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BERNARDO DI CLAIRVAUX, LODE DELLA NUOVA CAVALLERIA, A CURA DI F. CARDINI. Di Carlo Donà.

Comincio raccontando una storia, quella di Oddr detto l’arciere, protagonista della saga che da lui prende il nome (Qrvar-Odds saga). Oddr è “Il ragazzo più forte e più bello di tutti quelli che vivevano in Norvegia”. A seguito di varie avventure, mette in piedi una compagnia di vichinghi. La sua vita è la guerra e lui con la tranquilla coscienza di un travet che fa bene il suo lavoro, ogni estate parte per devastare qualche territorio, e massacra con zelo tutti coloro che gli si oppongono per tornare poi a casa ricco di bottino: «Si rivolsero poi contro l’Irlanda, e avevano allora sessanta navi. Giunti su quelle coste compirono razzie, incendiando le case, rubando il bestiame, e uccidendo tutti gli uomini che trovavano».[1] Oddr non è un criminale; è un grande combattente, e ha un suo preciso codice morale che viene esposto in dettaglio, prevede fra l’altro il rispetto delle donne e proibisce di nutrirsi di carne cruda o di bere il sangue. Però questo codice non comporta – non può comportare ­alcuna interdizione riguardo all’omicidio che è per sua natura il core business del mestiere di Oddr. Come insegnano i casi estremi dei guerrieri-belva norreni, i berserkir o gli ulfedhnar, che si considerano rispettivamente orsi o lupi, uomini di questa stoffa, anche quando, come Oddr, non pratichino costumi propriamente ferali sono animali da preda: lo dimostra, per non dir d’altro, l’araldica che dopo il Mille popola i blasoni della nobiltà europea di leoni, di aquile, di tori e di draghi: ma non sono tali per natura, ma per cultura. Ricorderete la sequenza iniziale di 2001 Odissea nello spazio: biologicamente noi siamo delle prede che hanno imparato a fare i predatori, prede che hanno imparato ad uccidere grazie alla tecnologia, cioè alle armi, ma non hanno, in sé, quei treni istintuali che nei predatori normalmente inibiscono e bloccano l’aggressività intraspecifica. Fatto che, detto tra parentesi, ci ha causato infiniti problemi perché per strane vie, quest’aggressività si è legata all’eros – le armi e gli amori sono un’endiadi strutturale, e non solo una formula poetica – causando un vero e proprio piacere della violenza. Per uomini che la praticano abitualmente e professionalmente, dunque, non solo la violenza non è e non può essere di per sé un male, giacché costituisce di necessità la nota fondamentale della vita, ma diviene un piacere, che comporta un gusto propriamente agonistico del tutto affine a quello che suscita in noi una perfetta prestazione sportiva:

«Oddr disse il proprio nome. Hjálmarr chiese: “[…] Che cosa sei venuto a fare qui?” – “Voglio vedere chi di noi due è il più forte”, rispose Oddr. Quindi si prepararono entrambi allo scontro, schierarono i propri uomini e combatterono fino al tramonto. A sera venne innalzato lo scudo di pace, e allora Hjálmarr domandò a Oddr cosa ne pensasse della giornata. Oddr rispose che era stata di suo gradimento. “Vuoi ripetere questo gioco?” disse Hjálmarr. “Non chiedo di meglio”, rispose Oddr. “Non avevo mai incontrato guerrieri tanto valenti e coraggiosi”. »[2]

I combattimenti – definiti ‘un gioco’ (leikr) – si protraggono per tre giorni consecutivi, dopo di che Oddr e Hjálmarr, apprezzandosi come combattenti, decidono di allearsi. Diverranno grandi amici, ma intanto nella battaglia, nota con asciuttezza l’autore del testo, sono caduti in tutto cinquecento uomini.

Ammettiamo pure che ci sia una pura esagerazione letteraria; e che in scontri di questo tipo di uomini ne potessero cadere cinquanta, o venticinque, o cinque. Il fatto non cambia. Abituato a versare il sangue degli altri, l’uomo d’armi finisce per essere indifferente alla violenza, e per divenire orribilmente e serenamente crudele: pensiamo soltanto ai crimini commessi in tempi recentissimi dai pazzi sanguinari di daesh. Il problema, mi sembra, sta tutto qui: il guerriero è insieme socialmente necessario e socialmente pericoloso. Bisogna quindi escogitare degli strumenti per tenerlo sotto controllo, e per evitare da un lato che perda quella carica di aggressività intraspecifica che lo rende uno strumento prezioso, dall’altro però che questa aggressività venga volta contro la sua stessa società, producendo disordine, incertezza, lutto. Questo fu, in particolare, il problema del Medioevo, età in cui si formò una classe professionale di guerrieri particolarmente numerosa e straordinariamente importante dal punto di vista sociale. Sia il potere profano, sia la Chiesa escogitarono parecchie vie per controllare e gestire i professionisti della violenza: l’etica della fedeltà feudale, per esempio; la proposizione di modelli prestigiosi, come quelli dei santi militari o degli eroi delle Chanson de Geste che il guerriero doveva cercare di imitare; la fissazione di sistemi di valori condivisi all’interno di quali la gente d’arme poteva trovare un suo posto nella società; o la messa a punto di pene specifiche, che sanzionavano i loro specifici peccati. Ma in primo luogo e soprattutto, a partire grosso modo dalla stabilizzazione carolingia, la prassi della violenza fu organizzata e inclusa all’interno di un modello culturale

