’animalità che alla spiritualità. Una idea che, benché senza espresso riferimento all’ebraicità ma all’elitarismo esoterico, sarà ripresa dallo gnosticismo il quale, infatti, distingue gli uomini in “pneumatici”, ossia spirituali, “ilici”, ossia psichici, e “somatici”, ossia corporei: i primi destinati alla salvezza, i secondi di incerto destino, ed i terzi già condannati.

In linea con la convinzione ebraica, nell’episodio della cananea, Gesù usa il termine “cagnolini” per indicare i pagani. Lo stesso termine era stato usato anche nella profezia messianica di cui al Salmo 21,17 «Un branco di cani mi circonda, mi assedia una banda di malvagi; hanno forato le mie mani e i miei piedi». La profezia del Salmo si compirà con la Passione di Cristo quando i soldati romani – “il branco di cani” cioè di pagani – eseguendo la sentenza di Pilato, emanata sotto pressione del Sinedrio, lo inchiodarono alla Croce forandogli le mani ed i piedi. Eppure lo stesso Gesù, che dice di essere stato inviato soltanto per le pecore sperdute della Casa di Israele, altrove, invece, afferma «offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (Gv. 15,16). Segno che le “pecore sperdute di Israele” non possono identificarsi soltanto con gli ebrei ma con tutti gli “uomini di buona volontà” eredi dell’umanità adamitica cacciata dall’Eden e dispersa dal Diluvio, ossia dell’umanità che ha perduto il contatto con la Rivelazione Primordiale.

Ciò che quel giorno Egli non disse

Dunque, come detto, lo sdegno dei nazaretani esplode quando Gesù richiama gli episodi della vedova di Serapta e di Nàaman il Siro, per spiegare loro che l’elezione non è legata al sangue, all’appartenenza etnica. Luca descrive una situazione in crescendo. La tensione sale, fino al tentato linciaggio, non solo per quanto Gesù dice ma, soprattutto, perché c’è qualcosa che Egli non ha detto e che era ben noto ai suoi ascoltatori che avrebbero voluto sentirglielo dire.

Nel racconto lucano, Gesù legge il passo di Isaia 61,1s. Rileggiamolo

«Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore».

Per la nostra sensibilità  “umanitaria”, di uomini moderni che hanno sviato dal sentiero della Rivelazione, questo passo biblico appare come un generico appello alla solidarietà universale. In realtà nella profezia isaiana, presa nel suo complesso, si proclama che la salvezza, per colpa degli uomini, non è né sarà per tutti. Il punto, quindi, quello che divideva Gesù ed i suoi compaesani, sta nel capire se questa salvezza esclude o include i non ebrei, se cioè ci sono pagani graditi al Signore ed ebrei invece a Lui sgraditi. In altri termini se la salvezza è questione dipendente dall’appartenenza etnica ad un popolo oppure se essa è altro.

Gesù dopo aver letto l’incipit della profezia di Isaia si ferma e non va oltre, non continua nel proclamare quel che i suoi ascoltatori ben conoscevano ed avrebbero voluto sentire, avrebbero voluto fosse loro ripetuto. Gesù lette quelle prime parole si limita a dire «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi». Gli astanti, sconcertati (“Non è costui il figlio di Giuseppe?”), comprendono che Egli sta proclamando sé stesso quale Messia, perché quel brano era riferito proprio al Messia venturo. Ma il loro scandalo non sta tanto nel fatto che Gesù si proclama Messia – Egli, dice Luca, parlava in modo da suscitare meraviglia per la grazia che traspariva dal suo dire e, del resto, prima o poi il Messia doveva pur venire e quindi perché mai non avrebbe potuto essere proprio Lui? – ma per il fatto che, nel proclamarsi tale, Gesù non annuncia anche quanto è detto nel seguito della profezia di Isaia, secondo l’interpretazione ebraica, mostrando così un volto messianico inedito ed inatteso per gli israeliti che lo ascoltano.

La profezia di Isaia, infatti, prosegue definendo l’anno di misericordia del Signore come «un giorno di vendetta per il nostro Dio».

