LA TELENOVELA[1] DELLA PRESCRIZIONE
Una breve premessa
Da sempre la dottrina giuridica mette a base della prescrizione dei reati la convinzione, indubbiamente esatta, che man mano che ci si allontana dalla commissione del reato, sempre meno si giustifica la pena.
Solo in tempi più recenti e quasi con una certa timidezza, forse a causa della tradizionale collocazione dell’istituto nell’ambito del diritto positivo e non in quello processuale, si è riconosciuto (o, quanto meno, se n’è espressamente tenuto conto nella elaborazione di progetti di riforma) nella prescrizione “un fatto funzionale anche alla tutela della ragionevole durata del processo”. E’ di questo aspetto della prescrizione, di questo fatto funzionale che esclusivamente ci si occupa nei paragrafi che seguono non senza avere comunque rilevato che l’eccessivo prolungamento dei tempi di prescrizione collide anche con quella sia pur relativa tempestività che tradizionalmente giustifica l’intervento punitivo dello Stato.
Prescrizione e presunzione d’innocenza
I partiti di maggioranza si sono accordati per approvare oggi, ma con efficacia differita a gennaio 2020, la norma che elimina la prescrizione penale dopo la pronuncia della sentenza di primo grado quale che ne sia il contenuto (condanna o assoluzione). Un compromesso accettabile solo perché si tratta, in sostanza, di un rinvio dato che l’indicazione della data dovrebbe sottolineare l’inderogabile esigenza che l’entrata in vigore della norma sia condizionata al suo inquadramento nella riforma del processo penale, che il governo conterebbe di condurre in porto entro il 2019. Sempre che si riesca nel non facile compito di costruire un processo penale capace di rendere compatibile con i principi costituzionali la nuova disciplina della prescrizione. Nella situazione vigente questa sostituisce al principio della presunzione di innocenza stabilito sia dalla Costituzione (art. 27) sia dalla Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo (art. 6/2°comma) quello opposto della presunzione di colpevolezza. Una presunzione tanto forte da non venire superata nemmeno dall’assoluzione in primo grado. Difatti l’emendamento, fortissimamente voluto dal M5S e dal ministro Bonafede, consente di tenere sotto accertamento sine die chi abbia avuto la sventura di suscitare l’attenzione del sistema giudiziario. Si può auspicare, come fa il ministro, che, venuto meno l’interesse degli imputati colpevoli e dei loro difensori a tirarlo per le lunghe nella speranza di approdare ai lidi salvifici della prescrizione, il processo penale diventi più celere. Si tratta però di auspicio improbabile, perché, prescrizione o non prescrizione, i colpevoli hanno comunque interesse a dilazionare il più possibile la definitiva condanna, ma se anche così non fosse, una volta eliminata la prescrizione il processo sarebbe suscettibile di una durata, se non infinita, a vita (dell’imputato). Basta difatti che la Procura traccheggi o che i giudici dei gradi successivi al primo non fissino l’udienza di discussione o concedano una serie interminabile di lunghi rinvii, perché l’imputato resti sotto torchio appunto a vita. Il che è forse (molto forse) ammissibile per un presunto colpevole, certamente non per un presunto innocente. Diciamo (sperando che non avvenga) che al primo forse è consentito rovinare l’esistenza (magistrati e avvocati sanno quanto sia punitivo già di per sé il processo penale), al secondo certamente no.
Il termine ragionevole e i termini di prescrizione
In ogni caso a togliere ogni dubbio sulla illegittimità di fondo (allo stato) della nuova prescrizione provvede la prima parte del già citato articolo 6 della CEDU; “Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti”.
Alla luce di questa norma già oggi risulta quanto meno dubbia la conformità temporale del nostro processo penale, non solo nella sua realtà effettuale, ma anche, e soprattutto, tanto nella previsione normativa. Forse non è per caso che i supporter dell’abrogazione della prescrizione e della punibilità ad oltranza additino al pubblico ludibrio i casi di assoluzione per intervenuta prescrizione di gravi e gravissimi reati, ma trascurino di quantificare gli anni che debbono trascorrere per pervenire a tale, certamente deplorevole, risultato.
