Dalla “storia” personale alla storia di una falsa partenza europeista
Pare che il cuore non invecchi: peccato che invecchi il resto, obiettano i pessimisti. Eppure, sarà un po’ il complesso di Peter Pan che molti vecchietti si portano addosso, sarà la sensazione di un discorso rimasto sospeso, di qualcosa che più che essere fallita è stata tradita e abbandonata: ma quando penso all’Europa mi pare che, per quanto mi riguarda, il tempo si sia fermato. E mi ritrovo ancora al 1965, in quella stanzetta del centro vecchio di Firenze dove una decina di noi, pagandosi mese dietro mese per autotassazione l’affitto “di tasca nostra”, discuteva di Russia e di America, di Nasser e di Fidel Castro, di “terza forza” e di “non-allineamento”. Venivamo compatti da un partito, il Movimento Sociale Italiano, che avevamo abbandonato, anche perché si caratterizzava per una curiosa schizofrenia: al di là del diffuso e seminnocuo nostalgismo neofascista che per alcuni era una caccia calda e per altri una riserva di voti, esso parlava alla base e per la base un linguaggio ispirato a un radicalismo sociale che sarebbe sembrato forse massimalista allo stesso Bordiga mentre ai vertici (ch’erano quelli ai quali si erano accomodati, se non su poltrone quanto meno su poltroncine e strapuntini, i nostri deputati, i dirigenti locali, gli intrufolati nei vari sottogoverni, i faccendieri politici eccetera) si restava fedeli a un atlantismo opaco, ostinato, che al momento buono, nei corridoi del parlamento, si traduceva in voti d’appoggio (abbastanza ben retribuiti in vario modo sottobanco) a quel potere costituito – leggi DC e suoi alleati e compagni di strada, NATO ecc. – che, pure, ufficialmente, ci faceva sputare addosso dai suoi media (ma allora non si chiamavano così) e manganellare dalla sua polizia. Quanto alla – chiamiamola così – “ideologia” di partito, ci si fermava a un nazionalismo miope e greve, roba da “Maestrine della Penna Rossa” di de Amicis, che avrebbe indignato il vecchio Corradini da quanto era sorpassato: non si andava al di là di Trieste italiana e dell’anticomunismo, e quando noi giovanotti ci ostinavamo a rievocare la nostra più eroica stagione, i fatti d’Ungheria del ’56, gli altri rimanevano tiepidi; la vantata “socialità”, al di là delle roboanti dichiarazioni comiziesche o congressuali, era roba per qualche nostalgico “repubblichino” e, appunto, per giovanotti di più o meno belle speranze. Le prospettive europeistiche alle quali da parte nostra allora aderivamo, lontani da quelle del Movimento Federalista e del “Manifesto di Ventotene”, erano, semmai, quelle di Pierre Drieu La Rochelle, che Paul Serant aveva disegnato nella monografia Romanticismo fascista. Ma il “nostro” partito al massimo arrivava alla diatriba (sommaria ed elementare) tra “gentiliani” ed “evoliani”, con qualche spruzzata di cattolicesimo: per il resto viveva in un altro mondo che peraltro era concretissimo, quello delle poltrone parlamentari e delle poltroncine amministrative da spartire confidando nel “Boia-Chi-Molla” della fedeltà elettorale di buona, povera gente. Scarica.
Usciti dal MSI nel 1965, aderimmo tutti a Jeune Europe, il movimento fondato dal belga Jean Thiriart – un vecchio sostenitore di Léon Degrelle – che fu, tra l’altro, il primo a usare sistematicamente e intensivamente il simbolo della “croce celtica”, del quale in seguito i movimenti neofascisti si sono appropriati. Ma Jeune Europe, nonostante in tal modo sia stata qualificata dai mass media, non era affatto un movimento neofascista: propugnava il concetto di “Nazione Europea” sostenendo che, nonostante il plurilinguismo e il suo carattere – come avrebbe scritto Massimo Cacciari – di “arcipelago”, i popoli europei avevano il diritto storico di adire a un sentimento nazionale così come i nordamericani avevano rivendicato per sé stessi il diritto a dirsi “nazione americana”. Jeune Europe sosteneva la necessità storica, per l’Europa, di unirsi, cancellando la separazione tra “Mondo Libero” e “Mondo Socialista” che con la Cortina di Ferro le era stata imposta da USA e URSS e di costituire un solo stato per un solo popolo, indipendente e neutrale (per quanto non equidistante) rispetto alle superpotenze USA e URSS. La parte migliore delle cose frettolosamente elaborate all’interno di Jeune Europe, che si sciolse spontaneamente nel 1969, è confluita, poi, nel Think Tank guidato da Alain de Benoist, il cui pensiero di “Nuova Destra”, rielaborato poi in “Nuove Sintesi”, è oggi ripreso con grande libertà e sviluppato nelle riviste “Trasgressioni” e “Diorama Letterario”, dirette da un apprezzato universitario specialista di scienza della Politica: il professor Marco Tarchi dell’Università di Firenze.
Non ho, finora, detto nulla dell’Unione Europea, nata –com’è noto – dallo sviluppo della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), poi trasformatasi in CEE (Comunità Economica Europea) e articolatasi nelle istituzioni della Commissione Europea, del Consiglio d’Europa e del Parlamento Europeo. Posso adesso dichiarare in tutta serenità e franchezza che nell’UE avevamo riposto speranze e fiducia, in quanto ingannati non già dai suoi atti ufficiali – che mai si sono discostati dalla sua natura economico-finanziaria –, bensì dalle frequenti dichiarazioni dei suoi rappresentanti, che a lungo hanno fatto credere che esistesse, in prospettiva, la volontà di trasformarla in una realtà politica in qualche modo capace di esprimere una vita statuale, di tipo federativo (di modello tedesco o statunitense) o confederativo (di modello svizzero) che fosse. Insomma, quel che in qualche modo ci auguravamo e continuiamo ad augurarci erano (sono, e restano) gli “Stati Uniti d’Europa”. Bisogna dire che, specie dopo il deplorevole fallimento del decollo di una Costituzione Europea, che si è fermata al preambolo scivolando sulla buccia di banana dell’affermazione o meno di “radici cristiani” alla base dell’identità europea e della sua storia, la fiducia nella volontà e nella capacità dell’UE di trasformarsi in una realtà politica è venuta del tutto meno.
