Già il Barone Roman Fëdorovič von Ungern Sternberg è personaggio scomodo a priori: scorbutico eroe della resistenza “bianca” russa contro il bolscevismo negli anni ’20 del XX secolo, profeta di un’eurasismo tradizionalista che in nome di un nuovo Czar avrebbe dovuto ri-unire Asia ed Europa in una nuova Crociata buddhista contro l’occidente marcio e la rivoluzione rossa sua avanguardia, eroe letterario mondiale in decine di romanzi (da Ossendowski in poi, belli, decenti ed ignobili, ça va sans dire…) e persino dei fumetti, grazie al nostro Hugo Pratt.
Finì onorevolmente fucilato, dopo un processo politico indecente, da un plotone dell’Armata Rossa nel 1921. Non merita di essere riammazzato oggi da operazioni editoriali fai-da-te, da traduzioni ignobili e dal tritacarne dell’editoria plebea. Non infierite: lasciatelo oggi riposare in pace.
Una storica editrice romana specializzata in astrologia e new age ha pensato bene quest’anno di tradurre, ovviamente grazie ai fondi dell’”Istituto per la Traduzione” della Federazione Russa, il lungo saggio di Leonid Juzefovič Samoseržec Pustyni. Baron Roman Fëdorovič Ungern-Šternberg i Mir, V kotorom on Žil del 2015, optando per un titolo in italiano “intelligente” ma in realtà solo furbo, Il Barone Ungern. Vita del Khan delle steppe.
Nel momento in cui anche in Italia, sull’onda della scoperta diffusa dell’eurasismo, si assiste ad una rinascita dell’interesse nei confronti della figura e della leggenda del “Barone sanguinario”, non c’è da stupirsi che anche editrici attente unicamente alle maree del mercato cerchino di inserirsi comprando diritti e traducendo; e se la mancanza di discernimento iniziale comporta sempre il rischio di affidare al lettore italofono delle solenni sòle (per dirla alla romana), a volte il caso è compassionevole, e in tal modo il lettore italofono medesimo si trova a poter leggere perle inattese.
Nel nostro caso, né l’una né l’altra. Il saggio in questione è ben lungo e verboso come da tradizione russa, ricco di divagazioni che solo in parte attengono alla vicenda terrena di Roman Fëdorovič von Ungern Sternberg; ma che in compenso aiuta a cogliere nella sua brancaleonesca complessità la realtà umana e sociale della rivoluzione e della controrivoluzione nell’Oriente russo dopo il 1919. Certamente, l’Autore è costretto a scriver di temi che platealmente sfuggono alle sue competenze, ossia a discettare di religioni dell’Oriente, e fra buddhismo, tantrismo e sciamanesimo poco capisce e molta confusione fa, e occorre anche dire che non brilla nemmeno per quanto concerne la capacità di spiegare agli europei occidentali il mondo dell’Ortodossia russa. Si dirà che noi italiani siamo in ciò privilegiati, potendo contare sulla lezione e sulla profondità di Giuseppe Tucci, e ciò è verissimo; ma quanto l’Autore si allarga dalla storia della Mongolia alla descrizione dei suoi usi e costumi religiosi, appare inutile poi prendersela con le approssimazioni letterarie di un Ossendowski, perché fa veramente peggio; per non parlar del Tibet, ché quando viene citato basta scorrer veloci le righe e passare oltre.
Ma da un Autore noto in Russia per la sua produzione di romanzi storici non c’è poi da attendersi molto di più, se non il maneggiare l’ampia messe di voci, testimonianze a mezza bocca e leggende coeve attorno a Ungern: e il prodotto finale, tenuto conto di questi limiti strutturali, sarebbe addirittura gradevole.
Se non fosse che la traduzione italiana è da impalatura nel vento della steppa. Il bello è che non solo la casa editrice ci attesta l’esistenza di un traduttore (P.I.), ma persino si vanta del fatto che cotanta traduzione sarebbe stata persino “revisionata” da M.M. Per carità cristiana ci limitiamo alle iniziali.
Suvvia, sappiamo bene come vanno queste cose in Italia: per necessità ci si prende in carico fatiche interpretariali degne di un Dostoevskji per quattro soldi, patteggiati con unghie e denti dall’astuto editore che in linea generale sottopaga (quando paga) e ovviamente non controlla ciò che ne viene fuori, mancandogli se non le competenze almeno l’interesse a farlo; e pertanto si tira via lavorando di notte, quando non si abusa di Google e si sforbiciano i testi originali per far prima. Nel nostro caso non deve aver lavorato di giorno nemmeno il controllore, probabilmente per le medesime dinamiche schiavistiche di prezzo-prestazione. E tuttavia c’è un limite di decenza a tutto.
Karl Marx aveva probabilmente ragione quando stigmatizzava l’abitudine dei russi a disperdersi in infinite discettazioni ed inutili discussioni senza approdo, anche se è vero che sono gli unici europei in cui il suo verbo rivoluzionario ha alla fine attecchito. Di fatto il russo è lingua complessa e plurilivello, e non si traduce a tagli generici e secchi come l’american english.
Questo testo, nella traduzione italiana che anche noi abbiamo letto, mostra cadute di comprensione preoccupanti, in quanto è zeppo di frasi sgangherate e senza un senso compiuto, e di lunghe descrizioni e perifrasi in cui ai tre quarti del cammino tutto scivola nella palude del non-senso. Ovviamente il lettore comprende il senso generale delle cose scritte in origine da Juzefovič, e se non è del tutto scarso sul tema Ungern, colma con quanto ha già letto i passaggi in cui, per essere comprensivi, l’italiano della traduzione è povero e vago.
Ma a fronte di ciò lo scopo di una “revisione” è appunto quello di sorreggere il debole e il fragile; e di ciò non si vede francamente traccia. Dopo aver a lungo subìto, lo spirito definitivamente si ribella, assieme ad un minimo di considerazione per la figura del Barone quando, a conclusione di un itinerario linguistico non meno gravoso delle marce forzate lungo il Gobi dei resti della Divisione di Cavalleria Asiatica, si viene a scoprire (pag. 381) che «Recentemente il Barone è stato uno dei personaggi principali del film d’animazione franco-italiano in una serie che racconta le avventure di un cavaliere di Malta3». E mentre tremano le vene dei polsi per l’orrore, aprendo lentamente le pagine delle note a fiato sospeso si rimane increduli e si trae conferma di quanto temuto: il «cavaliere di Malta» sarebbe in realtà il Corto Maltese di Hugo Pratt. “Revisionando” la traduzione, non si è nemmeno messo d’accordo la traduzione italiana del testo con le note a fondo capitolo. Chissà la felicità dell’”Istituto per la Traduzione” della Federazione Russa, per il magnifico uso fatto dei suoi finanziamenti.
In conclusione, un angoscioso grido squassa il nostro cuore e l’intelletto del lettore: perché occuparsi di storia quando è sufficiente continuare a pubblicare libretti su Bruce Lee e sull’astrologia per amanti in difficoltà?
Poi: a quando una traduzione decente di questo saggio? Non passerà alla storia, ma non merita nemmeno il tristo e gelido gulag dell’insipienza.
In sospirata attesa,
Blade Runner