Già la lettura della norma base, l’art. 157 del codice penale, insinua più di un dubbio sulla ragionevole durata del processo penale italiano: “La prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria”.
Quindi almeno sei anni anche per il più semplice dei furtarelli, che ad ogni buon conto vengono, già dallo stesso art. 157, raddoppiati per i reati ritenuti di particolare gravità. Si arriva così a dodici anni nelle ipotesi-base del reato di associazione di tipo mafioso, e a venti per la violenza sessuale.
Sospensione, interruzione, congelamento
Ad apportare ulteriori aumenti dei termini prescrizionali intervengono poi eventi e strumenti che ne sospendono il decorso. Si tratta delle “cause di sospensione”. Come, a titolo esemplificativo, l’autorizzazione a procedere, la rogatoria del magistrato all’estero, l’impedimento delle parti e dei difensori, alle quali la legge 23/6/2017 n. 103 (cosiddetta “Riforma Orlando”), ne ha aggiunta una del tutto nuova, ribattezzata “congelamento della prescrizione” Dispone al riguardo l’art. 159/2° comma codice penale: “ Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso nei seguenti casi: 1) dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi;
2) dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi”. In pratica, sia pure a determinate condizioni, un aumento di tre anni per tutti i termini prescrizionali.
Vi sono poi le “cause di interruzione” (es. convalida fermo e arresto, rinvio a giudizio, sentenza di condanna) che la riportano alla casella di partenza, dando inizio ad un nuovo conteggio. E’ ben vero che in questi casi interviene l’art. 161 col fissare la regola-base che “in nessun caso l’interruzione della prescrizione può comportare l’aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere”. Lo stesso art. 161 prevede però eccezioni con riferimento al tipo di reato o a circostanze personali, per le quali l’aumento può arrivare alla metà (è il caso dei reati corruttivi, la cui effettiva punizione sta molto a cuore ai riformatori a cinque stelle), a due terzi o addirittura al doppio (il raddoppio è previsto per i delinquenti abituali e professionali).
Per i reati corruttivi basti ricordare la corruzione attiva e passiva di cui agli artt. 319 e 321 del codice penale, che, nell’ipotesi base. stabiliscono in dieci anni la pena e, quindi, in altrettanto la prescrizione. Anni che per la corruzione in atti giudiziari aumentano, a seconda dei casi, a 12, 14 e 20. Non va poi dimenticato che per una folta schiera di tali reati corruttivi la legge n. 103/2017 ha introdotto nuove cause di sospensione della prescrizione ed ha portato alla metà, dal quarto previsto dall’art. 161, l’aumento massimo del tempo prescrizionale sicché, per restare all’esempio fatto (reati previsti e puniti dagli artt. 319 e 321 del codice penale), la prescrizione matura, sempre che ad allungare i termini non siano intervenute cause di sospensione solo dopo 15 anni con possibile aumento a 18 per effetto del “congelamento”.
Alla luce di quanto finora detto non si può non condividere chi parla di una sostanziale imprescrittibilità di alcuni reati (senza dubbio particolarmente odiosi come gli abusi sessuali e i maltrattamenti in famiglia a danno di minori) ottenuta facendo iniziare la prescrizione dal compimento della maggiore età da parte della vittima o, qualora l’azione penale sia stata promossa prima, dalla acquisizione della notizia di reato. Quindi, in entrambi i casi, attraverso la determinazione di un momento diverso dalla commissione del reato. A tale proposito un articolo del Sole24 Ore propone il caso di abuso su minore degli anni 10, per il quale “il termine di prescrizione massimo – che in presenza di atti interruttivi ordinari poteva già arrivare a 35 anni – aumenterà a 43, cui eventualmente aggiungere il congelamento triennale della prescrizione”. Qualunque cosa se ne pensi, sarebbe più ragionevole includere questi reati fra quelli non soggetti a prescrizione (attualmente quelli puniti con l’ergastolo).
