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IL RITORNO DEI DAZI E IL LORO RUOLO NELLA RIDEFINIZIONE DELL’UE. Di Claudio Giovannico

Nel corso della settimana appena trascorsa sono accaduti, più o meno contestualmente, due avvenimenti che potrebbero avere interessanti ricadute all’interno del processo di ridefinizione del quadro europeo.

A distanza di circa tre mesi dalle consultazioni elettorali di marzo, nel nostro Paese si è infine costituito un Governo, dal carattere piuttosto critico (almeno nelle intenzioni espresse) verso l’Unione Europea e in particolare verso le sue regole economiche. Allo stesso tempo, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, l’amministrazione Trump ha introdotto, quello che fino a non molto tempo fa veniva considerato uno strumento di politica economica “desueto”, il dazio, rivolgendo detta misura, tra gli altri destinatari, anche al settore economico europeo, con lo specifico intento di colpire la produzione tedesca.

Tutto è iniziato con le barriere tariffarie innalzate nei confronti di quei Paesi in cui sono concentrate le delocalizzazioni industriali, colpendo peraltro settori non strategici, come il tessile. Adesso, invece, l’operazione è divenuta più massiccia, con l’introduzione di dazi sull’acciaio; un comparto industriale ancora rilevante per l’economia del mondo.

Immediata è stata la reazione di Bruxelles nel condannare la scelta statunitense di immettere dazi sul mercato, tacciandola di “protezionismo”, con il rischio che possa innescare un circolo vizioso in grado di condurre a una guerra commerciale.

Affermazione in parte veritiera, che tuttavia non considera, o meglio non riconosce volutamente, che ad esempio una guerra commerciale è già in atto, da una ventina d’anni circa, proprio in Europa.

Il caso dell’Unione Europea e della relativa area valutaria comune interna alla stessa dimostra, infatti, come dinamiche mercantilistiche e di dominio commerciale di alcuni Stati su altri siano possibili anche in un sistema economico di libera concorrenza dei mercati. Una guerra commerciale combattuta a suon di dumping fiscale e salariale, che ha prodotto una diffusa sottooccupazione a basso reddito, al netto di un aumento dei profitti per il sistema industriale teso all’esportazione. Da qui deriva, non a caso, la superiorità competitiva tedesca, che in un sistema economico e monetario a cambi fissi ha provocato gravi asimmetrie commerciali, tradottasi per alcuni Paesi (come la Germania) nella possibilità di esportare con una moneta svalutata, mentre per altri ne ha rappresentato una sopravvalutazione. Una pratica che tuttavia non può continuare all’infinito e che alla lunga finisce per diminuire il potere d’acquisto e quindi comprimere i consumi, creando una spirale di dipendenza dall’estero.

Si comprende che la storia del “libero commercio in libera concorrenza” è nulla più che una narrativa, dai tratti fortemente ideologici, considerato che tutti gli attori presenti giocano con le carte truccate e molti fra questi fanno un po’ di quel protezionismo che in questi giorni è stato rimproverato a Trump. Basti pensare alla Francia che ha impedito a Fincantieri l’acquisto dei suoi cantieri navali strategici, o alla Germania che fa dumping proprio sulle auto che vende in USA con una moneta per lei svalutata, o all’India che nei mesi scorsi ha alzato tariffe su 50 prodotti importati; a dimostrazione del fatto che nel sistema liberoscambista trae maggiore vantaggio chi non segue pedissequamente le regole.

Ciò che differenzia, pertanto, il dazio dalle misure appena citate è che esso si lega dichiaratamente all’interesse nazionale, diversamente dal dumping salariale ad esempio, che concettualmente non ha legame, perlomeno diretto, col territorio e con la relativa istituzione pubblica rappresentativa.

Nello specifico, si tratta di un’imposta indiretta che colpisce la circolazione di prodotti in arrivo dall’estero. Storicamente, è stata sempre utilizzata per proteggere i settori produttivi da competitori diretti dei comparti industriali ritenuti strategici e che pertanto si sceglie di rafforzare. Di per sé, all’interno della competizione geoeconomica globale in atto, il dazio rappresenta a tutti gli effetti uno strumento, non diverso, tuttavia, da misure di politica commerciale di altro genere e tipo, le quali presentano comunque carattere distorsivo della cosiddetta “concorrenza perfetta”.

C’è di buono, dunque, che l’introduzione di queste “vecchie” misure ha avuto l’effetto di sferrare un duro colpo al mito del libero scambio e della globalizzazione, quale emblema della pace nel mondo, smascherandola definitivamente e permettendo quantomeno di tornare a interpretare le vicende internazionali in termini di realpolitik.

In questo contesto, il duello Usa-Germania per il controllo dello spazio europeo potrebbe persino rappresentare un’opportunità al fine di riconfigurare i rapporti intraeuropei, nell’ipotesi in cui alcuni Stati, Italia in primis, dovessero rivelarsi in grado di cogliere l’occasione e tradurla politicamente, per ridurre il peso della Germania. Tuttavia, il rischio concreto è quello di finire per fare gli interessi d’oltreoceano, con il risultato di dividere ancora una volta l’Europa in un’area di influenza americana, da un lato, e in una seconda area, con in testa la Germania, protesa ad est, dall’altro, decretando la fine del sogno europeo.

Claudio Giovannico

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