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LA PESTE NERA, I TOPI, LE RICERCHE SCIENTIFICHE, I MEDIA. Di Franco Cardini*

Nel 1346 la peste, proveniente dall’Asia centrale – pare dall’area del lago Balkhash –,  aveva colpito Tabriz e Astrakan; da quest’ultimo centro, risalendo il Volga e raggiungendo quindi il Don per ridiscendere verso il Mar Nero, arrivò ad invadere la penisola di Crimea. Nel 1347 i mongoli del khanato dell’Orda d’Oro, all’attacco della città di Caffa, oggi Feodosija, importante emporio commerciale genovese, gettarono corpi di appestati oltre le mura, inventando senza saperlo la guerra batteriologica. In questo caso, non c’era bisogno che la città fosse invasa dai ratti: bastava che i morti usati come bomba batteriologica fossero abbastanza recenti: difatti la pulce in grado d’inoculare il bacillo non abbandona i cadaveri prima che la loro temperatura corporea sia scesa al di sotto dei 28 gradi. Alla fine di quello stesso anno 1347, la peste aveva raggiunto Messina e poi Marsiglia e Genova, mentre stava infuriando già nell’Isola di Cipro, ad Alessandria e al Cairo; un anno dopo, stava devastando le città interne del mondo mediterraneo e aveva già invaso i porti atlantici francesi, inglesi, danesi. Tutta l’Europa fu praticamente interessata al contagio: dalla penisola iberica all’Inghilterra e dalla penisola scandinava alla Moscovia, per quanto riguarda tutta l’area europea orientale resti il dubbio relativo alle linee seguite dal contagio, se attraverso i grandi fiumi russi oppure risalendo dal Mediterraneo. Fu comunque dal Mar Nero o dai porti del Mediterraneo settentrionale che la peste arrivò al delta del Nilo da dove risalì il fiume verso sud, mentre si estese anche in Siria e in Palestina. Si calcola che le regioni interessate dal contagio persero circa dalla metà ai due terzi dei loro abitanti. Fra 1351 e 1354 venne infine colpita la Cina: anche in quel caso resta dubbio se  l’epidemia sia stata trasmessa direttamente dall’Asia centrale o sia arrivata fin là dal Mar Nero oppure dalla Siria lungo la Via della Seta. La peste in Cina fu comunque violentissima, probabilmente soprattutto data la densità demografica di quel paese.

Non tutta l’Europa venne comunque devastata dal morbo. Aree anche ampie ne restarono immuni: l’Alvernia in Francia, l’Italia settentrionale, la Fiandra, la Franconia, l’Europa centrale. Si è osservato che esse coincidevano con regioni mancanti del “sostrato murino”, nelle quali cioè non era diffuso il cosiddetto “topo nero”, il Rattus Rattus, o topo di città, che ama i granai e i solai, le zone tiepide e secche, ma accetta volentieri di venir ospitato anche a bordo delle navi ed è considerato l’ospite per eccellenza della pulce portatrice del bacillo pestoso, la Xenopsylla Cheopis, ma non sempre e non chiaramente distinguibile dal Rattus Norvegicus Birkhenout, il “topo grigio”, o topo di campagna che a partire dal XVIII secolo sembra averlo soppiantato e ch’è portatore di un altro tipo di pulce, il Ceratophilus fasciatus. Non mancano tuttavia altre spiegazioni: si è proposto che l’immunità di quelle aree sia dipesa dal fatto che in esse abbondavano gli esseri umani portatori di sangue di tipo B e di fattore Rh negativo, molto diffuso specialmente in Ungheria, mentre il sangue di tipo 0 sarebbe quello più vulnerabile da parte del bacillo della peste; le ipotesi relative all’isolamento geografico o alla minore densità demografica sono ancor meno convincenti.

Parlare di una speciale epidemia, la cosiddetta “Morte Nera” che infuriò in tutto il macrocontinente asiatico tra 1346 e 1352, richiamerà senza dubbio in molti anzitutto la memoria di un grande capolavoro della letteratura italiana: il Decameron di Giovanni Boccaccio. Quel flagello, placandosi nel biennio ’51-’52, lasciò dietro di sé una terribile scia di conseguenze immediate e remote e continuò a circolare nella medesima area, in forma endemica, riproponendosi con drammatici ritorni periodici del picco epidemico almeno fino alla pandemia del 1630, quella descritta appunto dal Manzoni. Ma in aree ristrette sopravvisse anche a tale data, ripresentandosi crudelmente in Italia tra 1656 e 1657 e in Inghilterra un decennio più tardi. E’ stato calcolato che tra la pandemia avviatasi nel 1346 e la peste del 1656-57 il morbo si ripresentò, nella sola Italia, per ben 27 volte successive. Per il Mediterraneo della seconda metà del Cinquecento, Fernand Braudel ha potuto parlare della peste come di una “struttura del secolo”.

