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13 FEBBRAIO 1503: RIGUARDO UNA GUERRA, UN INSULTO E UNA LEZIONE. Di Nicolò Dal Grande

Fra le più affascinanti pagine della plurimillenaria storia della nostra penisola, l’età delle cosiddette “Guerre d’Italia” (1498-1559) fu certamente una delle più cruente. Rappresentarono la realizzazione del monito che Dante Alighieri (1265-1321) espresse nell’immortale canto VI del Purgatorio, definendo l’Italia, sofferente da secoli di divisioni politiche e territoriali, come “nave senza nocchiero in gran tempesta”, paventando il rischio di una prossima invasione straniera. Monito che si concretizzò.

     Tra il finire del XV secolo e la prima metà del XVI, il Regno di Francia, vincente nella “Guerra dei Cento Anni” (1337 – 1453) contro il Regno d’Inghilterra, e la duplice Monarchia spagnola di Castiglia – Aragona, fresca trionfatrice sui “mori” di Granada (1492) – guerra che chiuse l’epopea della celeberrima “Reconquista” – diedero inizio ad un ciclo di conflitti italiani. Esplosi sia per questioni dinastiche che per ambizioni economiche e politiche, videro le due potenze mettere a ferro e fuoco la penisola. Si segnò la decadenza dell’età rinascimentale e la fine dell’indipendenza degli antichi Stati italiani, annessi territorialmente o ridotti a Principati satelliti asserviti ora all’una ora all’altra delle corone straniere in questione. Solamente la Repubblica di Venezia, non senza ferite cocenti, riuscì a mantenere una totale indipendenza; nemmeno lo Stato Pontificio poté considerarsi del tutto immune all’influenza estera, impegnato com’era a contrastare il diffondersi del protestantesimo in Europa e l’espansione ottomana nel Mediterraneo e nei Balcani.

     Numerose le battaglie, le stragi e i saccheggi che si susseguirono dall’allora prima invasione francese per mano di Carlo VIII di Valois (1470-1498) del 1494; si pensi alla sanguinosa battaglia di Ravenna del 1512 o allo spaventoso sacco di Roma per mano lanzichenecca del 1527. Numerosi i personaggi che avrebbero impresso i loro nomi nella storia, da uomini d’arme come Bartolomeo d’Alviano (1455-1515) o Lorenzo de’ Medici “dalle bande nere” (1498-1526) a pontefici quali Alessandro VI (1431-1503) o Giulio II (1443-1513), da sovrani quali Francesco I re di Francia (1494-1547) o l’imperatore Carlo V d’Asburgo (1500-1558), a semplici soldati quali Fabbrizio Maramaldo (1494-1552) o  Ferruccio Ferrucci (1489-1530).

     Un ciclo di guerre che ha tramandato la storia di numerosi episodi militari; uno in particolare ispirò, qualche secolo più tardi, Massimo d’Azeglio (1798-1866) nel comporre il celebre romanzo Ettore Fieramosca: la cosiddetta “Disfida di Barletta”.

     La storia ci riporta alla cosiddetta “Seconda Guerra Italiana” o “Guerra su Napoli” (1499-1504), cinque anni d’intensità rara, che videro lo scenario italiano mutare politicamente in modo impressionante. Furono gli anni della seconda calata francese – dopo la prima, di Carlo VIII del 1494 – per mano del suo successore Luigi XII (1462-1515), in grado di abbattere la signoria sforzesca di Ludovico “il moro” (1452-1504) su Milano, annettendone il Ducato. Fu anche la fase in cui il figlio di papa Alessandro VI, Cesare Borgia (1475-1507), tentò di creare uno stato personale nell’Italia centrale, abbattendo – con il benestare papale – le signorie romagnole e marchigiane, secondo un interessante progetto politico sul quale gli storici discutono: frutto di ambizione “dinastica” dei Borgia o di tentativo pontificio di formare una realtà stabile da contrapporsi all’irruenza francese e spagnola? Una Spagna che non rimaneva a guardare e, in alleanza con la Francia, attaccava nel 1501 il Regno di Napoli retto da Federico II d’Aragona (1451-1504), secondo un segreto accordo siglato da Ferdinando “il cattolico” (1452-1516) e Luigi XII. Il Regno napoletano non poté nulla, crollando rapidamente e venendo spartito dalle due potenze straniere. Un’alleanza che però durò poco; disaccordi sulla spartizione della conquista e della gestione confinaria portarono, nel 1502, allo scontro militare.

