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NOI CREDIAMO NELL’EUROPA, E NELLA SUA RINASCITA.*

Un nuovo fantasma si aggira per l’Europa… Il suo nome è “populismo”. Esso terrorizza le tecnocrazie banco-burocratiche che si sono assise sul trono che un tempo fu dei sovrani e dei popoli europei. Se non fosse per il fatto che l’irrompere dei populismi potrebbe riportare l’Europa alla guerra civile già vissuta nel XX secolo, poco potrebbe interessarci della sorte delle tecnocrazie, responsabili in prima persona delle cause che hanno generato i populismi stessi. Anzi, potremmo perfino guardare divertiti l’eterogenesi dei fini e la débacle dell’utopia banco-burocratica, fin qui spacciata fraudolentemente per completamento della costruzione dell’Europa Unita. Se non fosse che insieme ai filistei della bancocrazia tecnocratica il Sansone dei populismi rischia di risuscitare nazionalismi e giacobinismi sconfitti dalla storia e di trascinare nel caos anche i popoli, ossia tutti noi, nulla ci preoccuperebbe riguardo al futuro di quella Europa.

La questione sta pertanto tutta nel verificare se tra populismi e tecnocrazie non sussista oggi una diversa posizione, una via diversa.
Noi di Identità Europea riteniamo di sì e pensiamo che tale via differente coincida con la realizzazione dell’Europa politica che riporti i popoli europei all’Europa e le Istituzioni Europee ai popoli europei, ovvero con la stessa idea che fu alla base del cammino europeista iniziato 90 anni or sono. Un itinerario che solo successivamente, strada facendo, è stato progressivamente deviato verso strategie buro-tecnocratiche che hanno cercato di fare del continente il laboratorio sperimentale del neoliberismo monetarista.

Che cos’è l’Europa unita?
È evidente a tutti come l’attuale assetto dell’Unione Europea non corrisponda né ad una Federazione né ad una Confederazione. Ma al tempo stesso non è neanche un complesso di Stati nazionali indipendenti. L’attuale UE è un inedito storico-giuridico che è persino difficile classificare secondo gli schemi della politologia classica. Ma oggi è, purtroppo, un ircocervo basato sulla volontà di depoliticizzarne il processo di integrazione, nella convinzione che meno politica e più ingegneria monetaria e gestionale avrebbero raggiunto l’obiettivo di superare le resistenze nazionali contro di esso.
Invece una tale via ha portato a due perniciose conseguenze: l’emergere di egoismi liberal-nazionali, tutto luterano-calvinistico rigore; e, giacché l’uomo per natura evita istintivamente l’horror vacui, il riempimento del vuoto politico con il potere di organismi autolegittimatisi, privi di ogni legittimazione popolare e responsabilità, al fine di servire il dogma neoliberista imposto dai poteri finanziari globali.

L’errore è stato tutto nel ritenere che del Politico si potesse fare a meno laddove invece, nella storia, mai nessuna costruzione sociale è stata realizzata in assenza di una chiara e lungimirante visione politica: le identità storico-culturali non sono mai state determinate da meri meccanismi di mercato. Persino l’unione doganale che nel XIX secolo portò gradualmente all’unificazione politica degli Stati tedeschi non è stata un’operazione spontanea mossa da presunte mani invisibili del mercato, né tanto meno frutto dalla “scienza” di ingegneri sociali o di banchieri. Bismarck era uno Statista nel senso pieno del termine e la Prussia fu lo Stato guida di un processo che coinvolse gli altri Stati germanici sulla base dell’idea alquanto modernizzata di Impero (Reich) che non fu realizzato grazie alla libertà dei mercati, ma all’interno di una concezione dirigista dell’economia.
Anche l’Austria-Ungheria percorreva in quei tempi, tra resistenze e conflittualità interne, la strada del federalismo o del confederalismo, identificando nella corona imperiale e non nel mercato o in istituzioni bancarie, l’asse intorno al quale far ruotare una rifondata costruzione unitaria mitteleuropea. La guerra mondiale di cui quest’anno commemoriamo il Centenario, fu la tragica conseguenza dei nazionalismi emergenti.
Invece l’Unione Europea odierna è un edificio che pretende di reggersi senza alcun fondamento politico. Infatti, insieme alla spada ed alla toga (che oggi l’UE non possiede), la moneta è soltanto un attributo della Sovranità, e non può reggersi senza che a monte vi sia l’Autorità Politica.

