Può sembrare fuor di luogo tornare sull’argomento a così breve distanza dalla pubblicazione del mio “Eutanasia e testamento biologico”, al quale ha fatto immediato seguito un approfondito esame della legge ad opera di Roberto De Albentiis (“Le dichiarazioni anticipate di trattamento e la fine della civiltà”). Tuttavia le argomentazioni giuridiche e il richiamo ai grandi principi corrono il rischio di soccombere di fronte ad argomentazioni elogiative di apparente buon senso, come quelle pubblicate da Italia Oggi del 18 dicembre. Si tratta di un breve commento di Marino Longoni, che contrappone agli “approcci ideologici”, come definisce le reazioni di chi considera le DAT “il primo passo di un percorso che dovrebbe portare all’eutanasia” e quelle di “chi vi legge il venir meno alla sacralità della vita umana”, il contenuto molto più prosaico di una legge che, a suo avviso, cerca solo “di razionalizzare e di mettere in sicurezza quello che probabilmente nella pratica già avviene da tempo anche se in modo informale”. Il progredire della scienza medica – scrive – consente, con medicinali e macchinari sempre più sofisticati, di mantenere la vita anche per lunghi anni senza però che ci sia alcuna speranza di miglioramento. In sostanza “le disposizioni anticipate di trattamento consentono a ciascuno di prevedere questa eventualità e di dettare le proprie disposizioni in merito”. Dal momento che “la prospettiva di rimanere in vita in condizioni di incoscienza e senza alcuna possibilità di miglioramento non sembra molto allettante” è possibile che col tempo sempre più persone dettino “disposizioni volte ad abbreviare la propria agonia nel caso si verifichi una eventualità simile”. La legge non fa altro che consentire “di regolarsi in questo senso, dando certezze e alleviandogli scrupoli di coscienza non solo dei familiari, ma anche dei sanitari che avranno in cura il futuro paziente”. Per altro lo fa dopo aver “circondato il momento della scelta definitiva di una serie di precauzioni e di attenzioni” in modo da assicurare il rispetto della volontà del diretto interessato.
Si tratta di una versione che riduce l’oggetto della legge a poco più dell’esclusione dell’accanimento terapeutico e sempre nel rispetto della volontà del paziente. Pur rinunciando a tutti gli “approcci ideologici”, è proprio la prosaica realtà a fornire la prova (anche sulla base di quanto avviene in altri paesi) sia della natura eutanasica della legge sia della possibilità che esseri umani vengano soppressi senza il concorso della loro volontà.
Ho già avuto occasione di scrivere in altra sede che le Dat mettono l’Italia in una situazione normativa abbastanza simile a quella della Gran Bretagna, dove pochi mesi fa il piccolo Charlie Gard, che, non avendo compiuto l’anno, non era in grado di esprimere la propria volontà, è stato “terminato”, perché la condanna a morte decretata dal London’ Great Osmond Street Hospital ha prevalso sulla volontà dei suoi naturali e legali rappresentanti: i genitori, impegnati allo spasimo nel tentativo di salvarlo. A tagliarli fuori è bastato un semplice inghippo processuale, perfettamente applicabile anche in Italia quando si tratta di minori e incapaci. Il giudice dell’Alta Corte incaricato del caso ha ipotizzato un potenziale conflitto d’interessi fra i genitori, che lo volevano vivo, e il minore, che, a suo parere, avrebbe potuto preferire la morte ad un vita non degna di essere vissuta, e gli ha nominato un curatore, affrettatosi a schierarsi con l’amministrazione ospedaliera. Sempre in Inghilterra il caso si ripropone con Alfie Evans, un bambino di 18 mesi ricoverato in coma all’Alder Hey Children Hospital di Liverpool per una malattia che i medici non sanno diagnosticare. I genitori, Thomas e Katie, si oppongono, ma l’amministrazione ospedaliera, considerando inutile la sua vita, ha chiesto all’Alta Corte l’autorizzazione a sopprimerlo.
Con le Dat i prossimi Cherlie e Alfie potranno essere italiani.
Tuttavia nemmeno i maggiorenni attualmente capaci di intendere e di volere sono al sicuro da quello che si potrebbe chiamare “l’effetto Eluana”e se non provvedono ad avvalersi della via di scampo loro offerta (forse per errore, perché il legislatore non ci ha pensato, o per l’impossibilità di fare altrimenti) proprio dalle Dat. L’opinione prevalente fra i fautori della legge sembra nel senso che interessato a compilare le dichiarazioni anticipate di trattamento sia unicamente chi, volendo morire con dignità, sceglie il distacco della spina. E’ vero il contrario. Chi vuole spegnersi secondo natura ha tutto l’interesse ad esprimere questa sua volontà, accompagnata dalla nomina di un “fiduciario”, degno della massima fiducia e anche abbastanza determinato per resistere alle pressioni che tenteranno di indurlo a consentire ad una morte con dignità del suo patrocinato. Soprattutto del medico, che, come gli consente la legge, potrebbe pretendere di disattendere la scelta di prolungare la propria agonia col definirla “palesemente incongrua o non corrispondente alla condizione clinica attuale del paziente”. Chi non lo fa è a rischio che, in caso di indebolimento delle sue capacità fisiche e mentali per malattia o vecchiaia (si badi che non occorre una vera e propria, conclamata incapacità di intendere e volere), gli venga nominato un curatore speciale o un amministratore di sostegno, opportunamente scelti fra sostenitori della buona morte, perché l’intento, nemmeno troppo nascosto, del legislatore è che abbia ragione Longoni e che “sempre più persone dettino disposizioni volte ad abbreviare la propria agonia”.
Forse nemmeno la nomina di un fiduciario garantisce al 100%, ma certamente rende più difficile la nomina, agli effetti del fine vita, di un curatore speciale o di un amministratore di sostegno.
Francesco Mario Agnoli