Siamo, in altri termini, all’Anno Zero dell’unità politica europea. L’Unione Europea, questa venerabile istituzione che vanta Padri Fondatori quali Alcide De Gasperi, Robert Schuman e Konrad Adenauer1, non ha, in fondo, fallito ai suoi compiti, in quanto essi sono sempre stati di natura economica e finanziaria; ha conseguito traguardi d’integrazione importante quali l’abolizione dei dazi di frontiera, l’adozione di tariffe comuni per le importazioni, l’adozione di una moneta comune e vari provvedimenti di finanziamento importante di organi e iniziative quali i programmi universitari Erasmus. Il punto è che i popoli europei hanno sperato per lunghi anni che tutto ciò conducesse anche, in tempi ragionevolmente rapidi, a un’unità politica. Per essa, com’è noto, sono necessari quattro elementi: la “bandiera”, vale a dire l’identità politica istituzionale”; la “toga”, vale a dire quella giuridica e giurisdizionale”, la “spada”, vale a dire il sistema comunitario di difesa”; la “moneta”, vale a dire una valuta comunitaria unica. Solo il quarto di questi elementi esiste oggi: ed è garantito dalla Banca Centrale Europea, che non è soggetto di diritto pubblico. Si è parlato per lungo tempo, e si parla ancora, di un “esercito europeo”: ma per il momento ci si è limitati a obbligare qualunque stato intenda aderire all’UE ad aderire alla NATO, organizzazione militare alla quale partecipano anche gli USA e che, nata per fronteggiare la potenza sovietica, non ha ancora trovato, dopo la dissoluzione di essa, il modo di ridefinire e di rilegittimare i suoi obiettivi, restando, tuttavia, egemonizzata da una potenza extraeuropea: gli Stati Uniti. Nel corso della “guerra fredda”, e poi durante gli anni che hanno assistito al crescere della preoccupazione per un vero o supposto “problema islamico”, si è fatto strada un comune, crescente sentimento di semi-identificazione tra un’Europa del cui carattere istituzionale di potenza politica non si parlava più e un concetto politico- culturale vago e ambiguo: l’Occidente. Giunti, quindi, all’Anno Zero dell’integrazione europea, riconosciuto, cioè, che l’unione socioeconomica e sociofinanziaria disegnata dall’UE non ha condotto ad alcuna integrazione politica, e che a questa dobbiamo mirare se non vogliamo cedere al riemergere di sentimenti e d’impulsi micronazionalistici quali si presentano nella forma dei cosiddetti sovranismi, è necessario far chiarezza su che cosa sia l’Europa e che cosa l’Occidente.
Europa e Occidente
È problematico il sostenere l’esistenza effettiva di un’identità “occidentale”, il proporne l’alterità o la complementarità rispetto a una “orientale” e magari l’identificare sia pur più o meno imperfettamente il concetto di Europa con quello di Occidente e pretendere, quindi, che esso possa definirsi unicamente nel confronto-scontro con “l’Oriente”, come, invece, con disinvoltura si tende a fare specie nei paesi della cosiddetta Europa occidentale: espressione essa stessa, d’altronde, abbastanza vaga, resa chiara e perentoria (e fornita, dunque, di una sua ingannevole “realtà”, non corrispondente ad alcun oggetto concreto) solo in seguito e a causa degli anni della “guerra fredda” e dell’affrontamento tra paesi aderenti all’Alleanza Atlantica e paesi stretti attorno al Patto di Varsavia. Poche nozioni sono, infatti, più infide e scivolose di quella di “Occidente”, tanto più poi nella misura in cui essa tende ad assolutizzarsi e a metastoricizzarsi. In effetti, il concetto di Occidente è relativamente nuovo e sembra di per sé inscindibile da quello di modernità: vero è che gli si sono trovate antiche radici – coincidenti appunto con quelle dell’Europa – facendolo erede della Grecia antica in lotta contro la Persia2 e di quella Cristianità latino-germanica (che in differente misura e in tempi diversi fu anche celtica, slava, baltica, perfino uraloaltaica con ungari e finni) la quale, però, poteva dirsi “occidentale” – nozione, questa, che, al puro livello geografico, è, come qualunque altra del suo tipo, eminentemente relativa – in quanto istituzionalmente figlia della pars Occidentís dell’impero romano, ritagliata alla fine del IV secolo da Teodosio per il figlio Onorio. Si è riusciti, pertanto, a enucleare un concetto in apparenza univoco di “Occidente” solo a patto di passar sopra alle grandi sintesi eurasiatiche e mediterranee, quali quella avviata da Alessandro Magno e che da almeno il I secolo a.C. fu assunta a fulcro delle scelte politiche e culturali dell’impero romano: una sintesi che preparò e rese possibile nei tre-quattro secoli successivi il trionfo in tutta l’area ellenistico- romana di una religione nata nel Vicino Oriente, per quanto ormai ritrascritta largamente nei termini di una filosofia greca, che aveva dal canto suo largamente attinto ai lidi dei misteri egizi, dell’astrologia caldea, della sapienza ebraica e persiana. Ma la vittoria del Cristianesimo fu possibile, come ha sostenuto Arnold Toynbee in Il mondo e l’Occidente, in quanto «la minoranza dominante greco-romana che aveva devastato il mondo conquistandolo e saccheggiandolo e ora ne pattugliava le rovine come gendarmeria autocostituita» era, ormai, afflitta da inedia spirituale. Il mondo ellenistico-romano aveva bisogno di un Sotèr: e fu l’Oriente a procurargliene uno.