A partire dall’ultimo quarto del Seicento, tuttavia, il contagio cominciò a perder anche la residua forza. Si ripresentò a Bari nel 1690-92, sferrò un ultimo duro assalto epidemico a Marsiglia nel 1720, ricomparve a Messina nel 1743, poi in forma blanda di nuovo a Marsiglia nel 1720 e nel 1786, quindi a Noja e a Venezia nel 1815-16; casi isolati si  verificarono a Parigi nel 1920, nell’ambiente dei cenciaioli; alcuni episodi furono riscontrati ancora in Italia meridionale nel 1945; attualmente essa è ancora endemica in Asia centrale.

La parola, “peste”, è paurosa e terribile: ma il suo impiego nella storia è stato generico, a indicare un’ampia gamma di flagelli a carattere epidemico. I nostri padri definivano con termini come l’ebraico deber, il greco loimòs e il latino pestis affezioni contagiose di tipo diverso come le epidemie di tifo esantematico e il vaiolo: con le quali il pur temibile bacillo della Pasteurella pestis, scoperto da Alexandre John-Emile Yersin durante l’epidemia di Hong-Kong nel 1894 e chiamato per questo anche Yersinia, non ha nulla a che vedere.

Nella storia generale dell’umanità, si è usi ricordare come “pesti” alcuni grandi flagelli d’origine in realtà eterogenea: dalle “pestilenze” ricordate dalla Bibbia a proposito delle “piaghe d’Egitto” o dell’epidemia che decimò l’esercito dei filistei dopo che essi si furono impadroniti dell’Arca dell’Alleanza fino alla grande “peste” di Atene del 429 a.C., descritta da Tucidide, e ancora alla “peste” di Roma del 66 d.C. di cui ci ha parlato Tacito, a quella scoppiata nel II secolo d.C., dinanzi alla quale fuggì anche il grande medico Galeno, sino  alla “peste di Giustiniano” sulla quale c’informa Procopio da Cesarea relativamente all’anno 542, quand’essa giunse a Costantinopoli, a quella del 1347-50 da cui parte appunto il Decameron del Boccaccio fino a quella del 1630, della quale com’è noto diffusamente tratta il Manzoni nel saggio storico su La colonna infame, oltre che – naturalmente – ne I promessi sposi. Nei casi descritti da Tucidide e da Galeno si tende oggi a ritenere che si trattasse piuttosto di epidemie di vaiolo.

Noi diciamo dunque “peste”, “pestilenza”: ma sono termini vaghi, imprecisi. Tra le peste polmonare, quella setticemica e quella ghiandolare, la “bubbonica”, caratterizzata dai linfonodi ingrossati e dolenti, c’è per esempio una bella differenza. Si tratta di affezioni del tutto diverse; il che non vuol dire che non possano presentarsi assieme, come difatti accadde nell’epidemia del 1347-50: la peste bubbonica viene inoculata attraverso il morso  della pulce che è portatrice del relativo bacillo, quella polmonare si trasmette da uomo a uomo.

Insomma, si fa presto a dire peste…

Comunque, divertirsi ogni tanto fa bene. Stando a quanto diffuso da alcune agenzie, uno studio coordinato dall’Università di Oslo e al quale avrebbe contribuito anche quello di Ferrara, pubblicato dalla rivista “Proceedings of the National Academy of Science”, avrebbe provato che nella diffusione del contagio i topi furono molto secondari e che insomma la causa fondamentale di esso è da ricercarsi nella scarsa igiene del tempo.