     È in questo contesto che s’inserisce la celeberrima “Disfida di Barletta” del 13 febbraio 1503.

     La prima fase di questa rapida ma intensa guerra (1502-1504),  consistette, più che in battaglie, in un ciclo di “duelli cavallereschi” fra condottieri spagnoli, francesi e italiani; già nel primo anno di guerra si svolse una prima “disfida” a Barletta fra francesi e iberici, risoltasi in un nulla di fatto. L’anno seguente, nel mese di Gennaio, si svolse una breve scaramuccia che portò le forze spagnole a catturare diversi cavalieri francesi, tra cui Charles de Torgue (?-?) noto come “Monsieur Guy de la Motte”. Com’era d’uso all’epoca, nobiltà ed etica cavalleresca venivano in primo piano e, nonostante si trattassero di nemici, i francesi furono ospiti ad un banchetto organizzato da Consalvo da Cordova (1453-1515), il “Gran Capitano” spagnolo. Fu durante la cena che avvenne “il grande insulto”; pare che il nobile “ de la Motte” insultasse l’onore dei cavalieri italiani, tacciandoli di codardia sul campo di battaglia, difesi invece a gran voce dal nobile spagnolo Íñigo López de Ayala (?-?). Un insulto simile non poteva essere tollerato e andava risolto secondo regole cavalleresche: un duello.

     Si decise un confronto fra tredici cavalieri italiani contro un pari numero di francesi; ai vincitori sarebbero spettate le armi dei vinti, con un riscatto di 100 ducati su ogni sconfitto. Quattro i giudici nominati.

     Il principe Prospero Colonna (1452-1523) nominò Ettore Fieramosca (1476-1515) a capo della squadra italiana; “de la Motte” per i francesi. Il luogo della disfida fu una piana tra Andria e Corato, nel territorio tranese, all’epoca sotto giurisdizione della Repubblica di Venezia, che controllava diversi porti pugliesi.  Fu un’autentica lezione: i francesi , uno dopo l’altro, caddero prigionieri e sconfitti – secondo la testimonianza del vescovo Paolo Giovio (1483 ca-1552), un francese perì per le ferite –. Pare che, a causa della assoluta convinzione di vincere, i cavalieri transalpini non avessero con loro i ducati per il riscatto e, di conseguenza, pagarono la loro arroganza venendo trattenuti a Barletta sino a quando il riscatto non venne versato proprio dal “Gran Capitano” spagnolo, Consalvo da Cordova.

     La guerra finì nell’arco di un anno; le disfatte francesi a Cerignola e sul Garigliano  consegnarono  il trono di Napoli alla corona di Aragona – Trattato di Lione, 1504 –, che organizzò la conquista in un vicereame pari a quelli già esistenti in Sicilia e Sardegna; Luigi XII dovette accontentarsi del solo Ducato di Milano, mentre i suoi nobili dovettero mitigare il loro giudizio sui condottieri italiani.

     La vittoria fu celebrata in tutta la penisola; ancora oggi un’edicola, edificata a spese del duca di Airola, Ferrante Caracciolo (?-1596) nel 1583, ricorda la giornata del 13 febbraio del 1503, che avrebbe ispirato il d’Azeglio nel comporre il suo romanzo nel 1833. Un evento memorabile che però non cambiò il corso della storia della penisola che, se vide allora salvo l’onore dei propri uomini d’arme, altrettanto osservava impotente due corone estere spartirsi il dominio sulle terre italiche.

Nicolò Dal Grande

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