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SPAZI PUBBLICI A DIMENSIONE EUROPEA. A cura di Alessandro Tricoli.

Intervista con Giulia Vallone, Municipal Architect della Contea di Cork (Irlanda).

Al di là delle apparenti differenze geografiche e culturali, le città europee mostrano una profonda unità nel modo di concepire e auto-rappresentarsi negli spazi pubblici. Un patrimonio comune fatto di piazze, strade e centri storici, nel quale hanno trovato espressione, nel corso dei secoli, le diverse istanze delle comunità locali.

Abbiamo parlato della necessità di salvaguardare e valorizzare questo patrimonio con Giulia Vallone, un architetto italiano che vive e lavora in Irlanda, dove, dalla sua posizione di Municipal Architect della Contea di Cork, ha potuto dimostrare la necessità di intervenire sugli spazi pubblici con una profonda consapevolezza della tradizione della città europea e, allo stesso tempo, con uno sguardo nuovo, teso ad includere la comunità nei processi decisionali.

A cura di Alessandro Tricoli

Come si svolge la tua attività di Municipal Architect?

Mi occupo, con il mio gruppo di lavoro, di riqualificazione urbana in varie cittadine irlandesi. Si tratta di centri storici messi in difficoltà dall’apertura di grandi centri commerciali, dal traffico e dai parcheggi, con gravi ripercussioni sul tessuto urbano e sulla popolazione. Il mio gruppo comprende, oltre ad architetti, ingegneri, geometri, esperti nelle discipline estimative, nonché urbanisti, sociologi e rappresentanti della Soprintendenza. Insieme a loro progetto gli spazi pubblici come strumento per rivitalizzare i centri storici. L’obiettivo è quello di innescare un processo di riappropriazione della città da parte della cittadinanza. Questo modello sta iniziando di recente, dopo la crisi economica, ad essere adottato dalle amministrazioni irlandesi.

Un esempio di questa tematica sarà esposto alla prossima Biennale di Venezia, dal titolo Freespace. Il team dei curatori dell’esposizione, lo studio irlandese Grafton Architects, presenterà all’interno del padiglione irlandese Free Market il tema delle città irlandesi (“market towns”) in decadenza. All’interno della rivista Free Market, ne sono molto fiera, sarà inclusa una mia intervista con alcuni esempi di miei progetti urbani.

Una caso di successo di un Municipal Architect alla scala di una capitale europea è invece quello di Tina Saubi, il capo architetto di Copenhagen, che svolge un ruolo vitale nella città danese. Non a caso Copenhagen è stata definita come la città più vivibile, sostenibile e verde in Europa, dove la popolazione aumenta ogni mese di mille persone e solo 4 persone su 10 possiede un automobile. Suggerisco a tutti di visitarla e soprattutto alle autorità municipali in Italia di prendere spunto dal modello danese.

La tua formazione di architetto italiano ha influito nel tuo approccio progettuale?

Sì, certo! A partire dal 2001, quando mi sono trasferita, ho cercato di diffondere la cultura italiana dello spazio pubblico in Irlanda. Qui gli spazi urbani erano dominati dalle automobili e pensati solo in riferimento alla mobilità veicolare. Ho mostrato agli amministratori gli esempi delle piazze italiane storiche della mia città, dove sono le persone i veri protagonisti dello spazio pubblico e nel giro degli ultimi cinque anni sono stata abbastanza fortunata da riuscire a ottenere dei risultati concreti.

Uno degli esempi di questo approccio è il masterplan che ho redatto per la piccola città di Clonakilty, assunto in Irlanda come modello esemplare per “la progettazione urbana e lo sviluppo economico”. La prima fase del progetto comprendeva la riqualificazione di due piazze, Asna ed Emmet Square, completate nel 2013, che adesso vengono chiamate “Italian Squares”. La seconda fase comprendeva il corso principale della città che collega le due piazze, completato nel 2016. In cantiere, dal gennaio 2018, c’è la terza fase del progetto che riguarda la nuova barriera fluviale, al cui progetto ho contribuito al fine di valorizzare e proteggere il contesto storico e ambientale.

Il masterplan è stato premiato con diversi riconoscimenti nazionali, inclusi il prestigioso titolo europeo di “Great Town 2017” conferito dalla Academy of Urbanism di Londra, il titolo di “Best Place of the Year” del Royal Institute of Architects, e il gradito premio dell’istituto dei designers irlandesi “Best Irish Designer Award 2017”. La più grossa soddisfazione sono i numerosi inviti a conferenze nazionali e internazionali, occasioni in cui sono lieta di presentare i miei progetti.