Isaia fu profeta che visse ai tempi della pressione dell’Assiria su Israele. L’impero assiro espandendosi aveva preso di mira la Palestina. Il profeta annuncia agli ebrei che, per i loro peccati, subiranno la deportazione ma al tempo stesso infonde loro la speranza del ritorno penitenziale alla terra dei padri. Ecco perché, a seguire, egli canta che l’anno di Misericordia è «per consolare gli afflitti, per allietare gli afflitti di Sion. per dare loro una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, canto di lode invece di un cuore mesto. Essi si chiameranno querce di giustizia, piantagione del Signore per manifestare la sua gloria. Ricostruiranno le vecchie rovine, rialzeranno gli antichi ruderi, restaureranno le città desolate, devastate da più generazioni».

L’anno di Misericordia, al contrario, per i pagani persecutori sarà una vendetta di Dio, sicché «Ci saranno stranieri a pascere i vostri greggi e figli di stranieri saranno vostri contadini e vignaioli. Voi sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti. Vi godrete i beni delle nazioni, trarrete vanto dalle loro ricchezze». Fino alla proclamazione, in Isaia 63, 1-6, del momento culminante della “vendetta”, contro i pagani persecutori di Israele, allorché Dio si presenta nelle vesti un vendemmiatore che stritola i popoli nemici dell’eletto nel suo torchio, una immagine che tornerà nel Libro dell’Apocalisse

«Chi è costui che viene da Edom, da Bozra con le vesti tinte di rosso? Costui, splendido nella sua veste, che avanza nella pienezza della sua forza? – “Io, che parlo con giustizia, sono grande nel soccorrere”. – Perché rossa è la tua veste e i tuoi abiti come quelli di chi pigia nel tino? – “Nel tino ho pigiato da solo e del mio popolo nessuno era con me. Li ho pigiati con sdegno, li ho calpestati con ira. Il loro sangue è sprizzato sulle mie vesti e mi sono macchiato tutti gli abiti, poiché il giorno della vendetta era nel mio cuore e l’anno del mio riscatto è giunto. Guardai: nessuno aiutava; osservai stupito: nessuno mi sosteneva. Allora mi prestò soccorso il mio braccio, mi sostenne la mia ira. Calpestai i popoli con sdegno, li stritolai con ira, feci scorrere per terra il loro sangue».

L’intera storia biblica di Israele è la storia dell’affermarsi della fede nel Dio unico in mezzo ai culti pagani circostanti. Una storia costellata di pagine violente con il sangue che scorre dall’una e dall’altra parte. Il profeta Samuele fa passare a fil di spada l’aristocrazia amalecita, il re Saul, consacrato proprio da Samuele, è punito per non aver sterminato le primizie dei pagani, compresi i figli primogeniti, per offrirle al Signore, che per questo gli preferirà Davide dalla cui stirpe nascerà il Messia.

Tutto questo può apparire l’esaltazione visionaria di un insignificante popolo feroce, barbaro e rozzo, in preda ad una follia religiosa che legittima lo sterminio come volontà divina. Un po’ come  i jihadisti moderni. Un popolo sulla cui follia messianica nessuno avrebbe mai scommesso. Israele, infatti, piccolo come era, rappresentava un granello di sabbia tra gli ingranaggi delle grandi potenze imperiali dell’epoca. Un popolo politicamente impotente eppure in preda all’esaltazione per una promessa divina di dominio mondiale.

Il Mistero nascosto nei secoli

In realtà, la Scrittura nasconde una verità teologica molto più alta che gli stessi ebrei hanno ripetutamente frainteso e distorto. Per questo Gesù in Mc. 7, 8-13 rispose a scribi e farisei: «“Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da Me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini (Is. 29,13). “Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini”. E aggiungeva: “Siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. (…) annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi».

Nella Scrittura è tramandata la Rivelazione primordiale della caduta dell’umanità, a causa del peccato, e della irredimibilità di quella caduta a motivo proprio della Giustizia Divina. Essa, infatti, richiede, a riparazione, un Olocausto talmente alto che per l’uomo è impossibile offrire. Soltanto Dio poteva offrirlo e lo fece incarnandosi per la Passione. Nell’impossibilità per l’uomo di riparare al suo peccato, ossia all’offesa metafisica, spirituale, all’Amore di Dio, la Giustizia imponeva l’immediata applicazione della pena. La Giustizia di Dio esigeva che fosse immediatamente emessa la sentenza definitiva di condanna per l’umanità caduta, per “le pecore perdute”.