estremamente complesso e prestigioso che conosciamo sotto il nome di Cavalleria: perché questi uomini d’arme vedevano se stessi come combattenti a cavallo, combattenti nobili, in linea di principio, e per lo più contraddistinti dall’uso della spada: donde quella noblesse d’épée che conosciamo peraltro da tempi successivi.

    A partire più o meno dal Mille, sia la cultura laica (pensiamo per esempio ai romanzi arturiani) sia la cultura religiosa cercarono, ciascuna per suo conto e spesso in conflitto, di definire i termini di questo modello culturale. E il testo che presentiamo oggi è appunto il più illustre tentativo di fissare i termini di una ‘cavalleria sacra’, cioè di una pratica della violenza che fosse non solo accettabile nei termini della religione cristiana, ma funzionale ad essa. Ne è autore uno dei più grandi personaggi del Medioevo tutto, San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), fondatore dell’abbazia di Clairvaux, dottore della chiesa (Doctor Mellifluus), di nobile stirpe, che scrisse questo De laude novae militiae ad Milites Templi su invito del fondatore dei cavalieri tempi ari Hughes de Payns tra 1130 e 1135.

In partenza abbiamo dunque di per sé, diciamo così, un tris d’assi: uno dei più grandi intellettuali del Medioevo che affronta di petto uno dei più importanti problemi della cultura medievale, l’essenza della cavalleria, relativamente al più importante e innovativo degli ordini cavallereschi, quello dei Templari. Il quarto asso, se mi passate la metafora, è dato senza dubbio dall’ editore del testo, il professor Franco Cardini, che è riuscito a fare di questo volume, lo dico senza piaggeria e senza esitazioni, la migliore introduzione al problema cavalleresco,che sia oggi disponibile sul mercato, e non solo su quello italiano.

Il libro che presentiamo, infatti, non me ne vogliano né l’autore né l’editore, ha un titolo sbagliato, o meglio, ha un titolo parziale, perché è ben vero che contiene una traduzione, insieme elegante e precisa, della Lode della nuova cavalleria di San Bernardo, ma ha anche molto, molto di più. Ha 151 pagine di introduzione, dovute al magistero di Cardini, che con straordinaria precisione e con lucidità davvero invidiabile, definiscono cosa sia stata la cavalleria per il Medioevo, da dove sia nata, come si sia evoluta, quali siano state le fasi del dibattito culturale che si svolse intorno ad essa, in che modo la Chiesa tentò di utilizzarla ai suoi fini, e via dicendo. Queste pagine evidentemente, eccedono di molto i limiti di una semplice introduzione al testo di Bernardo, e sono in un saggio a sé stante, perfettamente compiuto ed esauriente.

Franco Cardini, e con questo concludo, era la persona giusta per scrivere questo saggio: perché a lui si devono alcuni dei più importanti lavori sulla cavalleria comparsi in questi lustri. Mi limito a ricordare tra gli altri, giusto per l’importanza che hanno avuto per me, lo straordinario Alle radici della cavalleria medievale, Firenze, La nuova Italia 1981, riedito dal Mulino nel 2014; Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dall’età feudale alla grande rivoluzione, Firenze, Sansoru, ]982; L’acciar de’ cavalieri. Studi sulla cavalleria nel mondo toscano e italico (secc. XII-XV), Firenze, Le Lettere 1997; il capitolo Il guerriero e il cavaliere nel volume L’uomo medievale a cura di Jacques le Goff: La tradizione templare, Vallecchi 2007; I Templari, Firenze, Giunti, 2011; Templari e Templarismo. Storia, mito, menzogne, Rimini, Il Cerchio e La «Regola» dei Templari, Rimini, Il Cerchio, 2016.

Carlo Donà.

[1] Qrvar-Odds saga, hgg. Von R. C. Boer, Leiden, Brill, 1888, cap. XIX, p. 71 = La Saga di Oddr l’Arciere, a cura di F. Ferrari, Milano, Iperborea, 1994, cap. XXI, p. 79.

[2] Qrvar-Odds saga, cit., cap. XVII, p. 71 = La Saga di Oddr l’Arciere, cit., cap. XVIII, p. 73.

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