D’altro canto, se dovessimo pensare all’Europa nei termini nei quali romanticamente e neomedievalmente la pensava il Novalis, di Cristianità – Chrístenheit oder Europa –, non potremmo se non definirla quale sintesi, col e nel Cristianesimo, dell’Occidente greco-romano e dell’Oriente ebraico-ellenistico. Ma quello stesso “Occidente” greco-romano era ormai esso stesso, almeno a partire dal II secolo a.C., strettamente connesso con un “Oriente” che la grande avventura di Alessandro Magno aveva profondamente ridefinito. La storia politica, sociale e culturale dell’impero romano è scandita si può dire fino alla riforma teodosiana – e Teodosio, ricordiamolo, è lo stesso che ha diviso amministrativamente l’impero e che ha imposto la cristiana quale “religione di stato” – dalla rivalità tra i conservatori aristocratici legati ai prischi costumi romani e i plebei (e plebeo era il nerbo dell’esercito legionario) che, a loro volta egemonizzati da famiglie della grande nobiltà quali gli Scipioni e la gens Iulia, aspiravano, invece, a un equilibrio nuovo, a un mondo rinnovato nel quale Urbs ed Orbs coincidessero e nel quale il messaggio di Alessandro Magno, che aveva fuso l’Occidente ellenico e l’Oriente egizio e persiano, si traducesse in una nuova sintesi. La linea che oppone Silla e Pompeo, da una parte, agli Scipioni, ai Gracchi, a Mario e a Cesare, dall’altra, è l’asse portante di due differenti modi di concepire la missione di Roma e l’assetto del mondo: Cesare, che ad Alessandria venera il sepolcro di Alessandro e ne accetta l’eredità spirituale rivendicandone il disegno universalistico (e la regalità sacra degli imperatori romani sarà quella mutuata dall’Egitto e dalla Persia attraverso il modello di Alessandro, poi evoluto nel corso del II-III secolo addirittura in una sorta di monoteismo regale-solare, anch’esso ereditato dal Cristianesimo), è, insieme con il Cristo che nasce – provvidenzialmente, come da Agostino in poi hanno sostenuto gli storici cristiani – pochi anni dopo sub Augusto, ma nell’impero da Cesare fondato (e adempiendo, sempre secondo gli storici cristiani, la profezia virgiliana), l’asse della storia attorno alla quale danzano i secoli; la constitutio Antoniniana, con la quale all’alba del III secolo d.C. Caracalla concede la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero – un impero circummediterraneo che dall’Atlantico giunge all’Eufrate e dal Reno e dal Danubio si estende fino all’Alto Nilo e all’Atlante – segna la cancellazione della dicotomia tra Oriente e Occidente in un immenso abbraccio, anche se le due categorie opposto e/o complementari risorgeranno subito dopo, ma con differente accezione, nelle scelte amministrative teodosiane3. D’altro canto, non c’è dubbio che la cultura radicata negli ambienti aristocratici e repubblicani del conservatorismo proprio della classe senatoria romana elaborò, dal canto suo, la contrapposizione tra Roma (collegata, dopo un’iniziale resistenza, alla Grecia) e la “barbarie”, quindi fra Occidente e Oriente: e lo si vide a proposito della propaganda successiva alla battaglia di Azio del 31 a.C., presentata come una vittoria di quello su questo. Augusto riprendeva, contro Antonio, deciso sostenitore della linea di Cesare, quella ch’era stata propria di Silla e di Pompeo. La divisione amministrativa teodosiana ricalcava questa dicotomia, sia pur senza introdurvi elementi d’opposizione: che si sarebbero comunque più tardi affermati.
All’indomani della prima crociata, Fulchero di Chartres, osservava: «Ormai noialtri, che un tempo eravamo occidentali, siamo divenuti orientali […] perché dovremmo tornar in Occidente, dal momento che abbiamo trovato qui un tale Oriente?». È evidente ch’egli usasse le vecchie categorie amministrative teodosiane e che il suo “Oriente” era ancora, essenzialmente, la pars Orientis già assegnata all’imperatore Arcadio, quella ancora al suo tempo governata dal basileus ton Romàion, ch’era, in quel momento, Alessio I Comneno. Ma è non meno chiaro, al tempo stesso, che i termini “Oriente” e “Occidente”, “orientale” e “occidentale” acquistavano, nelle sue stesse parole, un senso e quasi un sapore nuovo, al quale non era estranea la consapevolezza del confronto con il mondo musulmano. Nell’affermarsi di molti luoghi comuni e atteggiamenti mentali antibizantini nel mondo “franco” tra XI e XII secolo, come vediamo in alcuni cronisti delle crociate, cresce e si afferma il sentimento di opposizione Occidente-Oriente, che si presenterà con virulenza all’atto della quarta crociata.
Ma verso la metà Duecento, le conquiste eurasiatiche dei tartari parvero aprire agli europei il mondo dell’Asia, ben presto, però, richiuso su sé stesso con il frammentarsi dell’impero mongolo. Sbarrata la via di terra, restava quella oceanica: molti decenni di tentativi portoghesi, da un lato, una casuale scoperta compiuta, dall’altro, grazie a un marinaio che al servizio dei re cattolici di Castiglia e di Aragona cercava un passaggio a ovest per l’Asia, squadernarono d’un tratto dinanzi agli europei una realtà nuova che né Aristotele, né Tolomeo avevano supposto. La terra era molto più grande di quanto non si fosse mai creduto: eppure, ciò nonostante, quella medesima terra che per millenni era stata creduta più piccola e che pur nessuno aveva osato correre in lungo e in largo, ora che si era rivelata più grande fu percorsa e frugata quasi da cima a fondo nel giro di pochi decenni. Era la fine della cultura fondata sulle auctoritates, poiché nessun auctor aveva mai supposto quella realtà che solo l’esperienza poneva adesso alla portata degli europei. Una sola eccezione si era disposti a fare: la Bibbia, che non poteva aver mentito ma che doveva essere stata mal interpretata. Ecco perché il Cinquecento è pieno di studiosi che identificano in angoli del Nuovo Mondo i favolosi paesi biblici di Punt e di Ofir e che si sforzano di scorgere negli indios la “tribù perduta” d’Israele. Dopo le scoperte geografiche, l’esperienza – fino allora considerata testimone infido e consigliere poco attendibile – diveniva la via regia alla conoscenza. Senza Colombo non si capisce Galileo.
