Ci sarebbe da piangere, visto il livello d’idiozia, pregiudizio, fanatismo, ignoranza e ottusità congiunti in un episodio di cronaca: anzi, di cronaca dell’alta nobiltà. Ma forse vale la pena di notarlo, così, tanto per capire fino a che punto stiamo cadendo in basso.
Londra, Buckingam Palace, 22 dicembre. Pranzo prenatalizio offerto dalla regina: fra gli ospiti di maggior riguardo l’attrice Meghan Markle – origini afroamericane da parte di madre –, fidanzata del principe Henry secondogenito di Lady Diana (le fauste nozze sono previste per il maggio prossimo).
Tra gl’invitati s’insinua come in tutte le fiabe che si rispettano la Fatina Cattiva. Che per la verità è piuttosto una Fatina Svampita: trattasi di Marie Christine, consorte del principe Michael del Kent, bella signora nonostante le sue oltre settanta primavere. Una dama un po’ chiacchierata: tedesca di nascita, figlia del barone von Reibnitz, il quale pare aver avuto nel suo paese, durante gli Anni Trenta (ai suoi tempi capitava spesso), qualche simpatìa nazista, a sentir stampa e twitter si concede ogni tanto qualche esternazione di gusto razzista. Alla festa, la gran dama si è presentata ostentando su un’inappuntabile abito candido (bianco in onore della sua razza prediletta, si suppone…) una preziosa spilla del genere conosciuto in gioielleria e in bigiotteria come blackammor. Si tratta di un piccolo busto di africano, dal volto nero e dai tratti somatici riconoscibili, con un abito e un grande turbante di tipo turchesco tempestati di gemme.
Apriti cielo. Stampa, twitter e insomma media, prima in Inghilterra e poi in tutto il mondo, l’hanno o coperta d’ingiurie o messa impietosamente alla berlina. La sua sarebbe stata una “spilla razzista” o addirittura “schiavista” , che la perfida signora avrebbe indossato per umiliare la dolce Meghan ricordandole che i suoi antenati una volta accoglievano cotone nel Deep South. D’altronde la dama altro non ha potuto fare se non scusarsi confusa, assicurando che le sue intenzioni non erano affatto né razziste, né polemiche, né offensive. In fondo è solo un gioiello che un tempo andava molto di moda anche in Italia.
Altroché. Ed è un oggetto d’illustre origine e d’importante significato: che col razzismo e lo schiavismo non ha proprio nulla a che fare. Esso è al contrario imparentato con un’immagine nobilissima, quella del “Re Moro”, entrata nella simbolica e nell’immaginario occidentale nel pieno medioevo.
Certo, mori e “teste di moro” hanno a che fare con le crociate: e sono immagini del “Nemico della cristianità” dove, secondo una tradizioni che si rintraccia anche nell’agiografia, il colore nero ha un valore demoniaco. Appiattire e semplificare questo dato facendone un precedente del razzismo sarebbe però davvero molto grossolano. Discutiamone, invece. La “testa di moro” figura sovente in araldica – famosi i casi della Corsica e della Sardegna – come simbolo immaginario dei Saraceni, ma a partire almeno dal XII secolo essa entrò in contatto con qualcosa che ne avrebbe decisamente nobilitato l’immagine.
Il fortunato mutamento di sensibilità ebbe luogo grazie a un testo attribuito per tradizione al Venerabile Beda, e quindi in teoria risalente alI’VIII secolo: che in realtà può tuttavia essere addirittura del XII. Secondo tale testo, noto come Excerptiones Patrum, i magi di cui parla l’evangelista Matteo e che sono oggi presenti nei nostri presepi sarebbero il simbolo e in un certo senso anche i rappresentanti dell’umanità intera, ripartita nelle tre stirpi discendenti dai figli di Noè a ciascuna delle quali era stato dato in sorte di popolare un continente: a Sem l’Asia, a Japhet l’Europa, a Cam l’Africa.
Lo stabilire il numero dei magi (del quale Matteo non parla) significava conferir loro una qualche individualità: ma, una volta fatto questo, altri dati erano necessari. E, se i testi scritturali non li fornivano, bisognava costruirli.
