Per intitolare questa recensione ho voluto ricalcare il nome di una passata lista elettorale (“l’altra Europa con Tsipras”) che, almeno nel nome, si imponeva come un’alternativa allo stato di cose esistente in Europa; tanto a livello statistico italiano quanto di risultati in Grecia la realtà è stata ben diversa e ingenerosa, ma quantomeno veniva posto sul piatto della bilancia politica la voglia di vivere e costruire un’Europa diversa da quella attuale (e omettiamo per pura decenza, con riferimento stavolta al presente, ad un’altra lista elettorale recante l’Europa nel nome).
Cos’è mancato a quell’esperienza politica? La visione d’insieme e il legame con la Storia. Quanto alla visione d’insieme, il riferimento è alla mancata critica integrale del liberalismo: non si può, anche giustamente, criticare il liberalismo economico (il liberismo, la politica pro-mercato e pro-multinazionali dell’UE), se non si critica anche il liberalismo politico e soprattutto quello etico (che si esprime oggi nell’accettazione e imposizione di droghe leggere, aborto, eutanasia, matrimoni gay, visti invece come il non plus ultra del progresso); quanto al legame con la Storia, è il non voler riconoscere la millenaria storia europea, tanto pagana, romana e greca, quanto cristiana, medievale e non solo, il volerlo anzi ancorare all’UE come ci fosse una continuità storica e valoriale tra le due esperienze.
E proprio qui viene in aiuto il pregevole libro in questione di Claudio Giovannico, “Saggio per un’Europa oltre lo Stato e il Mercato”, uscito nell’anno 2017 per i tipi “il Cerchio” di Rimini, casa editrice che al tema europeo aveva già dedicato validi titoli (ex multis, ultimo edito prima dell’opera di Giovannico, “Europa Europae – Storia, mito, utopia, illusione”, di Franco Cardini, anch’esso edito nel 2017): in 147 agili pagine, con una prefazione di Francesco Mario Agnoli (magistrato, storico e scrittore che non ha bisogno di presentazione e che quindi rende ancora più onore all’autore), Giovannico, sulla scia di un costituzionalista di prim’ordine quale è Luciano Barra Caracciolo, ripercorre la genesi e l’evoluzione del costituzionalismo italiano e del “costituzionalismo” europeo, mettendoli a confronto, rimarcando l’assenza di democraticità e di afflato sociale e comunitarista dei Trattati Europei, del resto imposti senza alcun processo referendario o costituente ed non in un quadro di solidarietà sociale ma di libero mercato e concorrenza puri; il personalismo e il comunitarismo della Carta del 1947 (peraltro non priva di criticità o di possibilità di critica, non essendo l’autore un feticista della “Carta più bella del mondo”), che hanno portato un’Italia distrutta dalla Seconda Guerra Mondiale a riunirsi e ricostruire, entrando nel novero delle potenze industriali mondiali, hanno lasciato gradualmente ma inesorabilmente il passo all’individualismo dissolutore di valori e di società dei Trattati Europei, dove il singolo è misura di tutto e asfittici e non democratici organismi sovranazionali schiacciano tanto il consenso elettorale, parlamentare e governativo quanto le tradizioni e le radici dei singoli Stati.
Ma c’è di più; Giovannico, dopo un’analisi storico-politica, passa ad un’analisi economica, imprescindibile per almeno due ordini di ragioni: la partita europea si gioca principalmente e concretamente sul lato economico, di un’economia elevata al di sopra tanto della solidarietà quanto dei popoli; è proprio dalla crisi economica e finanziaria del 2007-2008 che parte anche la crisi politica delle istituzioni europee e, inesorabilmente, la disaffezione e l’odio dei popoli europei verso le regole e le istituzioni comunitarie, viste sempre più non solo come distanti, ma nemiche. Su tutti, si segnala il paragrafo del secondo capitolo relativo al “mercato costituente” (non più i popoli e le assemblee, ma il commercio diventa costituente), con la conseguenza dello smantellamento dello stato sociale, visto come non concorrenziale, in sfregio peraltro alla sovranità sempre citata abusivamente.
Tale prevalenza dell’economico sul politico (una totale inversione della buona politica classica, in cui è il politico a governare l’economico e a sua volte è la buona filosofia a governare la politica e l’economia) non può che portare ad una crisi dello Stato nazionale, che del resto, aderendo ad un fallimentare indirizzo economico e politico neoliberale (quello incarnato dalle due Scuole di Chicago e Vienna di Milton Friedman e Frederik von Hayek) anziché difendere le proprie prerogative, era stato esso stesso a scavarsi la fossa. Ma la critica dell’autore, qui, si sposta ad un livello superiore, investendo essa il contrattualismo sociale (Hobbes, Locke, Rousseau) e il formalismo e positivismo giuridico (Kelsen), ovvero i due filoni filosofico-politico e giuridici che sono più rappresentati in Occidente.
Che fare, quindi? L’autore ripropone tanto il pensiero tradizionale di un de Maistre (“Una Costituzione che va bene per tutti i popoli non va bene per nessun popolo”, aveva scritto il geniale savoiardo a proposito delle Costituzioni giacobine, e quanto pare invece che l’abbia detto per l’oggi e per i Trattati Europei!) e di uno Schmitt, quanto un superamento del paradigma proprietario tra pubblico e privato (passaggio, questo, fatto anche da altri autori, in primis Mattei e Marella, i quali peraltro non aderiscono ad una lettura comunitaria o tradizionale del diritto), come, anche, di un ritorno al diritto naturale (ed è qui interessante notare come la Spagna e il Portogallo, Paesi europei forse oggi periferici, siano all’avanguardia nella preservazione e nel continuo del discorso e della riflessione sul diritto naturale non solo in Europa, ma nel mondo). Perché solo da un cambio di prospettiva, tanto personale quanto sociale, si potrà proporre una visione diversa tanto dello Stato (e delle istituzioni) quanto del mercato, mettendo al centro la persona e la comunità, in una visione corporativa, organica, sussidiaria e distributista.