Frattanto, l’Europa aveva già ricevuto una definizione in contrapposizione all’Asia, come sinonimo di Cristianità avversa all’Islam. Ciò era accaduto al tempo della caduta di Costantinopoli in mano ai turchi: e ben lo si vede in Enea Silvio Piccolomini. Divenuto papa col nome di Pio II, egli elaborò una tesi delle conseguenze della quale forse, sulle prime, né egli né i suoi contemporanei erano consapevoli. L’Europa era propriamente la sede – patria e domus – della Cristianità, identificabile con la christiana religio e, pertanto, si poteva stimare cristiano chiunque fosse ritenuto europeo, come Enea Silvio aveva già dichiarato nella Prefazione alla Historia de Europa. La recita dell’Angelus, ch’era stata imposta da papa Callisto III a tutti i cristiani per implorare soccorso contro il pericolo turco, appare in questo quadro come un ulteriore segno d’identità fra Christenheit ed Europa. Un’identità nella quale, tuttavia, l’Europa stava per così dire assorbendo la Cristianità, preparando la crociata ad assumere un nuovo, diverso ruolo all’interno dell’incipiente processo di secolarizzazione della cultura occidentale.
Modernità e processo di globalizzazione
Con le grandi scoperte geografiche e l’espandersi dell’Europa latino-germanica (ormai, del resto, lacerata dalla Riforma e priva di quell’unità che l’aveva caratterizzata durante il Medioevo e quindi non più definibile in quanto “Cristianità latina”), il nostro continente si proponeva definitivamente come quell’Occidente che i greci (la cultura dei quali è comunemente avvertita ormai, almeno dal Quattro-Cinquecento circa, come la radice profonda di quella europea moderna) avevano fondato e preconizzato, ma che non si era davvero mai tradotto in una realtà definibile: nasceva, allora – l’ha definito bene Carl Schmitt –, quell’Occidente sentito come complesso di terra e di mare, come impero policentrico e dislocato tenuto insieme da una comune Weltanschauung economico-politica, quella di un’“economia-mondo” l’egemonia all’interno della quale era tuttavia contesa; mentre il permanere di una fede cristiana in vario modo sostenuta dalle Chiese storiche nessuna delle quali rinunziante al suo ecumenismo ma ciascuna delle quali avente un ruolo di fronte allo stato o agli stati, al popolo o ai popoli che ad essa più o meno ampiamente si riferiscono, gli offre il movente nobile (non vogliamo dir l’alibi: anche perché siamo convinti che alibi non fosse) di quell’evangelizzazione che non a caso, nel corso del Duecento, si era concretizzata nella prassi missionaria originariamente ispirata a Francesco d’Assisi.
Nell’accezione moderna, la parola “Occidente” rinvia, quindi, a nuovi contenuti: essi nascono allorché con le grandi scoperte geografiche dei secoli XV-XVI, l’asse politico, economico e culturale europeo, già mediterraneo, si sposta sulle rive dell’Oceano Atlantico mentre l’affermazione dello stato assoluto apre la strada alla secolarizzazione, l’economia-mondo inaugura il capitalismo moderno (e, con esso, il cosiddetto “scambio asimmetrico”) e già si prepara la grande rivoluzione tecnico-scientifica del XVII secolo. Senza dubbio, l’Occidente elabora, col Locke, l’idea di tolleranza; e di li a poco scoprirà, con i fondamenti del pensiero antropologico, anche la “ragione dell’Altro”, e accetterà – unica forse tra le civiltà umane – di non pensare più a sé stesso come al centro del mondo. È non meno vero che, con la cultura orientalistica ed esotistica, gli occidentali – pur riprendendo un atteggiamento d’interesse e di fascinazione per il Diverso (e il Meraviglioso) ch’era registrabile nella cultura antica fino dal grande romanzo egizio, prima, ellenistico, poi – scopriranno di non poter più fare a meno, nel loro immaginario, del fascino dell’Oriente: anzi, degli “Orienti” (l’arabo, il turco, il persiano, l’indiano, il centrorasiatico, in un senso molto particolare – o in più sensi molto particolari – l’ebraico4, il cinese, il giapponese, il sudorientale asiatico…)5. Ma vero è altresì che, nel contempo, esso elaborerà con il colonialismo – anche in ciò unico tra le civiltà umane – un colossale sistema di sfruttamento delle risorse di tutto il mondo a suo esclusivo vantaggio. V’è di più, dal momento che l’idea contemporanea di “Occidente” – nella quale, secondo alcuni, l’Europa sarebbe inclusa, con un ruolo coprotagonistico, in un tutto omogeneo e interatlantico insieme con Stati Uniti e Canada – è nata, al contrario, nella sua accezione ormai ordinaria, dal pensiero politico statunitense su una linea tesa dal Jefferson al Monroe proprio per differenziarsi dall’Europa; anzi, addirittura contro l’Europa, avvertita come la patria del vecchio, della stratificazione sociale, della cristallizzazione oppressiva delle forme culturali, mentre l’America sarebbe la terra del nuovo e della libertà non – attenzione – comunitariamente, bensì individualmente intesa.6 L’America, che fin dalla costituzione degli Stati Uniti ha liberisticamente e calvinisticamente annunziato che fine e diritto dell’uomo, di ciascun uomo (non già dello humanus genus, della Menschenheit) è la ricerca della felicità su questa terra: e che quindi la corsa è cominciata, la cacia è aperta, sgomiti tanto più chi più può e vinca il “migliore”. Il mondo appartiene agli eletti.
Eppure non si è ancora esaurito, anzi conosce periodici per quanto confusi momenti di ringiovanimento, il vecchio atteggiamento culturale e mentale – caro ai teorici primonovecenteschi della Mitteleuropa – secondo il quale la dinamica morfologica della storia si addensa attorno a un nucleo macrostorico-metastorico costituito dal “necessario”, “insopprimibile” scontro geostorico tra Occidente e Oriente. Espressioni successive di esso sarebbero state le guerre grecopersiane, quindi le contese tra romani e parti, poi quelle tra sasanidi e bizantini, e ancora l’offensiva musulmana dei secoli VII-X fino al Maghreb e alla Spagna, e poi la Reconquista e le crociate, e successivamente la tensione tra l’Europa moderna e l’impero ottomano, e in seguito l’affermazione colonialistica delle potenze europee in Asia, quindi la “guerra fredda” che secondo alcuni si potrebbe considerare la terza guerra mondiale, infine oggi quella che l’amministrazione Bush ha definito dopo l’11 settembre 2001 la war against Terror e che qualcuno ha proposto di considerare la quarta guerra mondiale. Il ritorno dell’espansione islamica e l’esordio delle neoparaideologie legate al cosiddetto “fondamentalismo islamico” e quindi al terrorismo che di alcuni ambienti di esso sarebbe il braccio armato verrebbe in tale ottica a proporsi come l’ultima forma di una plurisecolare secolare contesa iniziata con le guerre tra greci e persiani. E siamo al clash of cultures teorizzato ormai circa un trentennio fa da Samuel Hungtington in quel singolare remaking dello spengleriano Tramonto dell’Occidente che fu il suo best seller.
