È bene partire da un presupposto che è oggettivo. Un’osservazione che non può essere soggetta ad alcun tipo di interpretazione ideologica o politica. La strage chimica di Douma ha rappresentato quello che si suole definire il “causus belli” dell’intervento militare in Siria da parte di alcune forze occidentali, nello specifico Usa, Francia e Regno Unito.
Posto per certo questo dato, meno chiara si presenta la questione relativa agli autori della strage stessa e alle motivazioni ad essa sottese. Le forze occidentali che nelle scorse ore sono intervenute in Siria con attacchi più o meno mirati, e per ora dagli stessi attori internazionali definiti temporanei e circoscritti, affermano di avere le prove (tuttavia non prodotte in alcuna sede ufficiale) della responsabilità diretta del “regime” di Assad in ordine all’uso di armi chimiche in quella che è stata la strage di Douma.
Ricordiamo bene i precedenti storici in cui i Paesi occidentali hanno motivato e legittimato interventi militari in determinate zone del globo sulla base di fantomatiche prove relative alla detenzione e all’uso di armi chimiche da parte del “dittatore” di turno, salvo poi rivelarsi parziali e irrilevanti, se non addirittura false. Il riferimento è rivolto ai casi della guerra in Iraq e alla più recente guerra in Libia, tristi vicende rivelatesi in seguito veri e propri abomini, prodotto di una specifica strategia di dominio condotta da determinate potenze mondiali sul resto del globo.
Ciò basterebbe a nutrire dubbi in merito alla bontà dell’ennesimo intervento militare travestito da operazione di pace di alcune forze politiche in un’ottica di dominio e gestione del potere di aree di interesse strategico come lo è la Siria in Medio Oriente.
A questo va aggiunto che non si comprende perché mai Assad avrebbe dovuto usare armi chimiche vietate dal diritto internazionale proprio adesso che la guerra la stava “vincendo”.
Gli elementi per nutrire legittimi dubbi dunque non mancano, ma soprattutto non mancano le ragioni nel temere un’escalation negativa di vicende militari che potrebbero condurre a qualcosa di più ampio e coinvolgente rispetto a un conflitto regionale.
L’auspicio è che gli interventi militari di queste ore siano davvero operazioni limitate e che invece non si stia effettivamente andando incontro a un conflitto di respiro globale all’interno del quale l’Italia con buona probabilità svolgerebbe un ruolo contrario ai propri interessi nazionali, ridotta a vassallo di padroni d’oltreoceano.
In una crisi del genere, inutile dirlo, sarebbe servita un’Europa unita, quale attore politico capace di stabilizzare derive belliche attraverso un’attività di mediazione di cui invece pare voglia farsi carico una Turchia vogliosa di tornare a contare come soggetto politico regionale all’interno di un contesto internazionale multipolare.
Per fare questo l’Europa avrebbe dovuto da tempo dotarsi di un apparato istituzionale unitario, in grado di esprimere una politica estera condivisa, possibilmente forte di un esercito comune alle spalle. Tuttavia la realtà dei fatti ci vede ancora una volta arrivare colpevolmente impreparati rispetto ai grandi appuntamenti con la storia.
Claudio Giovannico