Questo strabismo tecnocratico è quello che ha partorito, per l’ossessione tedesca e bancaria del controllo dell’inflazione, una costruzione tutta incentrata su Istituzioni tecnocratiche, ad iniziare dalla BCE, assolutamente indipendenti e prive di responsabilità politica per assenza di un’Autorità Politica di ultima istanza alla quale rendere conto. La Commissione europea infatti non incarna affatto tale Autorità, ed il suo stesso nome di “commissione” esprime più una essenza burocratica che un carattere schiettamente politico. Né carattere Politico, nel senso di realmente decisionale, hanno attualmente il Consiglio Europeo, bloccato dagli egoismi di stato, ed il Parlamento Europeo, che pur avendo oggi maggiori poteri che non in passato, svolge troppo spesso solo funzioni di “intermediazione” tra gli interessi delle lobby o dei singoli Stati, la Commissione e le altre Istituzioni europee.

Se ci fosse stata un’Europa politica non avremmo assistito al dramma greco e dell’Europa meridionale in genere perché vi sarebbe stata un’Istanza Ultima che avrebbe naturalmente messo in opera poteri di perequazione e di redistribuzione insieme a poteri di risanamento contabile senza dar vita a macellerie sociali estreme come appunto accaduto in Grecia per volontà di una Troika tecnocratica (Commissione, BCE, FMI) che le ha imposto le stesse cure generalmente pensate per i paesi del Terzo Mondo, senza alcun risultato che quello di aggravarne le condizioni di sfaldamento sociale ed al solo scopo di tutelare esclusivamente gli interessi dei “mercati finanziari”.
L’unica risposta che l’UE è riuscita a partorire di fronte alla crisi economica è stata quella, anch’essa intimamente tecnocratica, di nuove istituzioni “legibus solute” come il cd. “Fondo salva Stati”, o “ESM” (che è in realtà un “fondo affossa-Stati”, perché la sventurata nazione che dovesse capitare tra le grinfie dei suoi insindacabili funzionari sarebbe obbligata alla cura da cavallo dei tagli selvaggi di spesa, benché persino un Olivier Blanchard, l’economista di riferimento del FMI, abbia ormai ammesso che è stata troppa enfatizzata l’efficacia del moltiplicatore fiscale, ossia dei tagli alla spesa, e che al contrario la contrazione della spesa pubblica oltre un certo limite fa crollare per crollo della domanda il Pil).
Oltretutto l’ESM (o MES) – fondo europeo partecipato dalle contribuzioni pubbliche di Stati già indebitati, per prevenire eventuali default nazionali, chiamato a condizioni severissime a monetizzare gli Stati in difficoltà – appare sempre più un assurdo logico-giuridico creato per non mettere in discussione il dogma monetarista statuito a Maastricht. Dogma che assegna alla BCE l’unica mission di tenere a bada l’inflazione impedendo ad essa la monetizzazione della spesa pubblica di investimento, con la conseguenza di lasciare gli Stati alla mercé dei “mercati finanziari” globali mentre ci si ostina, per egoismo liberal-nazionale, a non voler neanche ipotizzare l’emissione di Eurobond.