È logico che, da questo punto di vista, le offensive “orientali” siano state regolarmente intese come assalti barbarici alla roccaforte della civiltà e le controffensive occidentali come risposte della civiltà stessa. E allora il punto di non-ritorno, il tournant che rende al tempo stesso irreversibile la vittoria dell’Occidente e inauspicabile un suo indietreggiare (poiché la diffusione del progresso e della civiltà resta, kiplinghianamente, «il fardello dell’uomo bianco»), è quello del progressivo affermarsi dell’Occidente con le scoperte geografiche, con il colonialismo e infine con la sfida lanciata al resto del mondo attraverso l’imposizione del way of life e delle sue categorie morali, politiche, esistenziali nonché del suo sistema di produzione e di gestione delle ricchezze. Ma quest’Occidente corrisponde, ormai, a un concetto che in apparenza è antico mentre in realtà è nuovo e funzionale agli eventi sette-novecenteschi: quello di “civiltà occidentale”.
Sappiamo bene che è impossibile enucleare le scelte dell’epoca eroica dell’espansione soprattutto degli “imperi leviatanici” marittimi euro-occidentali7, il XVI-XVIII secolo – con le sue realizzazioni e i suoi misfatti – dalla religione stessa dell’Occidente, dal cristianesimo cattolico o riformato che fosse: del resto, l’espansione missionaria accompagnò il movimento coloniale, ne fu testimone e fu in un certo senso funzionale, per quanto molti dei suoi protagonisti si trovassero spesso in rotta di collisione con i metodi e i caratteri dello sfruttamento coloniale (bastino a ricordarlo episodi come quello, glorioso, delle reducciones della Compagnia di Gesù nel Guaranì o come la lotta senza quartiere dei missionari cattolici e protestanti contro lo schiavismo). D’altronde, nella giustificazione di uno sfruttamento coloniale che pur si cercava da più parti e in molti modi di rendere più umano8, la religione ebbe un ruolo pretestuosamente celebrato, forse, ma certo importante.
Quest’Occidente missionario e colonialista, umanitario e imperiale, sentimentale e sfruttatore, filantropico e tirannico, fiero di sé ma al tempo stesso innamorato esotisticamente delle terre che andava depredando e dei popoli che andava sottomettendo, l’Occidente del kiplinghiano “fardello dell’uomo bianco” ha radici senza dubbio antiche e medievali ma è al tempo stesso primariamente e indissolubilmente legato agli stati assoluti – che avevano battuto un ben differente modello di sviluppo della Modernità, quello rappresentato dalla “monarchia di Spagna” che avrebbe potuto essere loro alternativo (poiché la storia, come dice David S. Landes, non solo si può, ma si deve scrivere al condizionale) – e alla loro figlia in parte ribelle ma anche primogenita: la democrazia parlamentare; esso è impensabile senza il lievito utopico che lo anima (si pensi a Thomas Moore e a Francis Bacon) e senza il mito della perfettibilità umana immanentisticamente intesa, del progresso e al tempo stesso del recupero dell’intatta ingenuità perduta (buoni selvaggi e isole vergini, Rousseau e Bernardin de Saint-Pierre). L’Occidente è l’Europa occidentale ancora cristiana protesa sull’Atlantico e sul Pacifico, l’Europa à tête anglaise che avrebbe di lì a poco generato la sua figlia ed erede, l’America degli Stati Uniti; l’Occidente è – direbbe Carl Schmitt – il dominio del mare.
Modernità e Occidente: l’endiadi/tautologia “Modernità occidentale-Occidente moderno”
Per questo l’Occidente – come espressione politico-culturale –, ad onta delle sue lontane radici, non si può intendere in quanto concetto se lo si scinde da quello di Modernità; mentre, per contro, l’identità imperfetta ancor oggi da qualcuno sostenuta o per lo meno accettata fra Occidente ed Europa va mutandosi – con il divaricarsi dinamico e concettuale dei due termini – in una identità imperfetta. In effetti, se l’Europa-Occidente era la grande sera dell’avventura della civiltà umana, come la vedeva Hegel, e se d’altro canto gli intellettuali statunitensi dell’Ottocento vedevano piuttosto nel loro paese l’Occidente della Libertà contrapposto a un’Europa delle monarchie e dei sistemi autoritari, va detto che, dopo il 1945, il bipolarismo del “sistema di Yalta” proponeva una divisione dell’ecumène in un “mondo libero” a ovest e in un “mondo socialista” a est, secondo una linea di frontiera che, corrispondendo con la cosiddetta “cortina di ferro”, tagliava in due proprio l’Europa e praticamente ne cancellava non solo la pur policentrica unità (l’Europa-Arcipelago, così definita da Cacciari) ma addirittura la stessa prospettiva d’esistenza politica; e che la battaglia per l’unità dell’Europa, per quanto non abbia ancora condotto a risultati soddisfacenti, evidenzia, oggi, una posta in palio l’oggetto della quale è ancora da decidere. Occidente atlanticocentrico costituito da un’area transatlantica statunitense-canadese (con la problematica appendice latino-americana) e una cisatlantica europea, soluzione prossima alla magna Europa prospettata da alcuni intellettuali conservatori statunitensi9 e coerente con il processo di americanizzazione culturale e pratico- materiale-esistenziale dell’Europa occidentale,10 oppure nuovo Occidente americo-australiano- giapponese distinto – anche se non contrapposto – da un’Europa cerniera tra esso e i mondi asiatico e mediterraneo?