Constatata l’assenza di rappresentatività dei corpi intermedi nei Parlamenti a causa dell’individualizzazione e atomizzazione della società, il ritorno consisterebbe proprio nel rimettere al centro il lavoro, come da dettato costituzionale; ma ad una crisi della rappresentatività non può che far seguito una crisi della sovranità, e la necessaria ricerca di una soluzione per tale problema: non il rafforzamento dell’istituzione europea, come neanche un ritorno al mero Stato-nazione (che potrebbe, però, rappresentare una contingente alternativa da preferire per divincolarsi dai legami comunitari e per preparare la transizione al nuovo modello): per l’autore, rifacentesi al miglior pensiero cattolico (San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) ed europeo (Francisco Elias de Tejada e Miguel Ayuso) e considerando che proprio in questo grave momento di crisi l’Europa potrebbe riscoprire e ribadire la sua identità e missione, la soluzione sta nella riscoperta del principio di sussidiarietà, non più visto con allergia o come un mero dettato programmatico, ma come un vero e proprio modello di governo, che darebbe ad un tempo legittimazione democratica ai governi e soluzione concreta ai problemi socio-economici contingenti; che cosa sarebbero, del resto, i fueros della tradizione iberica o l’Europa dei Popoli di cui si parlava fin dagli anni ’50 del secolo scorso, se non un rispetto dei singoli popoli e corpi intermedi, con tutte le loro specificità? Ma non si aprirebbe così il rischio di una balcanizzazione?
A fronte anche di indebite ingerenze esterne nei singoli processi (si pensi al finanziamento di George Soros all’indipendentismo catalano, indipendentismo catalano, peraltro, avulso dalla specifica identità storica e guardante all’UE, la prima nemica delle identità e delle piccole patrie!), un fattore storico e culturale unificante esisteva ed esiste ancora, e questo è il cristianesimo: anche nelle divisioni e nelle lotte, che comunque venivano da esso umanizzate e temperate, l’Europa, storicamente, si è unita e forgiata attorno alla fede cristiana, che ha dato al continente europeo tanto un’unità di fede e ideali quanto una preservazione delle diversità dei singoli aspetti culturali, dalla musica e l’arte fino alla cucina (si confronti quanto detto da Gonzague de Reynold, che identifica Europa e Cristianità, cui si oppone, da una diversa prospettiva, Francisco Elias de Tejada, che vede l’Europa, con la nascita dello jus publicum aeuropeum, opporsi alla Cristianità). Anzi, proprio la non menzione, folle e suicida, delle radici cristiane nel progetto poi fallito di Costituzione Europea ha comportato una delegittimazione democratica di tale intento, dal momento che il popolo, il demos europeo, pur nella crescente secolarizzazione, è ancora cristiano, soprattutto se consideriamo il c.d. “Paese reale”.
Ma chi può guidare e governare un processo di riappropriazione patriottica? Come, in sostanza, far sì che a popoli cristiani seguano governanti cristiani e leggi cristiane? In ciò, in una lettura, possiamo dire, di combinato disposto, viene in aiuto Padre Ennio Innocenti, noto sacerdote, scrittore e studioso, che nel medesimo anno 2017, per la sua casa editrice Sacra Fraternitas Aurigarum Urbis, ha scritto assieme a Paolo Mariani e dato alle stampe il piccolo e consigliato “Statisti cattolici europei”: tale opera, rivista dopo la prima edizione seguita alla caduta del Muro di Berlino, si era resa necessaria a causa del predominio del liberalismo, del sempre maggiore scollamento dell’Europa tanto dai cittadini quanto dalle radici cristiane, nonostante il cristianesimo sia stato il primo vero fattore unificante europeo e nonostante anche che padri delle istituzioni comunitarie originarie furono tre devoti politici cattolici, ossia Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman. Sedici agili schede biografiche descrivono in breve la vita e le opere di altrettanti statisti cattolici europei, da Giovanni III Sobieski, eroe polacco contro i turchi a Vienna ad Antonio Capece Minutolo e Clemente Solaro della Margarita, pensatori e statisti borbonici, passando poi per Capi di Stato invero “discussi” (non solo Benito Mussolini, Antonio de Oliveira Salazar o Francisco Franco, ma anche Philippe Petain e Jozef Tiso) come anche ancora oggi presentati come esempio di statisti democratici e moderni (Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, Eamon de Valera); ciascuno di essi, pur nella diversità di tempi, caratteri e situazioni contingenti, mosso solo dalla fede e da una visione europea organica, ha dato un suo contributo alla costruzione della Casa Europa, di un’Europa, diversa, più democratica e rispettosa delle specificità nazionali e popolari, non oppressa da uno Stato asfittico né da un’economia stritolatrice.
E’ tempo, tanto sul piano giuridico e ideale, come fa Giovannico, quanto sulla scorta degli insegnamenti morali e personali, come fa Padre Innocenti, di ripensare l’Europa, mettendo al centro Dio e l’uomo, e l’uomo inteso come persona e incarnato in una comunità e una società.
Roberto De Albentiis