Dio stava per attuare la Sua Giustizia mediante il Diluvio (un evento che per essere memoria universale dell’umanità, in quanto presente in tutte le culture, non può essere ridotto semplicemente ad un “mito”): «Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e … si pentì di aver fatto l’uomo e … disse “Sterminerò dalla terra l’uomo che ho creato …”» (Gn. 6,5-7), ma avendo trovato, tra gli uomini, Noé il giusto, dopo la catastrofe, «pensò: “Non maledirò più il suolo a causa dell’uomo …”» (Gn. 8,21).

Dio, dunque, esita, frena la Sua Giustizia, perché è Lento all’ira. E’ Clemente e Misericordioso. Vuole dare tempo all’uomo. Egli è Padre che, sebbene offeso ed irato, ama il figlio. Addirittura  promette, già al momento dell’allontanamento dell’uomo dal Luogo Primordiale della Sua Grazia, un Salvatore nella Stirpe di Colei la quale, con il suo piede, avrebbe schiacciato la testa della gnosi ofidica, insidia del suo calcagno (Gn. 3,15).

Con l’annuncio genesiaco della «Donna vestita di sole» dell’Apocalisse (Ap. 12,1) – la Donna messianica dei Tempi Ultimi –, la Salvezza fu promessa ad Adam, ossia a tutta l’umanità. E’ Salvezza Universale, per tutti gli uomini aperti all’Amore di Dio, a qualunque popolo essi appartengano. Al momento della Promessa il popolo ebreo non esisteva ancora. Tuttavia, per entrare nella storia dell’umanità dispersa, ed operarvi, Dio, nel rispetto della libertà umana che ha provocato la dispersione in lingue e popoli diversi, non poteva, in una prima fase, che penetrarvi attraverso la scelta di un popolo il quale a Lui, e solo a Lui, nel mezzo della generale idolatria causata dal rifiuto dell’Amore Infinito, tributasse il Culto Originario. Una elezione, quella ebraica, che, nel disegno salvifico divino, era in vista di Colui che, in una seconda fase, avrebbe abbattuto ogni barriera tra israeliti e pagani per fare di essi un unico popolo teologale. «Non c’è più giudeo né greco … poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Galati 3,28)

L’antico Israele, infatti, unico tra tutti i popoli, nacque non da vicende antropologiche, culturali o per eventi politici ma per l’elezione di Abramo ossia per una vocazione teologale. Israele è un popolo che si forma intorno al Culto monoteista in polemica con i culti pagani degli altri popoli circostanti. L’appartenenza ad Israele, nell’Antica Alleanza, era contrassegnata dalla circoncisione nella carne ma essa era soltanto la prefigurazione della Vera Circoncisione che è quella del Cuore, dello e nello Spirito. Questa Autentica Circoncisione sarà resa operante dalla Passione e Resurrezione di Cristo. Essa ha sancito, realmente e non per mera prefigurazione, l’ingresso definitivo di tutti i popoli, dei pagani che attendevano anch’essi la salvezza e che ora la accettano per fede, nell’Alleanza Nuova. Alleanza che è tale, ossia Nuova, non perché diversa dall’Antica ma perché di Essa è il compimento ed il rinnovamento, ovvero propriamente, per il senso letterale della parola “rinnovare”, il Ristabilimento nella Sua Forma Originaria Adamitica. Quella così ristabilita altro non è che l’Alleanza Eterna, l’Alleanza Perenne, che Dio aveva stipulato con Adam e che l’uomo aveva infranto nella presunzione, suadente, ofidicamente suggeritagli, di farsi Dio da sé, senza il dono della Grazia, dello Spirito, deificante (Gn. 3,5).

Nella profezia di Isaia, il Signore annuncia il perdono per gli israeliti benedicendoli come stirpe in vista di un’Alleanza Perenne, ancora di là da venire: «Poiché io sono il Signore che amo il diritto e odio la rapina e l’ingiustizia: io darò loro fedelmente il salario, concluderò con loro un’alleanza perenne. Sarà famosa tra i popoli la loro stirpe, i loro discendenti tra le nazioni. Coloro che li vedranno ne avranno stima, perché essi sono la stirpe che il Signore ha benedetto».