Intanto l’Italia, che come dicevi ha rappresentato un modello di eccellenza per gli spazi pubblici, sembra aver preso un’altra direzione su queste tematiche…

Sì, purtroppo l’Italia ha fatto numerosi passi indietro! Nel Nord Europa è stato ormai dimostrato, da importanti progettisti e teorici come Jan Gehl e Hans Monderman, che gli incidenti stradali nei centri urbani diminuiscono eliminando rotonde, semafori, segnaletica, e soprattutto che è possibile ottenere “shared spaces” (spazi condivisi da automobili e pedoni senza alcuna separazione fisica), favorendo la vitalità urbana e le attività sociali.

Ho personalmente parlato con Jan Gehl qualche mese fa delle nuove misure di traffic calming in Italia, esprimendo i miei dubbi sugli standard ingegneristici applicati ai nostri centri storici, che hanno il rischio di riconsegnare gli spazi pubblici alle automobili. Le città sono a rischio di perdere la loro funzione economica, sociale e culturale per diventare valli di asfalto e cemento, punteggiate dalla segnaletica verticale e orizzontale… “keep fighting the engineers” mi ha suggerito Jan Gehl, quando gli ho detto dell’avvento di nuove rotatorie nel centro storico e dell’abbattimento di alberi nella mia città natale, Alcamo, in Sicilia… “gli spazi pubblici appartengono alle persone e non alle automobili”!

Un altro tema oggi tanto in voga sul quale condividiamo più di qualche perplessità è quello delle cosiddette smart cities, città basate sull’uso delle più moderne tecnologie della comunicazione, della mobilità e dell’efficienza energetica…

In uno dei gruppi di ricerca europea di cui faccio parte,“People-Friendly Cities in a Data-Rich World”, discutiamo del potenziale pericolo delle smart cities e della necessità di creare un modello di città vivibile basata sulle comunità di cittadini come risorsa attiva nell’ambito della progettazione urbana. Entro il 2050 la maggior parte della popolazione mondiale vivrà in città. Con le smart cities si pretende che sia la tecnologia a far fronte ai problemi della città, ma c’è il rischio che così facendo vengano definitivamente meno il contatto umano e l’interazione diretta fra le persone, esattamente il contrario di quello che abbiamo cercato di fare nei nostri progetti.

Per tirare le somme di questa nostra conversazione, puoi indicarmi qualche concetto che ritieni essenziale per intervenire in modo efficace e appropriato sugli spazi pubblici delle nostre città?

Direi che un concetto molto importante è quello che in inglese definisco civic stewardship, ovvero promuovere il senso civico e la progettazione inclusiva attraverso il ruolo dell’architetto civico, un community architect che lavora all’interno delle amministrazioni locali svolgendo il ruolo di capo progettista e coordinatore degli interventi urbani pubblici, coinvolgendo i cittadini ad ogni fase progettuale.

Quando incominciamo un progetto, analizziamo lo spazio dal punto di vista dell’utente, il cittadino. Gli chiediamo quali sono i problemi, cercando di capire, attraverso contatti diretti, le esigenze e le aspettative degli abitanti. È un processo molto importante, perché la popolazione diventa così, in qualche modo, parte del team di progettazione, fornendo in modo spontaneo la conoscenza del luogo, delle tradizioni, della memoria, ovvero del “genius loci” non solo fisico, ma anche sociale.

I progetti pubblici non vengono più avvertiti come delle imposizioni dall’alto, ma diventano un momento di partecipazione comunitaria e conseguentemente di orgoglio civico. Ad esempio a Clonakilty, il nuovo giardino pubblico, Emmet Square, inizialmente poteva destare delle preoccupazione per i costi di gestione che avrebbe comportato. La popolazione locale, resa partecipe dall’architetto nella fase di progetto, ha invece incominciato a occuparsi spontaneamente della cura e della manutenzione dell’area!

Un altro concetto importante è quello di progettazione inclusiva, ovvero un concetto di accessibilità che non si applica solo ai disabili, ma anche agli anziani, ai bambini, alle donne incinte, agli emarginati, alle persone con disabilità mentali. È fondamentale applicare questo principio agli spazi che progettiamo, il fattore sociale andando al di là dell’approccio che vede unici elementi della riqualificazione di una strada o di una piazza quelli più appariscenti come l’arredo urbano o i parcheggi. Bisogna pensare alla qualità della vita di tutti i cittadini, dar loro la fiducia e la possibilità di partecipare alle decisioni sullo sviluppo urbano.

Come dimostrato a Clonakilty, i risultati sono non solo lo sviluppo economico, ma anche un forte senso di accoglienza, creatività, tolleranza e senso civico, tutti fattori cruciali per attrarre nuovi investimenti internazionali e creare centri urbani dove la gente voglia vivere, lavorare o fare una visita. In fondo tutto quello di cui abbiamo parlato non è complicato, sono scenari applicabili ovunque in tutta Europa. L’importante è far capire che si tratta di principi ormai indispensabili per dare un futuro di vivibilità alle nostre città.

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