Non conosco lo studio in questione, che mi riservo di consultare.  Certo è che, stando a come i media – evidentemente manovrati in questo caso da un personale giornalistico non troppo competente in materia – hanno presentato la cosa, scappa un po’ da ridere. Parrebbe che si siano messi in parecchi: l’università di Oslo, quella di Ferrara, una grande e prestigiosa rivista: il tutto per stabilire che – udite, udite! – le malattie epidemiche si propagano tanto più rapidamente e capillarmente quanto più basse sono le condizioni igieniche e ambientali delle società che ne sono vittime. Insomma, ricordate quel grande filosofo che fu il trombettista Massimo Catalano (ve li ricordate i suoi assiomi di moda una trentina di anni fa, nel glorioso programma di Renzo Arbore Quelli della notte?), il quale sosteneva eccelse verità quali “E’ meglio vivere a lungo sani e ricchi che morire presto poveri e sofferenti”? Che fosse un autentico Maître-à-penser, personalmente non ne ho mai dubitato. Ma si direbbe che negli atenei di Oslo e di Ferrara il suo magistero abbia lasciato davvero un’impronta profonda, se da lì ci proviene uno studio che, dopo aver attentamente analizzate al riguardo tutte le fonti disponibili, dimostra che nella cosiddetta “Morte Nera”, la pandemia di peste che colpì il macrocontinente eurasiatico tra 1347 e 1352 – infierendo nella nostra Europa soprattutto negli anni 1347-48 e falciando sembra dalla metà ai due terzi della popolazione di allora – i principali responsabili non furono i ratti, bensì, anzitutto e soprattutto, le cattive condizioni d’igiene personale comunitaria del tempo. Il che ricorda molto la battuta di quel personaggio del film di Eizenstejn, La corazzata Potiomkin, il quale sosteneva che la carne marcia che si mangiava a bordo di quella nave era infestata non già da vermi  – ci sarebbe mancato!…– bensì “da larve”. Volevamo ben dire!

Ora, che illustri luminari si spendano nella difesa di quei simpatici roditori che sono topi e ratti, va benissimo. Un topo non può essere accusato di nulla se fa il suo mestiere. Nel 1347, i tartari dell’Orda d’Oro assediavano la città di Caffa sul mar d’Azov, grande emporio portuale al quale, tra l’altro, confluiva tutto il grano della Russia meridionale che veniva importato in Europa soprattutto dalle navi genovesi. I tartari, negli accampamenti dei quali si era propagata l’epidemia di peste, conoscendo le leggi empiriche del contagio caricavano i cadaveri infetti sulla catapulte e li scagliavano al di qua delle mura urbane; inoltre ci si mettevano anche i topi, che era impossibile non far salire a bordo delle navi e che si cibavano delle granaglie nelle stive (e non c’era gatto che tenesse). Cadaveri di appestati e topi avevano la caratteristica comune di esser pieni di pulci: e nello stomachino dei piccoli parassiti albergava la pasteurella pestis, il bacillo che sarebbe stato fatto conoscere da Pasteur cinquecento anni dopo ma che c’era ancora, e lavorava alacremente. Poi, le navi genovesi con la loro consueta rotta toccavano Messina, Pisa e così via rifornendo i porti visitati di prezioso grano (e di meno gradite pulci): da lì si propagò la terribile pandemia così meravigliosamente descritta da Giovanni Boccaccio.

I luminari di Oslo e di Ferrara ci avvertirebbero dunque che i topi, poveretti, non ebbero dell’evento colpa alcuna. Certo: se non quella – senza dubbio involontaria – di funger da vettori del contagio: il quale non si propagava affatto “nell’aria”, come al tempo si credeva, e nemmeno a causa di eventuali morsi di topo (che potevano magari causare altre malattie), bensì a causa delle punture delle pulci che iniettavano la pasteurella.

Ed ecco il disvelamento, al termine di lunghi studi, di grande impegno scientifico e senza dubbio di forte impiego di fondi. Il fatto è, ci spiegherebbero i professori, che la gente del tempo si lavava poco, si cambiava di rado, non disinfettava abiti e ambienti. Se la peste ha infuriato è colpa delle loro pessime abitudini igieniche, razza di sudicioni: i poveri topi non ci mettevano niente di loro, si limitavano a fare i topi. Il che, da animalisti convinti e da ammiratori di Mickey Mouse quali tutti noi siamo, senza dubbio molto ci conforta. Resta, magari, qualche dubbio sull’opportunità di spendere energie intellettuali, tempo e danaro per giungere alla scoperta dell’acqua calda (ottimo coadiuvante nell’igiene intima, fra l’altro).

Le cose stanno evidentemente altrimenti. Lo studio in questione comproverà – è da ritenere – che, a parte il morso delle pulci veicolate dai topi, c’era anche quello di altri parassiti che viaggiavano per altro tramite: e che esso fu più importante nel risultato finale. Che l’igiene fosse poca, è il punto centrale e va da sé. Insomma, una ricerca importante e una precisazione interessante. Che non meritava forse di venir presentata dai media in modo così banale, equivoco e quindi involontariemente ridicolo. FC

*Tratto dal blog www.francocardini.net

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