L’Ungheria, per la quarta volta, la terza consecutiva, ha dato fiducia a Viktor Orbàn e al suo partito Fidesz, attestato al 50 per cento dei consensi nel giorno della più alta affluenza al voto dalla fine del comunismo. Il secondo partito magiaro, Jobbik, di estrema destra, è in crescita al 20 per cento, mentre la sinistra, assai sostenuta dalle élite europee, dalla stampa internazionale e dal peggior ungherese del mondo, Gyorgy Soros (George è il nome anglicizzato del vegliardo finanziere nemico delle nazioni) è ridotta ad un umiliante 12 per cento. Il risultato è straordinario, e impone di riflettere sul modello di Budapest, che, ricordiamolo, è lo stesso della Slovacchia, della Repubblica Ceca, dell’Austria e della Polonia.
Si riaffaccia alla storia l’Europa centrale, unita nel patto di Visegrad, addirittura con qualche reminiscenza dell’Impero degli Asburgo, di cui ricorre quest’anno il centenario della fine. L’Ungheria, oggi una piccola nazione di 10 milioni di abitanti con una superficie di soli 93.000 chilometri quadrati, meno di un terzo dell’Italia, fu duramente punita dal trattato di pace del Trianon. Il diktat che dissolse gli imperi centrali sottrasse alla nazione magiara più di metà del suo territorio e lasciò senza patria milioni di ungheresi, sparsi da allora tra Slovacchia, Romania, ex Jugoslavia. Non è solo aneddotica ricordare il legame della città di Fiume, italiana di lingua e sentimenti, con la nazione magiara, di cui era lo sbocco al mare e della quale i fiumani erano cittadini.
Orbàn è tutt’altro che un estremista. Fidesz è affiliato al Partito Popolare Europeo, ma è considerato la bestia nera degli eurocrati e delle oligarchie apolidi che ci tengono in pugno. Con lui l’Ungheria ha aumentato il benessere, sconfitto la disoccupazione, posto divieti alle attività antinazionali ed immigrazioniste delle ONG (Organizzazioni Non Governative), in particolare alla famigerata Open Society di Soros, restituito al controllo pubblico i fondi pensione. In più, assoggetta a un severo regime fiscale le corporazioni straniere, attive anche in Ungheria nella finanza, nelle assicurazioni, nell’industria e nella distribuzione. Pur rispettando l’iniziativa privata, Viktor Orbàn ha cercato di impedire che il paese diventasse terra di conquista per gli interessi della manifattura “debole” tedesca. Tutto questo non viene perdonato all’ex giovane studente anticomunista, già attivo nel 1989, al momento del crollo dell’Unione Sovietica.
Il suo torto più grande, agli occhi dell’oligarchia, è aver fatto approvare una costituzione nella quale si pongono al centro della vita nazionale la famiglia naturale, Santo Stefano, fondatore e evangelizzatore dell’Ungheria, con il cristianesimo a fondamento della Patria. Le sue posizioni contrarie all’immigrazione sono un modello per tutti gli europei. Citiamo di seguito alcune frasi pronunciate negli ultimi mesi da Viktor Orbàn: “noi siamo tra quelli che pensano che l’ultima speranza d’ Europa sia il cristianesimo “. Magari analoga convinzione albergasse in Vaticano. “Noi vediamo [gli immigrati islamici] non come rifugiati, ma come invasori musulmani. Bruxelles vuole trasformare l’Ungheria in un paese di immigrazione.
Politicamente scorrettissimo, il leader magiaro difende senza complessi la sovranità della sua nazione: “un paese che non può proteggere le sue frontiere non è un paese”, affermazione che dovrebbe essere scolpita nel marmo di fronte al nostro parlamento.
Un’altra delle sue convinzioni, che lo rende inviso alle oligarchie avverse alle nazioni e nemiche degli Stati è la seguente: “il più importante dei confini tra gli esseri umani è il confine spirituale che denominiamo nazione, che ci eleva tutti alla condizione di partecipanti di una cultura e tradizione condivisi. La nostra cultura nazionale è quello che ci rende ciò che siamo. “Aggiunge che il globalismo pretende di rendere uguali tutte le nazioni del mondo. Basta questo florilegio di opinioni a rendere Orbàn il bersaglio favorito del pensiero dominante.
Pochi giorni fa è stato oggetto di un velenoso attacco da parte del Sole 24 Ore, il foglio economico di Confindustria, in cui si lamenta che Orbàn è l’alfiere di una di “democrazia illiberale in cui i valori conservatori della patria e dell’identità culturale prendono il sopravvento sulla libertà delle persone.” E’ sin troppo facile ribattere al giornalista a libro paga degli industriali che l’amore della Patria (scritto con la maiuscola) e il rispetto di sé sono elementi fondanti della libertà, e non certo principi ad essa alternativi. Quanto al termine conservatore, rispondiamo con Moeller van den Brucke che il conservatore ha dalla sua parte l’eterno. Il disprezzo stupisce un po’ nella penna dei liberali, così attenti a conservare la grande proprietà privata dei loro mandanti.