Ancor oggi, non è raro imbattersi in sostanziosi residui dell’antica convinzione che la civiltà occidentale si sia sparsa in e imposta a tutto il mondo grazie alla superiorità del Vangelo sugli altri culti e le altre fedi, o all’eccellenza della filosofia nata nella Grecia di Platone su qualunque altra forma di pensiero, o alla forza intellettuale e spirituale frutto dell’umanesimo e dell’illuminismo11, o alla democrazia parlamentare quale “migliore dei sistemi politici possibili”, anziché grazie alla sua tecnologia e quindi, in ultima analisi, alla sua forza (e alla Volontà di Potenza che la dispiegava, la sosteneva, la legittimava)12: a quelle “vele” e a quei “cannoni” dei quali Carlo Maria Cipolla, in un libro bellissimo, ha dimostrato consistere la vera, forse la sola – ma fondamentale – superiorità dell’Occidente sul resto del mondo.
D’altronde, oggi la questione “Oriente-Occidente” (e quella Nord-Sud, che qualcuno ha proposto di sostituire a essa) appare obiettivamente superata. In un mondo nel quale la concentrazione di vertice della ricchezza, del potere e dei saperi effettivi13 è giunta a livelli mai visti e fino ad alcuni anni fa inconcepibili mentre i detentori di quella e di questo appaiono in numero sempre minore e sempre meno distinguibili, vale a dire che nascondono quanto più possono i loro nomi e i loro volti mantenendosi rispetto alle vicende contemporanee tecnicamente “irresponsabili” (nel senso etimologico di tale aggettivo), si registra il fenomeno sempre più evidente di una “occidentalizzazione” delle élites a livello mondiale. I membri dei ceti dirigenti, di quelli emergenti e di quelli ai primi e ai secondo funzionali – dai Chief Executive Officers ai petits commis d’enterprise
– possono, ormai, appartenere alla nazione, al popolo e/o all’etnia che vogliono, possono professare la religione o la confessione religiosa o il credo filosofico-esistenziale che preferiscono qualora sentano il bisogno d’averne uno: ma parlano lo stesso basic English (che sopravvivrà all’eclisse sociopolitica e perfino socioantropologica delle genti angloamericane), vivono e vestono all’occidentale – salvo restar fedeli alle loro “tradizioni di nicchia” in determinati ambienti e momenti
–, studiano scienze e tecniche scaturite da almeno tre secoli di elaborazione occidentale in Università occidentali o costruite su modelli occidentali, pensano, lavorano, producono, giocano in borsa “all’occidentale”. Ciò che non è Occidente, che non appartiene a esso, vive, tuttavia, dei suoi cascami e si adatta a sopravvivere in “nicchie” tantopiù subalterne e condannate alla subalternità quanto più sono numericamente maggioritarie. Alla dicotomia Est-Ovest e a quella, già socioeconomicamente connotata, Nord-Sud, si va sostituendo, dunque, quella Su-Giù, quella Sopra-Sotto, dotata dei più crudi connotati materialistici. Qualcuno ha sentenziato, purtroppo con humour amaro ma realistico, che “la lotta di classe esiste: e l’hanno vinta i ricchi”. Come anni fa sosteneva lucidamente Claude Karnoouh, lo “scontro di civiltà” (se mai si è davvero dato) si è esaurito in una generale acculturazione all’Occidente. Che attivamente e positivamente riguarda, però, solo gli happy fews che dominano le lobbies e/o ne godono i benefici, in un contesto sociale planetario caratterizzato dagli esiti formali di una dinamica per convenzione detta “democratica” e in una realtà sostanziale che non è mai stata stratificata e caratterizzata da disuguaglianze abissali (papa Francesco direbbe “iniqua”) com’è oggi14.
Chi e che cosa siano, chi e che cosa saranno sotto il profilo etnoculturali gli happy fews del domani, da quale mixing proverranno, di quale melting pot fisioantropologico saranno il risultato, non ha importanza. Occidens captus ferum Orientem cepit. Da qui a qualche decennio gli “occidentali” europei, americani, canadesi e australiani potranno anche aver ceduto il passo ad asiatici e ad africani, ma la “civiltà occidentale”, comunque modificata, continuerà a dominare il mondo esattamente come la civiltà romana attraverso i successivi “umanesimi” gestiti da greci, arabi, celti, germani e slavi e attraverso una dinamica religiosa che ha attraversato le religioni abramitiche per approdare all’indifferenza e all’ateismo ha continuato a dominare la stessa Modernità. Questo, beninteso, salvo paretiani “imponderabili” che nessuno appunto è in grado di ponderare. Perché la storia non ha un senso immanente e in storia tutto è possibile.
Sovranità e sovranismi
Primato dell’individualismo assoluto, quindi di tutto quel che attiene alla Volontà di Potenza: economia, finanza, tecnologia; identificazione della democrazia parlamentare con un sistema che si è in grado e in diritto di “esportare”, e quindi identificazione dell’interesse dell’Occidente con quello del genere umano; civiltà dei diritti sempre più diffusi e approfonditi e della legittimazione della ricerca della felicità; espansione indefinita del ciclo produzione-consumo-profitto e parallela concentrazione della ricchezza; sviluppo indefinito dell’eguaglianza politico-culturale non accompagnata, tuttavia, da quella socioeconomica; tendenziale azzeramento delle differenze qualitativo-culturali e parallela esaltazione di quelle socioeconomiche. Questi i connotati della civiltà occidentale nell’attuale sviluppo del processo di globalizzazione: una “civiltà” che include tutte le élites del pianeta, qualunque sia la loro origine etnoculturale (e ne fa fede l’omogeneizzazione del sapere universitario e delle pratiche si selezione finalizzate alla riduzione della politica a “comitato d’affari” delle lobbies economiche e finanziarie.
Non è questo il profilo dinamico auspicato per la tradizione europea, che rivendica le sue radici cristiane pur nella consapevolezza della laicità dei loro frutti e che, memore della lezione comunitarista già intrinseca ai patti di Westfalia del 1648, allorché si volle porre un limite alla destrutturazione etico-religiosa manifestatasi con le “guerre di religione” e con la “guerra dei Trent’Anni”, pose il principio della mutua inter christianos tolerantia a sigillo della ripresa di un processo di costruzione europea (diciamo processo: non progresso) che avrebbe dovuto essere armonico e, con la dinamica della secolarizzazione, finire con l’includere gli stessi non cristiani mantenendo, tuttavia, inalterato il principio secondo il quale non c’è legge immanente che non debba ancorarsi a un principio di superiore ordine metafisica.
