Siamo in tempi di sigle rampanti. Riprendiamo oggi un discorso già avviato nel Minimum della scorsa settimana. Non è detto che sappiate tutti che cos’è il JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action). Si tratta di una buona cosa, un piano organizzato con una risoluzione speciale del consiglio di sicurezza dell’ONU in forza di un accordo tra i cinque membri permanenti di esso (USA, Regno Unito, Francia, Russia e Cina), ai quali si era aggiunta la Germania da una parte e l’Iran dall’altra. In forza di un patto siglato appunto da questi sette paesi a Vienna il 14 luglio del ’15, con la soddisfatta tutela di Barack Obama, l’Iran aveva rinunziato a portar avanti per dieci anni il suo programma nucleare (pur ribadendo, come la AIEA aveva peraltro dimostrato, che di nucleare a scopo civile e non militare si trattava) in cambio di un sostanzioso alleggerimento dell’insopportabile embargo che, per volontà degli Stati Uniti, da troppi anni grava sul suo sviluppo e sulla sua stesa vita quotidiana.
E qui bisogna intendersi bene: gli iraniani, passati attraverso l’autoritarismo oppressivo e dal progressismo-occidentalismo aggressivo (i chador strappati a forza alle donne nelle campagne) dello shah Mohammed Reza Palhevi, insediato dagli stranieri sovietici e inglesi nel ’41 e quindi progressivamente asservito agli interessi statunitensi specie dopo la proditoria esautorazione di Mossadeq e infine letteralmente cacciato a furor di popolo, non hanno vissuto dal ‘79 in poi in un regime totalitario. Il loro paese, nel sistema della repubblica islamica concepito, elaborato e proposto/imposto dall’imam Khomeini, è una grande democrazia assembleare di tipo quasi “protosovietico”, dove si discute animatamente su tutto, dove i gruppi politici e i giornali d’opinione abbondano, ma ch’è sul piano istituzionale e morale controllato e frenato con energia da una élite di teologi-giuristi. Potremmo definirlo una democrazia “rappresentativa-assembleare” corretta da un’élite teocratica. E la dirigenza iraniana si trova ancora oggi dinanzi a una sfida indilazionabile: il confronto con la Modernità occidentale, già affrontata fin dall’inizio del secolo scorso, accettata dall’imam Khomeini nei suoi aspetti tecnici ma aborrita in quelli civici e morali mentre i riformatori come Khatami, pur non intendendo affatto imitarla, non avevano neppure intenzione d’ignorarla: si trattava e ancora si tratta, da parte dei “conservatori” come dei “riformatori” iraniani, di accettarne comunque e sia pure in modo diverso la sfida. Questi sono ancora i problemi di Rohani, aggravati dalle conseguenze di un embargo dal quale l’Iran stava lentamente uscendo dopo il patto di Vienna e nel quale inevitabilmente e irreversibilmente ricadrà se il brigantaggio di Trump non verrà in qualche modo fermato. Il premier “riformista” Rohani, al governo dal 2013, ha optato per una politica economica liberista – subito approvata dal Fondo Monetario Internazionale – con forti tagli alla spesa pubblica, che ha condotto alla crescita del PIL e al contenimento del rapporto debito/PIL, ma che è stata deleteria sul piano del welfare, con un tasso di disoccupazione in aumento (quello giovanile al 30%) e un forte rialzo dei prezzi: e – anche a causa, a quel che pare, d’infiltrazioni di elementi sospetti –, quella che sulle prime era una protesta dura ma pacifica e vòlta a chiedere provvedimenti socioeconomici è andata sempre più degenerando in azione politica antigovernativa: il che ha provocato una risposta severa da parte dei cittadini favorevoli invece all’establishment.
Ma Trump, spalleggiato anzi incoraggiato e “consigliato” da Israele e da Arabia Saudita, dell’Iran non si fida. Continua a ritenerlo un rogue state. E, con una solenne allocuzione televisiva emessa dalla Casa Bianca l’8 maggio 2018, ha denunziato a nome deli USA il trattato di Vienna di tre anni prima tornando a un regime di pieno embargo nei confronti dell’Iran che ha ricattatoriamente imposto a tutto il resto del mondo, pena l’interruzione per gli stati a ciò refrattari dei rapporti commerciali con gli USA e con la riserva di misure punitive ancora più severe. E’ il vecchio schema che conosciamo: Cuba, la Russia, il Venezuela ne hanno già fatto le spese insieme con l’Iran.
