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CRISI DI SISTEMA? Di Francesco Mario Agnoli

Giovanni Gronchi (1887 – 1978)

Non sono  un “costituzionalista”, ma  nel remotissimo anno accademico 1955-56, mi laureai con  lode in diritto costituzionale, discutendo col prof. Ferruccio Pergolesi la tesi I poteri del Presidente della Repubblica in relazione alle funzioni di governo. La quarta parte della tesi, Le funzioni presidenziali nell’opera concreta dell’on. Einaudi e dell’on. Gronchi, mette a fuoco le ragioni che spinsero alla scelta dell’argomento un giovane laureando molto coinvolto dalle violente polemiche, anzitutto politiche e giornalistiche, ma con l’intervento dei maggiori costituzionalisti dell’epoca, seguite ai discorsi del successore di Luigi Einaudi alla presidenza della Repubblica. A quel momento molti istituti previsti dalla Costituzione non erano stati ancora realizzati e  il neo-presidente ritenne di iniziare il suo mandato con un  messaggio alle Camere (11 maggio 1955), nel quale richiamava “la necessità che la Costituzione sia compiuta negli istituti previsti, quali la Corte Costituzionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, l’ordinamento regionale, il Consiglio dell’Economia e del Lavoro, e nell’adeguamento della legislazione e del costume”.

  Le polemiche non risparmiarono nemmeno la richiesta di attuazione di istituti specificamente previsti dalla Costituzione, perché alcune parti politiche avevano cominciato a dubitare della loro utilità (in particolare dell’ordinamento regionale, ma non solo). Comunque a determinare le accuse di invasione di campo fu soprattutto l’accenno all’adeguamento della legislazione e del costume, esemplificato dal presidente Gronchi, fra l’altro, con la necessità di inserire compiutamente nella vita del Paese il mondo del lavoro, di trasformare “sia pure gradualmente i rapporti che intercorrono fra i ceti e le classi”, con l’avvertenza che “la ricerca di nuove forme economiche non può essere disgiunta dalla conservazione della libertà individuale” e la sottolineatura di alcuni compiti dello Stato, che “può dare un valido concorso a nuove forme di rapporti fra le categorie sociali” dal momento che ad esso spetta “in primissima istanza la responsabilità di creare le condizioni necessarie all’ordinato sviluppo democratico della comunità nazionale”. Per chiudere, già allora, oltre sessant’anni fa,  con la necessità di “mantenere la stabilità monetaria”.

  Si parlò, con  forti accenni critici, di un vero e proprio programma di governo, di discorso da Presidente di una Repubblica non parlamentare, ma presidenziale, di “un discorso che messo in bocca ad un Presidente del Consiglio certamente non ci stupirebbe”.

  Polemiche rinvigorite dalle parole rivolte da Gronchi il successivo 20 ottobre ai prefetti di nuova nomina, invitati a “non fare alcuna distinzione fra partiti al potere e partiti all’opposizione, quando si tratti di fare rispettare da tutti  imparzialmente e inflessibilmente la legge”, e ad ispirarsi alla sensibilità sociale che caratterizza la nostra epoca. Anche in questo caso  si biasimò  il Capo dello Stato per avere impartito  direttive spettanti soltanto al Governo. Si disse che “niente di simile si è mai verificato durante il settennato dell”on Einaudi” quando “il Governo formava le direttive politiche ed il Capo dello Stato si limitava ad un’alta funzione di controllo, l’on. Gronchi vorrebbe invece sovvertire tutto questo, privando il Governo di alcune sue prerogative”. Un mese dopo il discorso rivolto agli ambasciatori  durante una visita di omaggio (così definita in una molto critica interrogazione parlamentare di don Sturzo) valse a Gronchi l’accusa di volere influire anche sulla politica estera.

  Molta acqua è passata sotto i ponti. Vi sono state modifiche della Costituzione e, pur se queste non hanno riguardato il Presidente della Repubblica e i rapporti col Governo, quella che viene definita la Costituzione vivente (un termine  utile anche a coprirne le violazioni) rende oggi, in particolare dopo le presidenze Cossiga e Napolitano, quasi incomprensibili quelle polemiche rivolte a semplici manifestazioni verbali.

   All’epoca il giovane laureando si schierò dalla parte di Giovanni Gronchi e, citando a conferma un discorso tenuto dal Presidente a Massa l’11 dicembre 1955,  ritenne di avere dimostrato che questi non aveva  mai superato la funzione, attribuitagli dalla Costituzione, definibile come “di consiglio”. Restava, a suo parere, una differenza fondamentale fra le proposte del Presidente della Repubblica e quelle del Presidente del Consiglio. Quando quest’ultimo presenta alle Camere il programma è come se dicesse: “Questo è il programma che vi propongo e che attiverò se mi darete la vostra fiducia”. Ben diversa la posizione del Presidente della Repubblica. Il programma che i suoi messaggi possono contenere egli si limita a proporlo suggerendo, nell’esercizio della sua funzione di consiglio, agli organi competenti di tenerlo presente, perché, a suo avviso, così richiede il bene della Nazione. Tuttavia (e qui sta uno dei punti della tesi che  il troppo invecchiato giovane laureando si ostina a ritenere tuttora validi) il Capo dello Stato non può (e mai Gronchi lo aveva fatto) spingersi oltre, non avendo, per Costituzione, alcun mezzo né per attuare quel programma né per costringere il Governo a farlo proprio. Potrà anche esercitare pressioni, lecite però solo finché la volontà del Governo resta  libera, perché solo al Governo compete la decisione finale, l’unica a venire sottoposta al giudizio del Parlamento. Allo stesso modo il Presidente della Repubblica può svolgere la propria funzione di consiglio nei confronti del Parlamento col rivolgere – se crede – propri messaggi alle Camere, che indubbiamente dovrebbero tenerne conto, “ma – scriveva il giovane laureando – finché non venga presentato, dal Governo o da parlamentari, un apposito progetto di legge (che il Capo dello Stato non può egli stesso presentare), che il messaggio presidenziale  traduca in pratica, non si darà luogo alla discussione, all’approvazione o al rigetto”.

  Prima di chiudere può riuscire utile segnalare  che la tesi menziona  la decisione di Luigi Einaudi (recentemente ricordata dal presidente Mattarella) di affidare l’incarico di formare il governo al democristiano on. Pella invece che al democristiano on. Fanfani, proposto dalla maggioranza della DC. Con la precisazione, di non scarso rilievo,  che l’on. Pella era il presidente del consiglio in carica, dimessosi, il 5 gennaio 1954,  per contrasti  con la  direzione democristiana, e che  Einaudi, prima di riconfermare, il 12 gennaio, lo stesso Pella (che comunque rifiutò, sicché, alla fine, l’incarico toccò al designato dal partito)  fece comprendere di non ritenere costituzionalmente ammissibili crisi extra-parlamentari, dal momento che Pella era stato sfiduciato non dal parlamento, ma dal partito (all’epoca a queste cose si prestava ancora attenzione).

Francesco Mario Agnoli

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