Fu l’avvio dell’età delle Rivoluzioni, e quindi le dinamiche connesse con l’avvio dei nazionalismi e con il loro rapporto con le borghesie capitalistiche, a progressivamente distruggere il carattere comunitarista della cultura europea sostituendolo con l’individualismo massificato da una parte, con il turbocapitalismo tardomoderno e postmoderno dall’altra.
Oggi, dinanzi all’arrogante superpotenza delle lobbies multinazionali che hanno distrutto gli stati facendo della politica il loro “comitato d’affari”, il sovranismo limitato e settoriale di chi si arresta praticamente alla prospettiva di una nuova indipendenza monetaria serve soltanto a spazzar via quel poco di difese comunitarie che le società possono ancora opporre alle élites mondialistiche: le quali, se sono ormai in grado di signoreggiare le realtà istituzionali sovranazionali, tanto più lo sarebbero immediatamente asservendo e fagocitando gli stati europei tornati “indipendenti” l’uno dall’altro, quindi esposti singolarmente al divide et impera delle banche e dei centri di potere privatizzati.
Questo il punto debole dei “sovranisti”: il non esserlo abbastanza. Il pretendersi tali sul paino economico e monetario, ma non su quello della politica, della diplomazia, della difesa. Il pretendere la liberazione dalla sudditanza all’euro ma non quello della sudditanza alla NATO che sta trascinando l’Europa nel suo avventurismo militare e nel gorgo vorticoso di quell’alleanza industriale-finanziaria militare ch’era già stata denunziata come un pericolo, per gli USA, da Dwight D. Eisenhower nel ’60, alla fine del suo secondo mandato presidenziale, e che oggi si è trasformata in pericolo sopranazionale, transnazionale e globale. Contro di esso è necessario in Europa e per gli europei un sovranismo globale, che si eserciti soprattutto e anzitutto nell’àmbito dell’etica e della politica imponendo agli europei di riprendere in mano le redini del loro destino. Per questo sono forse necessari partiti che si strutturino su una base europea battendo le difficoltà localistiche e linguistiche e mirando a una costituzione confederale – preferibile alla federale al fine di garantire maggiormente lo sviluppo delle preziose diversità culturali dell’Arcipelago Europa – appoggiata a un parlamento bicamerale in cui la Camera Bassa sia la voce proporzionale delle varie comunità etno-storico- culturali scomponendo e ricomponendo la geografia continentale sconvolta negli ultimi due secoli circa dalle pretese dei fautori dello “stato nazionale”, mentre la Camera Alta sia garante della continuità rispetto al cammino storico-politico degli stati nazionali quali si sono andati configurando nel secolo XIX e che non può venire sconvolto e azzerato. Ma – attenzione! – a questo eurosovranismo si giunge, appunto, paese per paese che all’unità europea potrebbe dimostrar di ambire ancora (dopo il fallimento o se si preferisce la “falsa partenza” dell’UE), rinunziando a porzioni di sovranità “nazionale”: o, meglio, trasferendone porzioni qualificate a una realtà istituzionale federale o confederale. Credo si debba meditare, senza necessariamente concordarvi su tutto, sull’ultimo libro di Colin Crouch – quello che nel 2003 ha coniato il termine “postdemocrazia” e nel 2018 ha invitato a “salvare il capitalismo da se stesso” –, che ora si mostra in cerca di un’alternativa tra globalismo e sovranismo, tra neoliberismo e conservatorismo: e che non manca di sottolineare come il male non stia nel mercato globale unico, ma nella rinunzia a una governance politica di esso da parte di tutti i governi ad esso cointeressati: fermo restando – e non è più per nulla ovvio – che i governi facciano, o abbiamo quanto meno l’intenzione di fare, gli interessi dei popoli che guidano anziché quelli privati di questa o di quella lobby15.
Per tutto ciò, è necessario che l’Europa miri a una sua effettiva unità politica riprendendo il cammino di libertà e d’indipendenza dai blocchi che ormai non sono più soltanto quelli politici. Ma per conseguire quel “nuovo modello di democrazia rappresentativa” che ormai sono in tanti ad auspicare e a invocare, sarebbe necessario dotarci di strumenti istituzionali adeguati: anzitutto, la convocazione di un’Assemblea Costituente, che dovrebbe venir eletta immediatamente, all’indomani delle prossime elezioni del Parlamento Europeo; quindi, un nuovo Trattato fondativo.
Ma il vero problema resta quello dell’affrancamento dal potere dei “signori sconosciuti” (ma non troppo) che ci dominano con le loro lobbies e, nel contempo – il che in parte è lo stesso problema: non però del tutto – dalla sudditanza rispetto agli Stati Uniti d’America: e, dal momento che non è detto per nulla che Mister Trump ci liberi dalla partecipazione del suo paese alla NATO (tantopiù che il problema non è solo la leadership interna alla NATO, bensì la NATO in quanto tale, che dev’essere riformata profondamente nelle sue istituzioni e nei suoi scopi o scomparire). In altri e più chiari termini, liberarci da una pastoia politico-militare divenuta a più livelli insostenibile per i costi che comporta, per gli obiettivi ai quali mira e per i rischi che rappresenta è divenuto vitale. La nuova Europa non deve ereditare nemici già precostituiti: dev’essere libera di trattare con tutti, anche con gli stati della Shangai Cooperation Organization (SCO) che vede unite Russia, Cina, India e altri partners e che, attraverso la One Road, One Belt, la “Nuova Via della Seta”, si appresta a strettamente collegare mondo asiorientale e mondo mediterraneo. È un’occasione che una nuova Europa politicamente unita nella libertà e nella diversità non può e non deve mancare.