Il brigantaggio va funzionando, per quanto con qualche smagliatura. Quanto a Trump, egli ce l’ha col potere khomeinista sia pure rappresentato dal “riformista“ Rohani (anzi: preferirebbe i duri alla Ahmadinejad, che magari riprenderebbero il supposto programma nucleare consentendo così a Nethanyahu, che non chiede di meglio, di bombardarli); ma non ce l’ha certo col popolo iraniano in quanto tale, ai problemi del quale egli al contrario dichiara bontà sua di sentirsi vicino: senonché de facto – insistendo sul Leitmotiv dell’Iran come “stato che più di tutti al mondo sponsorizza il terrore” (una palese menzogna: il terrorismo è appannaggio di gruppi sunniti e wahhabiti; quindi, dei principali avversari dell’Iran sciita) – dimostra di appoggiare le posizioni israeliane e saudite al riguardo.
L’Europa ha risposto un po’ incerta all’ennesima prepotenza di Chiomarancio Trump; Russia e Cina hanno risposto picche. Nella congiuntura così aperta, la parola passa comunque ai governanti e alla società civile iraniana: sta a loro mantenere i nervi saldi, affrontare un nuovo duro periodo di austerità e di privazioni, sapersi accortamente destreggiare sfruttando le strade che stanno ancora aperte dinanzi al loro paese.
E qui parliamo nuovamente di sigle. Una di esse appare particolarmente felice. Si tratta della SCO (Shanghai Cooperation Organization), il sodalizio fondato nel 2001 tra i cinque stati già aderenti al “patto di Shanghai” – Cina, Kazakhstan, Kirghizistan, Russia, Tajikistan – ai quali si sono andati aggiungendo anche Uzbekistan, India e Pakistan. L’Iran appartiene per ora agli “stati osservatori” della SCO, insieme con Afghanistan, Bielorussia e Mongolia, mentre a ciò vanno aggiunti i dialogue partners: Armenia, Azerbaijan, Cambogia, Nepal, Sri Lanka e – “pezzo forte” fino dal summit del 2012 a Pechino – la stessa Turchia. Anzi, Erdoğan ha avuto a dichiarare che, nel caso il suo paese fosse ammesso al sodalizio ottenendo la piena membership, egli sarebbe disposto a denunziare la sua richiesta di adesione all’UE: una prospettiva che ormai non lo interessa evidentemente più. Semmai, l’adesione della Turchia alla SCO ne comprometterebbe il proseguimento dell’appartenenza alla NATO.
Il ruolo internazionale della SCO non è ancora salito al proscenio internazionale né ha guadagnato – forse anche a causa di un’accorta cintura di sorveglianza mediatica – l’interesse dell’opinione pubblica mondiale: ma potrebbe costituire una nuova carta da giocare, specie se esso entrasse in contatto con quel mondo arabo che finora le è rimasto estraneo, ma nel quale vi sono forse almeno tre o quattro o addirittura cinque paesi – la Siria, il Libano, l’Iraq, il Qatar, forse in qualche modo lo Yemen – che a Shanghai potrebbero guardare con interesse. In caso qualcosa del genere si profilasse, il quadro della “sicurezza ibrida” vicino-orientale delineato di recente da Yezid Sayig, Eleonora Ardemagni e Riccardo Redaelli[1] potrebbe modificarsi sensibilmente e assumere contorni più netti. Anche se, purtroppo, ciò comportasse l’ulteriore rischio di più precisi schieramenti affrontati. Il che riguarderebbe ancora una volta il “convitato di pietra” della politica internazionale: un’Europa forte ed effettivamente unita anche sul piano politico, che a questo punto dovrebb’essere in grado di affrontare anche l’incognita – e in gran parte la contraddizione – della permanenza nel sistema politico-militare della NATO.
FC
[1]Y.Sayig – E. Ardemagni – R. Redaelli, Sicurezza ibrida: eserciti e milizie negli stati arabi in frantuni, Milano-Beirut, ISPI-Carnegie Middle East Center, 2019.
* Tratto dal blog www.francocardini.net