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IN MERITO AL CASO CAPPATO. Di Francesco Mario Agnoli

Marco Cappato, 46 anni.

  Nel processo penale in corso davanti al Tribunale di  Milano, che vede imputato il radicale Marco Cappato per il reato previsto e punito dall’art. 580, all’udienza del 17 gennaio 2018, conclusa la discussione con la richiesta di assoluzione dell’imputato per insussistenza del fatto, i rappresentanti  dell’accusa hanno depositato una memoria d’udienza. I due pubblici ministeri, dopo avere ribadito la richiesta di assoluzione, chiedono al giudice, qualora ritenga di non potere senz’altro assolvere, di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 580  non nella sua totalità, ma nella parte in cui incrimina la condotta di partecipazione fisica o materiale al suicidio altrui senza escludere la rilevanza penale della condotta di chi aiuta il malato terminale o irreversibile a porre fine alla propria vita quando il malato stesso ritenga le sue condizioni di vita lesive del suo diritto alla dignità. In altri termini secondo i p.m. sarebbe costituzionalmente corretto incriminare la condotta di aiuto al suicidio  tranne che nel caso che l’aiuto venga prestata ad un malato terminale o irreversibile che ne faccia richiesta.

  Quanto alla domanda principale di assoluzione per insussistenza del fatto gli stessi pubblici ministeri si rendono conto della sua debolezza alla luce della legislazione vigente. Difatti, pur accettando l’affermazione che il Cappato non abbia né determinato né rafforzato l’altrui proposito di suicidio, è estremamente arduo ritenere che non ne abbia agevolato l’esecuzione dal momento che ha accompagnato alla clinica svizzera l’aspirante suicida non in grado di raggiungerla senza l’aiuto di un terzo. E’ quindi possibile ritenere che la condotta del Cappato non integri la previsione dell’art. 580 solo se s’interpreta la norma nel senso di escludere dalla sua previsione l’aiuto prestato a richiesta del malato terminale o irreversibile. Dal momento che tale eccezione non si rinviene nel disposto normativo il giudice potrebbe assolvere solo se, attraverso una interpretazione “costituzionalmente orientata”, la leggesse, per renderla compatibile col nostro ordinamento costituzionale e farla, quindi, sopravvivere,  come se contenesse  quella eccezione, non prevista dal legislatore, ma imposta dalla Costituzione. Se il giudice non si sente di aderire ad una interpretazione che presuppone una valutazione di incostituzionalità del testo attuale, i p. m., che ritengono violati  un bel po’ di articoli della Costituzione (2, 3, 8, 13, 25/comma 2, 117) gliene chiedono il rinvio  all’organo deputato a  simili valutazioni: la Corte  costituzionale.

   La presente nota è ospitata in un “sito” che non ha caratteristiche  di  rivista giuridica e si rivolge più che ai giuristi quanto ai non addetti ai lavori interessati all’operato dei loro giudici in un momento storico che li vede spesso trasformarsi in legislatori. Di conseguenza, non si occupa “tecnicamente” di tutte le  cinque argomentazioni poste a base della questione di costituzionalità, ma unicamente di quella  (la seconda) diretta all’individuazione del bene protetto dall’art. 580,  particolarmente preoccupante, perché mette direttamente in gioco il bene fondamentale dell’uomo oggi sotto attacco da parte di quella che non per caso viene definita “cultura della morte”.

   Secondo la “memoria di udienza” il bene tutelato dall’art. 580  nel testo vigente  non può essere, al contrario di quanto tradizionalmente, si ritiene il bene vita, o, quanto meno, il bene vita  che aveva in mente il legislatore del 1930, perché per la cultura dell’epoca si trattava di “un bene superindividuale, totalmente indisponibile da parte dell’individuo che ne è titolare, facente capo, in buona sostanza allo Stato, che si fa garante della sua conservazione”. In altri termini “l’interesse alla garanzia dell’individuo era assolutamente secondario rispetto a quello di sviluppo della collettività statale”. In conclusione “nelle intenzioni del legislatore storico, il suicidio non poteva che essere l’atto di chi, ancora nel pieno delle sue forze e della sua coscienza, si toglieva la vita con scopo autodistruttivo, sottraendo forza lavoro e cittadini alla Patria”.

 Si tratta di un’affermazione apodittica, in totale contraddizione con il testo della norma. Questa, non facendo alcuna distinzione di età, forza lavoro o altro, riguarda tanto il suicidio del prestante giovanotto del 1930-31 utile alla Patria, quanto quello dell’anziano debilitato o del vecchietto da ricovero, inidonei allora al servizio militare, e oggi ugualmente inutili alla Patria, perché non più produttori e modestissimi consumatori. In ogni caso ad annullare di un colpo solo le  elucubrazioni storico-giuridiche dei pubblici ministeri milanesi basta il fatto (forse non per caso omesso nella memoria) che, al contrario di quanto avveniva in altri ordinamenti penali (in Italia  con il codice Albertino del 1839 o in Inghilterra, dove l’abrogazione totale  del reato di suicidio si è avuta solo con il Suicide Act del 1961),  la norma in questione non incrimina la condotta suicidiaria in quanto tale e non punisce chi ha tentato il suicidio  nemmeno nel caso che dal fallimento residuino lesioni personali gravi o gravissime che lo rendano  del tutto inutile (anzi a carico della) alla Patria, fascista o liberaldemocratica che sia. Con questo implicitamente, ma necessariamente riconoscendo che il suicida ha disposto di un bene esclusivamente suo.

Francesco Mario Agnoli

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