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INVOLUZIONE GIURIDICA E IPOCRISIA POLITICA DELLA LEGGE SUL FINE VITA. Di Francesco Mario Agnoli

Mi induce a tornare sull’argomento soprattutto l’opportunità di segnalare le importanti  osservazioni svolte sul tema  da Claudio Galoppi, componente togato del Consiglio  Superiore della Magistratura, nel suo scritto  “Testamento biologico: evoluzione o involuzione?” pubblicato in “Diritto vivente”, la rivista  quadrimestrale on line di Magistratura Indipendente. Pur condividendo in toto uno scritto che approfondisce temi riguardanti, fra gli altri,  l’inserimento dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale fra i trattamenti sanitari e la libertà di autodeterminazione concessa al paziente ma non al medico, che si vede negato il diritto all’obiezione di coscienza, e appropriandomi  delle sue argomentazioni, muovo però da un approccio diverso, meno giuridico e più politico. Dalla constatazione del ruolo svolto dall’ipocrisia “politica” nella formulazione della legge n. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), esattamente come accadde  per la legge n.194/1978 (Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza). Se questa  afferma di “riconosce(re)  il valore sociale  della  maternità e tutela(re) la vita umana dal suo inizio” nel momento in cui ne consente  la soppressione, in precedenza vietata con sanzione penale, la  219/2017  “promuove e valorizza la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico” (art. 1/comma 2). Promozione e valorizzazione che possono essere in parte effettive  (ma in sostanza più che la norma vale  l’id quod plerumque accidit ed è sempre avvenuto)  nei casi del “normale” rapporto medico-malato, nel quale il secondo, pur riservandosi la decisione finale, si rivolge al primo  perché vuole essere curato ed è, quindi, disponibile a considerare il suo “consenso informato” alla luce della scienza medica e  come frutto  di  uno scambio di opinioni e informazioni  fra paziente e medico, eventualmente coinvolgendo,  “anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo”.

    Ciò non toglie che, in  via generale, quindi anche  in questi casi,  il modello normativo del consenso informato quale si è venuto configurando comporti, come scrive il Galoppi, un “cambiamento profondo della natura dell’attività medica e del rapporto medico-paziente. Se infatti si pone al centro di ogni prospettiva decisionale la volontà del malato, l’attività medica non può che ricostruirsi e ridefinirsi in termini “contrattuali”: nel rapporto medico paziente si verifica cioè, come per tutti i contratti, un incontro di volontà, quella del richiedente e quella del medico. Non però un incontro di volontà poste sullo stesso piano, ma un rapporto contrattuale nel quale la volontà del malato è sempre prevalente. Il medico, dunque, diviene esecutore meccanico della volontà del paziente rispetto alla quale non è riconosciuta alcuna possibilità di sindacato. Questo comporta una profonda mutazione del rapporto medico paziente nell’ambito del quale, d’ora in poi, è negata in radice la possibilità di interazione, essendo il medico tenuto ad una mera presa d’atto della volontà del paziente. La volontà di rinunciare alle terapie impedisce infatti una qualsivoglia iniziativa del medico sul piano del dialogo e della persuasione

   Si può forse discuterne (in fatto)  nei casi che si sono appena definiti “normali”, nei quali il bravo medico ha mille modi  e argomenti per fare recedere  il malato dalle sue decisioni. Ma è certamente vero  nel caso di cui specificamente ci si occupa. Quando cioè, in assenza di un rapporto diretto  con l’interessato, divenuto incapace  di esprimere la propria attuale volontà, si tratta di dare esecuzione alle sue dichiarazioni anticipate di trattamento (le cosiddette DAT), attraverso le quali “ciascun soggetto può manifestare la propria volontà in materia di trattamenti sanitari, nell’eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte”.  Una situazione che rende di per sé impossibile “qualsivoglia iniziativa del medico sul piano del dialogo e della persuasione”.

  In presenza delle DAT “la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”, ma anche con i familiari e i rappresentanti del primo, è troncata in radice, dal momento che il medico è “tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita” (art. 4/comma 5). Solo in presenza  di queste condizioni  il medico  può tentare di fare intendere al fiduciario, del quale è richiesto l’accordo, il venir meno del  suo obbligo di pretendere l’esatto adempimento della volontà del suo rappresentato.  In mancanza di accordo  non resta che rivolgersi al giudice tutelare, così come previsto anche per il caso “in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l’amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all’articolo 4, o il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie”.  A parte il fatto che l’intervento giudiziario presuppone di per sé il fallimento della relazione di cura e di fiducia, va osservato che il contenuto del provvedimento del giudice  è condizionato dalla presenza o non  delle DAT.  Se l’interessato nulla ha disposto, il giudice dovrà prendere una decisione dal contenuto esclusivamente tecnico, giudicando dell’appropriatezza e necessità delle cure. In presenza invece  di disposizioni di ultima volontà  dovrà valutare  se le cure proposte, indipendentemente dalla loro appropriatezza, che in questo caso non rileva,   contrastino con la volontà a suo tempo espressa dall’interessato e consacrata nella relativa dichiarazione, e, eventualmente, se ricorrano quelle poche, specifiche  condizioni che consentono di superarla.

   Si potrebbe pensare che la relazione di cura e di fiducia fra paziente e medico, l’interazione fra la volontà del primo e la scienza del secondo abbiano funzionato al momento della formulazione delle DAT. Tuttavia così non è. Quanto meno non necessariamente.  Difatti l’art. 4/1° comma prevede   sì che il soggetto, maggiorenne e capace di intendere e volere prima di esprimere, ora per allora,  “le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari” abbia “acquisito  adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte”, ma la mancanza di tale acquisizione, che per altro non deve essere dichiarata e, tanto meno, documentata non incide in modo alcuno sulla validità delle DAT, che, salve le ristrette eccezioni di cui si è detto, conservano la loro validità quale che sia il grado di disinformazione e sprovvedutezza  del disponente.

 Francesco Mario Agnoli

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