È questo genere di Europa burocratica che sta generando, come una reazione immunitaria, disordinata e confusa quanto si vuole, la risposta/rivolta populista, che nei diversi Paesi europei in cui è esplosa ricorre alle medesime parole d’ordine anche in assenza di ogni coordinamento sovranazionale. Sicché è inutile che i sommi sacerdoti della tecnocrazia imperante si strappino le vesti, scandalizzati dalle insorgenze popolari. Sono proprio essi, i cultori della religione azteca del rigore monetarista (come ebbe un decennio fa a definirla Edward Luttwak) sancita a Maastricht, la causa di queste scomposte ma sempre più prevedibili e sempre più comprensibili reazioni. Non dimentichiamoci che fu in uno scenario deflazionista molto simile a quello dell’eurozona odierna, attuato con dogmatico rigore dal cancelliere Heinrich Brüning secondo gli schemi classici dell’ortodossia economica liberale, che tra il 1929 ed il 1933 emerse l’astro nascente ma oscuro di Adolf Hitler, sull’onda di un indiscutibile consenso popolare dettato dalla disperazione di un popolo ridotto alla fame.

Che fare?
Ormai anche i ciechi si rendono conto che la politica di rigore pretesa dall’UE e dalla BCE, anche dietro le pressioni dell’egoismo liberal-nazionale della Germania e dei suoi satelliti, rischia di far naufragare il sogno di un’Europa dei Popoli, fino ad oggi sognata ma non ancora nata. Invece di discutere come creare posti di lavoro, di grandi progetti di investimenti pubblici euroasiatici ed euromediterranei, mediante i quali spingere l’economia verso la crescita, e del suo ruolo geopolitico, l’UE si preoccupa solo di equilibri di bilancio, in ossequio ad un dogma liberista che perfino i suoi cultori più intelligenti iniziano a rimettere in discussione.

Riformare le Istituzioni dell’Europa Unita.
Per riformare l’UE è innanzitutto necessario ricrearla politicamente. Lo schema tradizionale di eredità “imperiale”, per cui le funzioni basilari e comuni, moneta, spada e toga, sono esercitate da un’Autorità sovranazionale politica e non tecnica, mentre quelle secondarie, legate alle necessità non comuni ossia strettamente nazionali e regionali, sono di competenza degli Stati o degli enti infrastatuali è quello che meglio si adatta, sulla base della sussidiarietà verticale, alla realtà europea.
Questo impone che l’Europa unita sia ricostruita intorno ad un’Autorità politica, perequativa e redistributiva oltre che tutrice dell’intera Comunità verso l’esterno e delle sue componenti particolari verso l’interno.
Quindi, una volta ristabilito il primato del Politico, è necessario ridefinire i rapporti tra l’Autorità politica e le istituzioni tecniche ad iniziare dalla BCE (da ricondurre ad un regime anche patrimoniale gius-pubblicista) che devono, pur nell’ambito di un’autonomia tecnica (si badi: tecnica e non politica), obbedire alla prima o quantomeno coordinarsi con essa, e non imporre arbitrariamente le proprie condizioni senza alcuna responsabilità di tipo politico.

E i Trattati?
Alla ricorrente obiezione per la quale l’attuale assetto dell’UE è comunque il risultato di trattati politicamente stabiliti, rispondiamo che in realtà quei trattati sono solo formalmente politici ma in realtà sanciscono il dominio tecnocratico per via dell’assoluta inconsistenza politico-culturale, quando non corruzione, dei ceti politici nazionali che ad essi hanno, sovente senza voler interpellare i propri popoli, dato assenso. I Trattati, più volte riformati, possono in ogni caso essere riformati ancora.

L’Europa che ancora vogliamo…
È ancora di più una potenza di pace, coesa attorno ai valori profondi della propria identità plurale, e quindi capace di svolgere una insostituibile funzione di temperanza “imperiale” nei conflitti globali del XXI secolo. L’Europa unita deve finalmente diventare una Federazione o almeno una Confederazione, con un governo (con)federale ed un parlamento con poteri legislativi e di controllo pieni ed effettivi. Insieme ad una camera alta politica può oggi infine più che utilmente ipotizzarsi la creazione di una seconda camera delle nazionalità e delle autonomie sul modello dell’ultimo parlamento della Monarchia asburgica, in modo che i popoli possano partecipare politicamente anche in qualità di identità storico-culturali forgiate nelle comuni radici di civiltà del continente.

*Licenziato in data 28 marzo 2014. Approvato dal 19° Congresso annuale di Identità Europea (3-4 maggio 2014)

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