Ma torna, ineludibile, il problema di Schuman: la Comunità Europea di Difesa, che a suo tempo
– nel 1954 – non si poté e/o non si volle fare, e che molti s’illusero potesse venir sostituita dalla NATO. Oggi, la signora Mogherini tanto strapazzata da Matteo Renzi ha promosso un Fondo Europeo per la Difesa che sembra un primo passo per far decollare sul serio la Cooperazione Strutturata Permanente sulla Difesa (PESCO), ch’era stata prevista sì dal Trattato di Lisbona, ma che non era mai stata utilizzata.
Le elezioni di marzo sono alle porte: e noi non siamo preparati; nessuno in Europa sembra esserlo sul serio. I nostri partiti si dividono tra chi è per l’Europa (cioè per lo statu quo, per l’immobilismo attestato sulle ormai inutili se non dannose istituzioni di Strasburgo e di Bruxelles) e chi è contro l’Europa, chi auspica, cioè, un pulviscolo di stati “sovranisti”, certo, ma non sovrani in quanto, divisi, ciascuno dei quali rischia di cadere più o meno presto e più o meno malamente tra le fauci di questo o di quello tra i fronti mondiali che si vanno ormai con sempre maggior chiarezza delineando.
Franco Cardini
1 Per cui cfr. Ph. Chenaux, I padri fondatori dell’Europa: De Gasperi, Schuman, Adenauer, in «Notes et Documents», XLV (janv.-avr. 2018), pp. 21-28.
2 Ma va ricordato che, per gli antichi elleni, la parola “Europa” rimandava a un mondo straniero rispetto al loro, cfr. J. Goody, L’Orient en Occident, Paris 1999, pp. 9, 14. Luciano Canfora ricorda che nell’Iliade non si riscontrano né l’opposizione Europa-Asia, né quella greci-barbari; esse nascono con le guerre persiane o dopo di esse, com’è attestato dalla Geografia di Ecateo di Mileto, divisa in due libri, l’uno dedicato all’Europa (limitata più o meno alla Grecia, Peloponneso escluso, e alle colonie greche) e l’altro all’Asia. La polarizzazione tra greci e barbari compare con Erodoto, l’opposizione tra Europa e Asia con I Persiani di Eschilo, del 472 a.C.; nella Grecia delle città si radicò profondamente l’equivalenza Grecia=Europa=Libertà/Democrazia, Persia=Asia=Schiavitù. Il rapporto Grecia-Europa-Libertà sarà destinato a una lunga storia (L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari 2004, pp.16-18).
3 Sulla pretestuosità della distinzione e sui suoi caratteri storicamente pregiudiziali e astratti, cfr. G. Corm, Oriente e Occidente. Il mito di una frattura, tr.it. Firenze 2002; sulla contrapposizione Oriente-Occidente come falsa e sulla sua necessaria demistificazione cfr. G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino 2003.
4 Cfr. V. Pinto, Sein una Raum, L’Oriente esistenzialistico di Martin Buber e di Vladimir Jabotinsky, in «L’Acropoli», 2, marzo 2004, pp. 203-224.
5 Su orientalismo ed esotismo, e sulle diverse funzioni che l’idea di “Oriente” ha rivestito nella cultura, nella politica e
nella società europee, a parte gli ormai classici lavori di E. Said e di altri, si ricorra per esempio a T. Hentsch, L’Orient imaginaire, Paris 1988. Un tentativo di definire le relazioni filosofiche tra “Oriente” e “Occidente” in termini di “campi filosofici” (evidentemente elaborati all’interno della cultura europea) è in C. Fleury, Dialoguer avec l’Orient, Paris 2003. 6 Ampia documentazione in R. Gobbi, America contro Europa, Milano 2002.
7 Monarchia di Spagna e Commonwealth britannico, ma anche Olanda e Portogallo; mentre il “Behemoth” terrestre, rappresentato dalla Russia e dai paesi germanici, permaneva connesso alla terraferma eurasiatica. Ci serviamo, qui, evidentemente, di specifiche categorie schmittiane.
8 Ma non si dimentichi quanto testimoniato in due libri dall’impianto concettuale discutibile, forse, tuttavia documentati
e terribili: AA.VV., Il libro nero del capitalismo, tr.it, Milano 1999, e AA.VV., Le livre noir du colonialisme, dir. M. Ferro, Paris 2003.
9 La bibliografia al riguardo è anche in italiano ormai ampia, per quanto un po’ ripetitiva. Importante, comunque, il rinvio a L. Edwards, Le radici dell’ordine americano: la tradizione europei nei valori del nuovo mondo, tr.it., Milano 1996, e a
- Donno, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, Firenze 2004. Queste tematiche stanno facendo una certa fortuna e ha trovando adepti anche in Italia, all’interno di una certa destra “tradizionalista” che appare in cerca di nuove giustificazioni e di nuovi padri intellettuali: cfr. AA.VV., Europa-USA, oltre il conflitto, “Percorsi”, 4, genn.2004, pp.13-54.
10 Cfr. AA.VV., L’américanisation de l’Europe occidentale au XXe siècle, dir. P. D. Barjot et C. Réveillard, Paris 2002.
11 Sulla genealogia – forzosa – d’una cultura occidentale tesa monodirezionalmente sul filo diretto Grecia-Roma- Modernità (con un Cristianesimo che pare quasi un incidente di percorso e un Medioevo abbuiato), è significativo il pur bel libro, straordinariamente erudito, di B. Quilliet, La tradition humaniste, Paris 2002.
12 Sull’Oriente come Volontà di potenza, S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata
e i limiti dell’uniformazione planetaria, tr. it. Torino 2002.
13 Con il corrispettivo fenomeno dell’allargamento della base di una umanità sempre più impoverita e “proletarizzata” sotto il profilo socioeconomico non meno che sotto quello culturale, della tendenza ad assottigliarsi e a scomparire dei cosiddetti “ceti medi” (ancora una volta non meno socioeconomici che culturali) e la generale proletarizzazione di quelle che sono state definite non più le “masse” (politicizzate, egemonizzate e consapevoli), bensì le “multitudini”.
14 Cfr.C. Karnoouh, L’acculturazione all’Occidente, ovvero la fine dello scontro di civiltà, “Trasgressioni”, XXII, 2, mag.-ag. 2007, pp. 63-83.
15 C. Crouch, Identità perdute, tr.it., Roma-Bari 2019.