Meraviglia che, con riferimento a quelle attuali, si sia fatta scarsa menzione, nonostante l’identità dei principi in ballo, delle polemiche suscitate a suo tempo dai discorsi del presidente Giovanni Gronchi, rievocati in un mio recente scritto. Forse si spiega col fatto che commentatori e costituzionalisti sono – beati loro – più giovani di me e non hanno avuto occasione di vivere la vicenda in prima persona. Allora come oggi l’ accusa era di avere messo in campo, quanto meno in termini di proposizione e promozione (nel caso di Gronchi, che non andò al di là di messaggi e discorsi), una propria linea politica, invasiva delle competenze del Governo e non compatibile con le funzioni di supremo, imparziale garante assegnate dalla Costituzione al Presidente della Repubblica.
Nel caso dell’attuale presidente non si tratta tanto di messaggi quanto delle modalità di esercizio del potere di nomina del Presidente del Consiglio e, su proposta di questi, dei ministri. Un potere, attribuitogli dall’art. 92/2° comma della Costituzione, che, almeno per quanto riguarda il Presidente del Consiglio, un inevitabile margine di discrezionalità lo concede. Già più dubbio il caso dei ministri in quanto la nomina avviene su proposta del Presidente del Consiglio, al quale non può non spettare la prima scelta dei suoi collaboratori come conseguenza della direzione della politica generale e della relativa responsabilità che gli competono (art. 95). Tuttavia, dal momento che ne viene richiesto l’intervento mentre si potevano affidare nomina e revoca direttamente al Capo del governo, sembra costituzionalmente corretto riconoscere al Presidente della Repubblica un pur ristretto margine di valutazione attraverso la non convalida di qualche proposta. In questo senso, anche se pochissimi sono stati negli anni i casi, è la prassi costituzionale.
Nelle recenti polemiche è all’art. 92 Cost. che si sono appellati giuristi e giornalisti scesi in campo a difesa del Colle. In realtà, se non i giornalisti, almeno i giuristi dovrebbero sapere (e certamente non ignorano) che ogni norma va letta e interpretata alla luce dell’ordinamento e del contesto specifico di cui fa parte.
Ora, essendo la nostra una repubblica parlamentare, è indubbio che l’organo centrale del sistema è il Parlamento, sicché è a questo che compete la valutazione, fin dalla sua nascita, del governo, che appunto alle Camere deve presentarsi per averne la fiducia. Ne consegue che i poteri di scelta tanto del Presidente della Repubblica quanto, per i ministri, di quello del Consiglio debbono essere esercitati avendo sempre presente la necessità di assicurare o, quanto meno, di agevolare l’ottenimento di questa indispensabile fiducia. E’, quindi, in vista di questo fine (al cui raggiungimento comunque rileva anzitutto la scelta della persona cui conferire l’incarico di formare il governo) che si può riconoscere anche al Presidente della Repubblica una certa (nel senso di comunque ridotta) facoltà di correzione delle proposte di nomina ai ministeri.
Di conseguenza, venendo ai fatti di questi ultimi travagliati mesi, perfetta aderenza al dettato costituzionale della iniziale decisione del presidente Mattarella di non conferire l’incarico per la formazione del governo a chi non fornisse garanzie di avere in parlamento la necessaria maggioranza e di non mandare allo sbaraglio chi si riprometteva di procurarsela una volta in carica, raccattando, non si sa bene come (i precedenti, che hanno perfino dato luogo anche a processi penali, non sono incoraggianti), consensi parlamentari strada facendo. Insomma, in questa fase si è correttamente tenuto conto della necessità di relazionare il percorso di formazione del governo anche all’ottenimento della fiducia da parte dei Parlamento. Necessità invece del tutto trascurata nella seconda fase, quando Mattarella ha bloccato la formazione del governo che, secondo le più ragionevoli previsioni, godeva in Parlamento di una sicura maggioranza, preferendogli, a causa della presenza di un ministro sgradito, un esecutivo destinato a sicura bocciatura.,
Nemmeno si può sostenere che Matterella abbia agito in stato di necessità per rispondere alla drammatica esigenza di mettere comunque in campo un esecutivo. Senza dubbio in ogni crisi possono determinarsi situazioni che costringono a presentare alle Camere un governo con scarse o nessuna probabilità di ottenerne la fiducia. Tuttavia un’operazione di questo genere rimane conforme al dettato costituzionale solo quando, esperito ogni tentativo, non sia stato possibile reperire una maggioranza propensa a concedere la fiducia.
Mattarella o i suoi (finora cattivi) consiglieri si sono resi conto dell’errore commesso con il troppo frettoloso conferimento dell’incarico al “tecnico” Cottarelli e lo hanno volentieri messo in standby per dare spazio al tentativo di rilancio del governo “politico” cosiddetto gialloverde proposto dall’on. Di Maio, forse per farsi perdonare la minaccia di impeachment, con qualche modifica nella compagine governativa per rimuovere o rendere innocuo il ministro sgradito. Mentre scrivo non si sa ancora come finirà, ma da un punto di vista costituzionale poco importa. Se il tentativo andrà in porto il governo avrà la fiducia del Parlamento, se fallirà il varo di un cosiddetto “governo del presidente” apparirà (un po’ in ritardo, ma al passato non c’è rimedio) costituzionalmente giustificato dalla sopravvenuta impossibilità di formare una maggioranza.
Francesco Mario Agnoli