De jure condendo: processualizzazione della prescrizione
Ovviamente il problema verrebbe di fatto risolto o comunque nessuno avvertirebbe l’urgenza di occuparsi della prescrizione se i processi si concludessero in quei 4-7 anni a seconda dei casi, dopo tutto non pochi, ma che in genere si ritengono ragionevoli e comunque pari o minori anche dei più ridotti termini prescrizionali. Un’ipotesi di auspicabile realizzazione, ma non probabile quanto meno non in tutti gli uffici giudiziari, che già oggi presentano enormi differenze. In ogni caso anche se i tempi massimi di durata dei processi venissero fissati per legge, come si è tentato di fare, si dovrebbero comunque stabilire le conseguenze di sforamenti che rimetterebbero in ballo la questione del “termine ragionevole” e, quindi, della prescrizione di altri istituti con effetti similari.
Riprendendo in parte spunti affacciatisi in progetti poi abortiti (“Sen. Gasparri” del 2010, “Commissione Fiorella” del 2012 – le linee-guida da questa elaborate sono state però in gran parte recepite dalla riforma “Orlando” -) e presenti anche nella vigente disciplina per i reati a danno di minori di cui sopra, una via d’uscita potrebbe essere quella della processualizzazione della prescrizione (si mantenga o no questo nome), che attualmente è istituto di diritto sostanziale dal momento che estingue il reato (art. 157 codice penale). Col completo trasferimento nell’ambito processuale la prescrizione (o l’istituto che la sostituisca) influirebbe invece esclusivamente sull’esercizio del potere punitivo dello Stato, sicché una volta che il processo abbia superato il tempo massimo consentito il giudice dovrebbe pronunciare una sentenza non di assoluzione, ma di non luogo a ulteriormente procedere. E’ vero che in tal modo si rinuncerebbe a quello che è stato definito “l’interesse a che i processi penali si concludano con un accertamento nel merito”, ma è altrettanto vero che tale accertamento manca, di fatto, anche quando il processo si chiude per l’intervenuta estinzione del reato. In ogni caso il sacrificio di questo interesse sarebbe ampiamente compensato dal fatto che la processualizzazione consentirebbe la decorrenza della prescrizione non dalla data di commissione del fatto o di verifica dell’evento, ma, per ogni imputato, dal momento della promozione dell’azione penale nei suoi confronti. O, ancor più ragionevolmente dato che qui hanno inizio lo stress e la “sofferenza” processuale, dal momento in cui questi ha notizia, anche non ufficiale, della sua iscrizione nel registro delle notizie di reato con persone note (modello 21). In questo modo i tempi rispetto alla data di commissione del reato potrebbero allungarsi anche di anni senza lesione del principio costituzionalmente garantito del “termine ragionevole”, perché gli effetti negativi e le afflizioni a carico dell’imputato, alle quali tale ragionevolezza vuole porre rimedio col limitarle nel tempo, iniziano ad operare non dalla commissione del fatto, ma dalla sottoposizione a processo. Ugualmente non viene leso il principio della presunzione di innocenza, perché proprio il provvedimento di non luogo a ulteriormente procedere, che decreta la fine dell’esercizio del potere punitivo dello Stato, esclude in radice la possibilità di una “condanna definitiva”.
Francesco Mario Agnoli
[1] Trascurando i progetti abortiti o incorporati in altri: Legge 5/12/2006 n. 251 (cosiddetta ex-Cirielli) modifica e tendenzialmente riduce i termini di prescrizione rispetto alla disciplina del 1975; legge 23/6/2017 n. 103 (cosiddetta “riforma Orlando”) allunga i termini; emendamento Forciniti-Businarolo al ddl anticorruzione (novembre 2018), blocco della prescrizione. Prossima puntata al 2020.