Assai più importante è l’altro riferimento, quello relativo alla “democrazia illiberale.” Il giornale confindustriale si riferisce ad un importante discorso tenuto da Viktor Orbàn nel luglio dello scorso anno, allorché constatò il fallimento del modello democratico occidentale, diventato una maschera di vuote procedure dietro le quali dominano le centrali industriali, finanziarie e tecnologiche transnazionali. Il leader ungherese arrivò a sostenere l’eresia massima: “Dobbiamo abbandonare i metodi e i principi liberali nell’organizzazione di una società. Stiamo costruendo uno stato volutamente illiberale, uno stato non liberale, perché i valori liberali dell’occidente oggi includono la corruzione, il sesso e la violenza”.
Massimo sdegno per affermazioni tanto sgradite alle orecchie progressiste, a partire da un duro attacco di Internazionale, il settimanale dei salotti altoborghesi. Il termine illiberale non gode di buona reputazione nella nostra lingua. Per quanto di ascendenza latina, dunque non sospettabile di significati politici moderni, indica attitudini e comportamenti che il sentimento dominante considera negativi, reazionari, regressivi. Tuttavia, al di là dei termini e delle traduzioni capziose degli intellettuali a tariffa, Orbàn ha semplicemente smascherato una delle più resistenti menzogne del nostro tempo, proclamando che democrazia (governo del popolo) e liberalismo non sono sinonimi, e negando che solo la società di mercato produca regimi politici democratici. La truffa è di portata storica, smentita dai fatti, pensiamo al regime cinese, e, per converso, all’esperienza russa, turca e perfino iraniana. Dovremmo pur ricordare che il libero mercato domina in parti del mondo dove vigono monarchie assolute teocratiche.
La piccola Ungheria ha il coraggio di affermare che il re è nudo e il liberalismo politico è una scatola vuota contenente, sotto l’apparente tolleranza, un unico principio, la privatizzazione del mondo, la sua omogeneizzazione planetaria e il trasferimento di ogni potere reale ad un sinedrio da cui sono esclusi i popoli. Dunque, il liberismo è il contrario della democrazia.
Paradossale è imputare a Orbàn o ai populismi di varia ispirazione di aver preso atto di verità negate, silenziate o bollate come false (fake news), ma enunciate sin dal Duemila da Ralf Dahrendorf, un’icona del progressismo, l’ultimo dei francofortesi. “Le decisioni stanno migrando dallo spazio tradizionale della democrazia”, fu l’allarme inascoltato del filosofo tedesco, unito ad una considerazione di capitale importanza, “la democrazia non ha senso al di fuori dello Stato- Nazione, ai molti livelli nazionali e multinazionali in cui si forma la decisione politica”. Decisione, aggiungiamo noi, quasi sempre legata alla sfera economica o finanziaria, gli elementi centrali del secolo. Da tempo, tuttavia, anche le voci più autorevoli vengono ridotte al silenzio: per chi detiene la proprietà del sistema culturale e di intrattenimento è facile spegnere l’audio.
La storia si è rimessa in movimento, come dimostra l’esperienza di Orbàn, di altri esponenti di governo dell’Europa Centrale e di Vladimir Putin, l’ orco secondo l’Impero angloamericano. La democrazia, intesa come partecipazione del popolo al proprio destino, deve ridiventare illiberale, cioè scrollarsi di dosso l’ideologia del denaro che annulla tutto il resto della condizione e dell’esperienza umana. Deve altresì recuperare un sistema di principi forti, in assenza dei quali il potere del denaro svuota qualunque rappresentanza o partecipazione popolare.
Ha ragione Viktor Orbàn a utilizzare senza paura certi termini e ribaltare i significati correnti. La dittatura del politicamente corretto, con la ripugnante riduzione dell’uomo a doppio schiavo, delle pulsioni e dei desideri da un lato, della mega macchina tecnologica, finanziaria ed industriale dall’altro, deve essere contrastata a partire dalla riappropriazione delle parole. In quest’ottica, uomini come il presidente magiaro rappresentano la fiamma di una speranza che si riaccende, le cui luci tentano di rischiarare il tetro orizzonte in cui è chiamata libertà la sottomissione all’impero dell’usura. Viva la democrazia illiberale, dunque, qualunque reazione isterica susciti tale affermazione nel lobo frontale dei servitori degli iperpadroni, i liberali.
ROBERTO PECCHIOLI