Quanto ai nomi, la tradizione affermatasi in Occidente fornisce forme lontane da quelle attestate dal Libro della Caverna dei Tesori e vicine, semmai, al Vangelo armeno dell’Infanzia. In un manoscritto del VII-VIII secolo dei cosiddetti Excerpta latina barbari è attestata la forma Bithisarea, Melichior, Gathaspa; Agnello di Ravenna, scrivendo nel IX secolo e in una città dove il culto dei magi pare fosse molto forte e notevoli le sue rappresentazioni iconiche, propone la forma Melchior, Caspar, BaIthasar accettata anche dal commento al Vangelo di Matteo scritto da Sedulio Scoto e – più tardi, se la cronologia oggi prevalente è corretta – dallo Pseudo-Beda (una variante esclusivamente irlandese propone Melcisar, Belcisar, Hiespar).
Nel suo famoso Liber pontificalis Ecclesiae Ravennatis, Agnello, descrivendo le pitture che al suo tempo si potevano ammirare nella chiesa ravennate di San Martino e proponendone un’interpretazione ispirata ai gradi di perfezione, fondava anche un ordine tassonomico di precedenza che da allora in poi, ma forse già anche da prima, sarebbe divenuto tradizionale. Prima di tutto ecco dunque Gaspare, che offre l’oro e che ha un abito color giacinto, cioè violetto-blu, simbolo dello stato coniugale; quindi Baldassarre, che offre l’incenso in una veste gialla simbolo di verginità; e infine Melchiorre, il dono del quale è la mirra e l’abito screziato è simbolo di penitenza.
Lo Pseudo-Beda, in una descrizione che sembra quasi proporre soluzioni adatte a un pittore o a un organizzatore di sacre rappresentazioni, è ben più prolisso e fornisce dati diversi. Prima di tutti viene Melchior, vecchio e canuto, barba e capelli sciolti e lunghi, con una tunica color giacinto, mantello arancione, calzari misti di giacinto e di bianco: egli offre l’oro, dono adatto al Signore in quanto re. Poi giunge Caspar, un giovane imberbe dal bell’incarnato, con tunica arancione, mantello rosso, calzature color giacinto: egli offre l’incenso, dono che si fa a Dio. Infine, ecco Balthasar, cupo in volto o scuro d’incarnato (fuscus), con una tunica rossa, un mantello bianco screziato, calzature arancioni: egli offre la mirra, dono adatto a un mortale.
In tal modo si collegavano un preciso mago a un dono e a un significato desunto dalle tre qualità del Cristo, al tempo stesso vero Dio, vero Re e vero Uomo. Anche la nota relativa al mago fuscus avrebbe avuto la sua importanza: essa si sarebbe collegata a un continente, l’Africa, e a una razza precisa, la camita: in tal modo il mago fuscus sarebbe divenuto più tardi un nero. Ma già santa Elisabetta di Schönau lo presentava come molto scuro di carnagione, forse pensando a un nubiano o a un etiope, figure comuni nell’agiografia e di solito dotate di una valenza negativa anche se presto si sarebbe cominciato a effigiare come un modo anche il martire nubiano Maurizio (Mauritius a mauro: maurus, quindi “moro”), capo della Legione Tebea.
Da allora, immagini di africani e addirittura di santi africani s’incontrano sempre più spesso nella nostra pittura. Dopo il Quattrocento, poi, grazie al diffuso movimento estetico (e non solo) noto come “orientalismo”, a sua volta collegato col più ampio “esotismo”, i neri ebbero ancora più fortuna: con una funzione varia, a volte addirittura erotica, ma di solito non o non necessariamente negativa. Le spille blackamoor, non meno dei celebri lampadari veneziani nei quali un negretto regge una torcia, divennero comunissimi fra Sei e Novecento. C’è voluta la straordinaria miscela d’ignoranza e di fanatismo dei nostri tempi per individuare in un gioiello dalla storia artigianamente parlando nobilissima e dai precedenti culturali profondi un simbolo razzistico e schiavista. A questo punto è la notte.
Franco Cardini
*Tratto dal blog dell’autore