Nel corso del tempo, è però accaduto che gli israeliti abbiano sposato una sorta di sviamento esegetico nella comprensione della Scrittura. Esaltati dalla promessa di eccellenza universale, hanno iniziato a fraintenderla conferendo ad essa il senso di una promessa di dominio mondiale, etico e/o politico a seconda delle diverse interpretazioni elaborate dalle loro variegate scuole e correnti religiose. Essi non possedevano esplicitamente la vera chiave interpretativa dell’intera Scrittura. Prima dell’Incarnazione, tale chiave era come nascosta – si tratta del “mistero nascosto da secoli nella mente di Dio” cui fa riferimento san Paolo in Efesini 3,9 e in Colossesi 1,26 – e quindi era per essi soltanto implicita nella Scrittura, mentre era quasi del tutto ignota ai pagani. Dopo l’Incarnazione gli israeliti, a causa del loro rifiuto, non hanno accettato questa unica chiave interpretativa ora resa esplicita da Nostro Signore. In tal modo essi si sono da soli posti una benda davanti gli occhi dello spirito. Hanno rigettato l’Unico che – parlando la Scrittura esclusivamente di Lui – può rendere esplicita l’autentica esegesi scritturale della Rivelazione, il suo significato primo ed ultimo. Quella di Gesù è l’Esegesi Autentica perché Egli è il Vero Esegeta in quanto Fonte della Rivelazione ed Autore della Scrittura.

La chiave esegetica per la comprensione autentica della Rivelazione tramandata dalla Scrittura è, dunque, Gesù Cristo. Agli ebrei, di ieri e di oggi, manca completamente la “prospettiva cristologica” nell’approccio alla Rivelazione. Questa mancanza è foriera di gravissimi equivoci e distorsioni esegetiche. Nella sua predicazione terrena, Gesù non ha fatto altro che esegesi della Scrittura indicando Sé stesso come il compimento delle promesse in Essa contenute. Un compimento che, confermando quanto era già chiaro nell’Antico Testamento (gli episodi, e non sono certo gli unici, della vedova di Sarepta e di Nàaman il Siro, sono lì a dimostrarlo), apriva definitivamente quelle promesse anche ai pagani e questo sconcertava i nazaretani ed i sinedriti, chiusi nella loro esegesi esclusivista della Scrittura.

L’esegesi ebraica si rivela, infine, settaria. Essa oscura la teologalità del popolo ebraico e porta gli israeliti ad interpretare l’elezione in termini etnici, dato che l’Alleanza è da essi concepita come intrinsecamente connessa alla trasmissione del sangue, all’appartenenza razziale. Non si poteva, e non si può nella loro prospettiva ancora oggi, essere figli di Abramo, e quindi graditi a Dio, se non per nascita ebraica. Ai farisei e sadducei che venivano al suo battesimo senza mostrare segni di pentimento, Giovanni il Battista, Vero Ebreo, per mettere in chiaro che l’Elezione non è dal sangue, non è una questione etnica ma teologale, urlò con veemenza: «Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? Fate dunque frutti degni di conversione e non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre» (Mr. 3,7-9). All’interno del mondo ebraico, per i gentili si era giunti, in tarda età biblica, a concedere tutt’al più la possibilità di adorare il Dio di Israele ma soltanto quali “proseliti” ammessi a presenziare ai riti nella parte profana del Tempio ma non nella zona più prossima al Sancta Sanctorum, luogo dell’Alleanza nella Presenza (Sekinah) di Dio. Quella dei goym restava comunque una posizione subordinata al primato etnico ebraico.

La convinzione della trasmissione ereditaria dell’Alleanza si perpetuerà anche nell’ebraismo postbiblico. Con l’unica differenza che, strada facendo, visto che il Messia liberatore politico di Israele dal dominio delle nazioni pagane tardava ad arrivare, il rabbinato ha iniziato a reinterpretare la figura stessa del Messia promesso in termini “collettivi” fino a fare dello stesso popolo ebreo, perseguitato e sofferente per mano dei pagani, dei goym, il Messia deputato a portare al mondo l’era messianica della Pace Universale. Con quali conseguenze anche politiche, partorite da questa esegesi, si può ben immaginare, dal momento che le vediamo attualmente in opera in tutto l’Occidente, apostata dal Cristo, e non solo nel Vicino Oriente. Il sionismo non nasce come un qualunque movimento nazionalista laico ma è intrinsecamente, sin da subito, espressione di una escatologia che proclama la superiorità morale di Israele e quindi il suo presunto diritto non solo al possesso esclusivo della terra santa ma anche al primato etico, che facilmente può farsi politico – nel senso di un influsso ed indirizzo politico –, sull’intero orbe.

(CONTINUA)

Luigi Copertino

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